lunedì, Febbraio 10, 2025

I dazi di Trump sconvolgeranno il mercato dell’oro in occidente?

La politica dei dazi americana sta portando inattese conseguenze nel mercato occidentale dell’oro, già provato dalla pressione asiatica e soprattutto cinese che ha sottratto a Londra il suo tradizionale controllo sui prezzi di questo metallo (come spiegato qui).

Conseguenze dei dazi sul prezzo dell’oro in dollari

Il Messico e il Canada sono due dei maggiori fornitori di oro importato dagli Stati Uniti. Delle 12,1 tonnellate di oro importate negli Stati Uniti a ottobre 2024, i primi tre fornitori sono stati la Colombia (25% del totale), il Messico (24% del totale) e il Canada (13% del totale). Di conseguenza, i dazi del 25% sull’oro importato dal Messico o dal Canada aggiungerebbero 700 $ l’oncia al prezzo dell’oro. Dunque, ipotizzando il prezzo attuale dell’oro di 2800 $, il prezzo finale dovrebbe arrivare a un incredibile 3500 $ l’oncia. Tutto ciò in un contesto in cui l’oro ha già raggiunto un massimo storico.

Lo squilibrio dei prezzi e dei flussi di oro tra Londra e New York

I timori di prezzi di importazione più alti hanno perciò innescato una corsa per importare oro fisico negli Stati Uniti, con i trader del COMEX che hanno aumentato i prezzi dei future sull’oro per assicurarsi un’esposizione a una quantità sufficiente di oro consegnabile negli Stati Uniti.

Questa impennata di prezzo a sua volta ha costretto i venditori allo scoperto a coprire le loro posizioni; il che ha spinto i prezzi del COMEX più in alto rispetto al prezzo spot LBMA di Londra. Cosi’, man mano che lo spread COMEX-Londra si allargava, i trader di Londra si sono affrettati a trasportare più oro a New York per sfruttare l’opportunità di arbitraggio.

La “corsa agli sportelli” al Comex

La previsione di un aumento del prezzo dell’oro ha anche fatto aumentare le richieste di consegna di oro fisico da parte dei possessori di certificati di deposito (derivati) al Comex. Nella piazza newyorkese infatti i detentori a lungo termine non hanno rinnovato i loro contratti, ma hanno deciso di riscattare l’oro fisico alla scadenza del contratto.

In totale, nei primi 2 giorni di febbraio sono andati in scadenza e riscattati 40.649 contratti, che rappresentano 126 tonnellate di oro per un valore di 11,38 miliardi di $.

Londra rifornisce New York per consentire di far fronte a queste richieste di riscatto

A dicembre 2024, le esportazioni di oro da Londra direttamente negli Stati Uniti sono aumentate di 64,5 tonnellate, un aumento di 11 volte rispetto al mese precedente e il totale mensile più alto da marzo 2022. Allo stesso modo, anche l’oro svizzero è stato instradato verso Londra e poi inviato agli Stati Uniti. A dicembre, infatti, le esportazioni di oro svizzero verso Londra sono aumentate anche di 14,3 tonnellate, da 1 tonnellata durante il mese precedente.

Per rifornire New York, Londra rischia una carenza di oro fisico

Mercoledì 29 gennaio, il London Financial Times ha diffuso la notizia di una carenza di oro nel mercato di Londra. In un articolo intitolato “Gold Stockpiling in New York leads to London shortage”, il giornale ha rivelato che la minaccia dei dazi statunitensi e l’opportunità di arbitraggio sul COMEX hanno creato una carenza estrema di oro in cui “l’attesa per ritirare i lingotti conservati nei caveau della Banca d’Inghilterra è aumentata da pochi giorni a quattro-otto settimane”.

Per fare fronte a queste carenze, le banche della London Bullion Market Association (LBMA) hanno preso in prestito oro dalla Banca d’Inghilterra in modo da trasportarlo via mare a New York.

La carenza di oro a Londra potrebbe diventare sistemica

Normalmente erano gli Stati Uniti a importare oro esente da dazi da Canada e Messico, rifornendo il Regno Unito e la Svizzera.

Perciò, anche se l’attuale inversione di questo flusso da Londra a New York per fare fronte alle aumentate richieste di riscatto al COMEX di New York fosse solo un fenomeno transitorio, il mancato apporto sistemico di oro canadese e messicano nel Regno Unito potrebbe restringere ulteriormente la liquidità nel mercato LBMA di Londra.

L’unica soluzione alternativa sarebbe che Messico e Canada dirottassero il loro oro direttamente alle raffinerie in Svizzera o in altre località, bypassando completamente gli Stati Uniti. Tuttavia, ciò creerebbe comunque ritardi logistici e potenziali dislocazioni nella catena di fornitura globale dell’oro, esercitando ulteriore pressione sulle scorte di oro disponibili a Londra.

Uno sguardo sull’argento

Messico e Canada sono anche i due maggiori fornitori di argento degli Stati Uniti. Ad esempio, nel mese di ottobre gli Stati Uniti hanno importato 163.000 kg di argento dal Messico e 92.500 kg di argento dal Canada.

Nel mese di ottobre 2024, Messico e Canada hanno rappresentato l’80% di tutte le importazioni di argento dagli Stati Uniti. L’imposizione di una tariffa di importazione del 25% sulle importazioni di argento dal Messico e dal Canada avrà quindi un impatto negativo enorme sul mercato dell’argento degli Stati Uniti. Con quali conseguenze? Staremo a vedere…

Conseguenze sistemiche a lungo termine sull’oro

Se lo spread tra le due piazze rimane elevato per un periodo prolungato, si pone la questione di quanto oro il mercato di Londra può continuare ancora a fornire a New York prima che le scorte non riescano piu’ a reggere.

La persistenza dello spread suggerirebbe anche che non si tratterebbe solo di un problema di arbitraggio a breve termine, ma dell’inizio di una crisi sistemica all’interno della quale potrebbe persino esserci un programma di accumulo strategico da parte del governo degli Stati Uniti sotto la cortina fumogena delle tariffe, forse mirato a drenare la liquidità dell’oro da Londra e consolidare le riserve auree nei caveau americani.

Se le scorte d’oro di Londra si esaurissero più velocemente di quanto possano essere ripristinate, si potrebbe innescare una stretta dell’offerta che esporrebbe le debolezze del mercato globale dei lingotti e forzerebbe un drastico riprezzamento (verso l’alto) dell’oro fisico, soprattutto se altre banche centrali o altre entità sovrane, soprattutto asiatiche, reagissero accelerando il proprio ritiro di oro da Londra.

La domanda cruciale quindi è se l’attuale crisi sia solo una dislocazione temporanea o l’inizio di un più ampio spostamento del mercato globale dell’oro dai derivati verso il metallo fisico.

Inutile dire che monitoreremo attentamente questo importante fenomeno.

Perché il dollaro troppo forte sta riducendo la liquidità globale

A partire dall’amministrazione Biden, gli Stati Uniti hanno registrato il tasso di immigrazione più rapido dagli anni ’50 dell’Ottocento, con l’arrivo di quasi 4 milioni di immigrati (legali) solo nel 2024.

L’immigrazione crea molte conseguenze indirette sull’economia, da una maggiore concorrenza occupazionale, all’aumento dei prezzi immobiliari, alla crisi dell’offerta di alloggi a questioni culturali e politiche in senso lato. Pertanto questa ondata migratioria fuori dal comune, va considerata una misura temporanea il cui obiettivo è stato quello di sostenere l’economia post-pandemica caratterizzata dalla eccezionale produzione di debito pubblico.

Ma perché una forte immigrazione dovrebbe sostenere il debito pubblico?

Il motivo è che l’immigrazione incrementa la forza lavoro.

E a sua volta, è la forza lavoro a sostenere il debito pubblico:

Questo grafico ad esempio ci mostra una situazione tipica di un paese economicamente sviluppato, quali sono gli USA, dove la costante diminuzione della forza lavoro dovuta alla cronica diminuzione della popolazione (curva nera) fa impennare il peso del debito pubblico sul PIL (la curva rossa è invertita per evidenziare la sua stretta correlazione con la curva nera, ma va immaginata come se si impennasse in modo esattamente opposto alla caduta della curva nera).

L’amministrazione Biden ha quindi pensato di arginare, almeno temporaneamente, i pesanti effetti di un aumento fuori dall’ordinario del debito pubblico, quale quello verificatosi durante la pandemia, con un altrettanto straordinario aumento della forza lavoro causato da una eccezionale ondata migratoria,  paragonabile a quella di un paese del terzo mondo confinante con un teatro di guerra.

E gli effetti sono stati subito visibili.

Infatti, da quando è iniziata questa inusuale spinta all’immigrazione, l’aumento costante del debito pubblico rispetto al PIL si è fermato ed ha anche iniziato una debole discesa dal 2021 (cerchio rosso):

L’amministrazione Biden ha cosi’ creato una situazione nella quale la Federal Reserve ha potuto “riprendere fiato”, interrompendo gli acquisti programmati dei titoli di stato USA e la contemporanea riduzione dei tassi d’interesse, entrambi in corso da oltre un decennio.

Ufficialmente la Fed ha “ripreso fiato” per combattere l’inflazione, ma in realtà, le politiche della Fed hanno ormai poco a che fare con il controllo dell’inflazione e sono determinate da altri fattori che abbiamo già descritto su Telegram e sulla nostra newsletter, uno dei quali è proprio l’aumento della forza lavoro attraverso l’immigrazione.

Di conseguenza è probabile che se il rapporto debito/PIL (curva rossa) raggiungerà nuovi massimi, la FED si sentirà spinta ad acquistare i titoli di debito del governo:

Ma per ora, come abbiamo detto in altri articoli, la Fed cercherà di assicurare liquidità al sistema con mezzi alternativi, quali il mercato repo e le norme bancarie meno restrittive (lo abbiamo detto qui).

C’è però un effetto indiretto di questa impostazione della Fed sui paesi esteri.

Cina e Giappone ad esempio non utilizzano l’immigrazione per incrementare la forza lavoro e tenere sotto controllo il debito pubblico.

Questi due paesi perciò sono costretti a produrre elevata liquidità sotto forma di debito pubblico e quindi, contemporaneamente, mantere bassi i tassi d’interesse per non far pesare questo debito sulle casse governative come spese per interessi.

E difatti questi paesi hanno interrotto solo per pochissimo tempo la stampa di denaro attraverso le politiche delle loro banche centrali.

La Cina, ad esempio, nel 2023 è tornata a impegnarsi in un nuovo ciclo di allentamento monetario in grande stile che per un periodo ha fatto aumentare la liquidità globale, innestando trend a rialzo in tutti gli asset speculativi, incluse le criptovalute. E questo proprio mentre la Fed tirava ancora il freno sulla liquidità.

Tuttavia, nel 2024, questo allentamento monetario cinese che sembrava un programma a lungo termine, si è bruscamente interrotto, facendo di nuovo calare la liquidità globale (cerchio rosso):

Il motivo è legato appunto alla nuova impostazione della Fed con cui assicura liquidità in modo nascosto all’interno del proprio sistema finanziario, rifiutandosi però di alleggerire il peso del dollaro per le banche centrali estere con una riduzione piu’ decisa dei tassi di interesse.

La conseguenza è che il dollaro è semplicemente troppo alto; perciò se Cina o Giappone continuassero l’allentamento monetario con un dollaro cosi’ forte, le loro valute potrebbero andare fuori controllo.

Trump sa bene che il valore dollaro è attualmente insostenibile per il sistema globale. Solo 2 settimane fa egli infatti aveva ha dichiarato pubblicamente che: “i tassi di interesse negli Stati Uniti sono troppo alti”.

È molto probabile perciò che il nuovo Presidente degli Stati Uniti userà il dollaro forte come strumento di negoziazione con Cina, Giappone e molti altri paesi che hanno disperatamente bisogno che il dollaro scenda.

Scott Bessant, il neo-nominato capo del Tesoro degli Stati Uniti, è sulla stessa lunghezza d’onda e cercherà di attuare le misure necessarie per ridurre il valore del biglietto verde.

Una situazione simile si verificò nella precedente presidenza Trump; ed ecco cosa successe:

Come mostra la curva blu, anche allora Trump si preoccupò di ridurre un dollaro troppo forte. E la somiglianza con la situazione attuale (curva rossa) è suggestiva…

In conclusione, la liquidità mondiale tornerà ad incrementarsi solo se e quando Trump riuscirà ad abbassare l’eccessivo valore del dollaro.

Fino ad allora, borse e criptovalute resteranno in un trend stazionario.

Quel fattore che sta influenzando le borse e bitcoin a tua insaputa

Abbiamo piu’ volte detto che il fattore che influenza piu’ di ogni altro l’andamento degli asset speculativi, dalle borse alle criptovalute, è la liquidità globale circolante.

Il grafico qui sotto, che rappresenta la relazione tra bitcoin (curva rossa) e la liquidità globale (curva nera), lo dimostra in modo inequivocabile:

Dal momento che la maggior parte di questa liquidità globale è espressa in dollari, gli importanti cambiamenti nel modo in cui questi dollari vengono gestiti, sia dalla Federal reserve che dalle banche centrali degli altri paesi, determina in modo diretto e immediato i trend a medio e lungo termine di tutti gli asset speculativi.

Negli ultimi 20 anni, fino al 2021, la liquidità in dollari veniva immessa nell’economia principalmente mediante i ben noti programmi di allentamento monetario della Federal Reserve.

Nel corso degli anni, tutti i mercati speculativi si sono tarati su questo tipo di gestione che comportava lunghe fasi di rilascio costante e programmato di liquidità alternate a brevi pause e rallentamenti.

Il rilascio avveniva sia mediante riduzione dei tassi d’interesse, sia con l’acquisto, da parte della Fed, di titoli di stato USA in cambio di dollari cash che venivano rilasciati nel sistema (il cosiddetto QT).

Tuttavia, a partire dal 2023, questo sistema molto semplice di trasferimento della liquidità è definitivamente tramontato, anche se i mercati non lo hanno ancora capito e continuano a dipendere, almeno nei trend di breve, dalle decisioni di natura monetaria che la Federal Reserve annuncia piu’ volte durante l’anno.

Il fatto che la Fed non effettui piu’ questi cicli di allentamento monetario, non vuol dire però che la liquidità in dollari circoli di meno nel sistema. Al contrario, il mondo continua ad avere costante bisogno di liquidità e trova modi alternativi per procurarsela.

Come la Fed continua a immettere liquidità in modo nascosto

Nel 2024 la Fed ha immesso liquidità in modi diversi dal solito, ad esempio:

  • riducendo i requisiti di liquidità richiesti alle banche a copertura dei loro bilanci (permettendo cosi’ alle banche di usare piu’ titoli di stato per i prestiti alle imprese e quindi di aumentare i dollari circolanti).
  • Immettendo direttamente liquidità nel mercato repo (il mercato nel quale le banche si prestano denaro per riequilibrare i loro bilanci a fine giornata).

C’è poi il Tesoro degli Stati Uniti, che durante tutto il periodo in cui la Federal Reserve ha ritirato circa un trilione e mezzo di dollari dal sistema, ne ha immessi in circolazione piu’ del doppio, aumentando il proprio indebitamento (cioè dando mandato alla Fed di immettere molti piu’ titoli di stato a copertura delle spese del governo).

La liquidità cosi’ creata è già di per sé paragonabile a quella che la Fed normalmente creava con i programmi di allentamento monetario. Ma poi in aggiunta dobbiamo considerare la liquidità che viene creata al di fuori degli Stati Uniti, nel cosidetto sistema del dollaro offshore (London Eurodollar Market), principalmente nei paradisi fiscali delle ex colonie britanniche.

Il sistema del dollaro offshore e il suo ruolo nell’aumentare la liquidità in dollari globale

La comprensione di questo fenomeno è forse difficile per il profano, perché normalmente i media ci dicono che i paesi esteri stanno disinvestendo i titoli di stato americani. Il che è stato vero fino al 2023.

La quota di partecipazioni estere del debito USA era infatti scesa dal picco del 34% del 2015 a un minimo del 22,2% nell’ottobre 2023.

Il motivo per cui le banche centrali, soprattutto giapponesi e cinesi, avevano disinvestito questi titoli americani non era, come si crede di solito, per effettuare una fantomatica “dedollarizzazione”. In realtà, piu’ prosaicamente, i titoli americani venivano venduti per fare cassa e sopperire agli improvvisi cali di liquidità che si erano creati un pò in tutto il mondo da quando la Fed aveva iniziato ad alzare i tassi d’interesse.

Nel 2024 la situazione si è del tutto ribaltata.

Il debito del Tesoro detenuto dalle entità straniere è risalito dell’11,5% anno su anno (+$880 miliardi), raggiungendo il massimo storico di $8,50 trilioni.

Dall’ottobre 2023, le entità straniere hanno aumentato le loro partecipazioni in dollari a un ritmo più veloce che mai, fino a raggiungere il 24,1%, cioè il livello più alto in due anni.

Questa volta, però, gli aumenti hanno interessato solo moderatamente le banche centrali dei soliti paesi, come Giappone e Cina, mentre gran parte della liquidità si è riversata in sei centri finanziari considerati “paradisi fiscali”, che ora posseggono titoli in dollari per un valore pari a $2,51 trilioni: Londra, Belgio, Lussemburgo, Svizzera, Isole Cayman e Irlanda.

I paradisi fiscali al centro del sistema finanziario globale

La tendenza a trasferire la liquidità nei centri offshore non è un fatto occasionale, ma un vero e proprio trend che dura da circa un decennio.

Dal 2012 a oggi, infatti, questi centri finanziari hanno più che triplicato la loro esposizione al debito USA, arrivando appunto al record di 2,51 trilioni che abbiamo detto.

Questi paradisi offshore sono specializzati nella gestione dei titoli finanziari di multinazionali, istituti finanziari di vario tipo, cartelli della droga, entità che gesticono traffici di armi, persone e organi, e, naturalmente, governi.

Il piu’ attivo di questi, le Isole Cayman, sono ormai il quinto centro finanziario più grande al mondo e ospita 80.000 società registrate, oltre i tre quarti degli hedge fund mondiali e 1,9 trilioni di dollari di depositi.

Il trend della liquidità offshore riflette un cambiamento strutturale dell’economia globale che, da quando è scoppiata la guerra in Ucraina, è accelerato e sta ridisegnando i rapporti tra i paesi e le loro economie nel segno di una sempre piu’ pronunciata “economia di guerra”.

Intendiamo l’“economia di guerra” nel senso ampio del termine, che implica non solo la necessità di aumentare la liquidità nascosta a sostegno dei flussi di armamenti che devono spesso essere mantenuti “top secret”, ma anche il bisogno di sottrarre parte delle risorse dei paesi al valzer di sanzioni incrociate e di minacce varie alle sovranità nazionali che emergono normalmente nei contesti di guerra, sia fredda che calda.

Ora, tirando le somme, dobbiamo considerare che gran parte della liquidità in dollari prodotta in queste vie alternative, sia fuori che dentro gli Stati Uniti, ha la caratteristica di essere difficilmente tenuta in considerazione dagli analisti di borsa, che, come già detto, sono ancora legati al sistema ormai obsoleto delle immissioni di liquidità in grande stile della Fed.

Ecco perchè i mercati si comportano come se nel mondo la liquidità sia meno di quanta ve n’è effettivamente.

Certamente prima o poi gli analisti e gli esperti di finanza inizieranno a capire i nuovi meccanismi della liquidità e il loro influsso sulle borse, ma per arrivare a questo, probabilmente dovremo attraversare un periodo di adattamento di alcuni anni.

E in questo lasso di tempo avremo trend di borsa meno definiti e piu’ brevi. I comportamenti degli investitori e i flussi di capitali negli asset speculativi saranno meno comprensibili e prevedibili. Investire sarà un mestiere piu’ rischioso e incerto. Finché non arriveremo a un nuovo standard che consenta analisi semplici e ripetitive anche ai meno esperti.

Fino ad allora, perciò, affidarsi a chi si improvvisa e a chi segue le fonti di informazione piu’ superficiali sarà deleterio per chi investe in borsa. Ecco perché consiglio sempre di seguire la nostra newsletter e il canale Telegram per non restare indietro nella comprensione dei prossimi trend legati alla liquidità globale.

Bitcoin, Ethereum e la fine della globalizzazione: un bivio storico

Quando, nel 2022, Ethereum completò con successo “The Merge”, il suo piu’ famoso aggiornamento con cui passò dalla “proof of work” alla “proof of stake”, sembrò un cambiamento epocale.

Erano ancora in piedi le illusioni della globalizzazione e della lotta al cambiamento climatico, con cui la parte delle élites globali legata al Grande Reset sembrava pronta a conquistare il mondo.

Nessuno poteva pensare che di li’ a poco un’altra parte di élites legate all’industria bellica, alle banche centrali e alle classi dirigenti delle superpotenze, avrebbe fatto deragliare il treno della storia, ponendo fine alla globalizzazione e rendendo impossibile, senza quest’ultima, la necessaria velocità ed economicità degli scambi di materie prime e prodotti finiti indispensabili alla realizzazione dei piani legati alla transizione energetica.

Quasi tre anni dopo, in un mondo in cui la priorità è diventata la guerra, o la preparazione ad essa, la transizione energetica e le altre trasformazioni epocali del Grande Reset li ritroviamo ormai solo nei vuoti slogan dei piani assistenziali che ancora per poco alimentano le politiche locali europee. Ma la politica che conta ha ormai altri obiettivi: la chiusura delle frontiere mercantili, l’adozione di economie di guerra e la necessità di compattare le società, rendendole atte allo sforzo bellico, mediante restrizioni alle libertà di parola, di movimento e di autodeterminazione finanziaria.

In questo nuovo scenario, in cui il mondo è ormai spaccato nei due settori geopolitici predestinati allo scontro: la parte nord-occidentale e quella sud-orientale (chiamata impropriamente “sud del mondo”), la “proof of stake” , la cui unica ragion d’essere era la riduzione del consumo energetico, inizia a somigliare a tanti altri progetti tipici del mondo cripto, pensati a tavolino da persone del tutto scollegate dalla realtà per rispondere ai bisogni di un’umanità immaginaria.

Al contrario, nella parte sud-occidentale di questo mondo, alcune nazioni emergenti stanno ridefinendo il ruolo delle criptovalute nell’economia e nella società.

Una quieta rivoluzione è in atto nei paesi emergenti

L’indice globale di adozione delle criptovalute di Chainalysis ci mostra la crescente importanza di questa parte del pianeta riguardo all’adozione delle criptovalute:

Ricordiamo che l’adozione, cioè l’uso pratico delle cripto, è ben diversa dall’investimento nelle cripto.

In quest’ultimo, la parte nord occidentale del mondo è ancora prevalente.

Ma, come mostra il grafico, nell’adozione l’America Latina, L’Europa dell’Est e l’Africa Sub Sahariana, assieme all’Estremo Oriente, formano una compagine che distacca di molto il resto del mondo.

L’adozione delle criptovalute nei mercati in via di sviluppo e quelli emergenti è guidata da tre fattori chiave:

Rimesse: il mercato globale delle rimesse (i trasferimenti di denaro e beni da parte degli espatriati verso la loro patria d’origine), valutato a 887 miliardi di dollari nel 2024, è stato rivoluzionato dalle criptovalute, che offrono trasferimenti istantanei e a basso costo.

Copertura contro l’inflazione: nei paesi alle prese con l’instabilità economica, le criptovalute forniscono un modo per preservare la ricchezza fuori dalla portata delle politiche monetarie del governo. Dati recenti mostrano che bitcoin ha raggiunto nuovi massimi storici in paesi come Argentina e Nigeria, dove le valute locali si sono fortemente svalutate.

Inclusione finanziaria: con circa 1,7 miliardi di adulti che rimangono senza servizi bancari a livello globale, le criptovalute, insieme alla crescente penetrazione degli smartphone, forniscono servizi di tipo bancario a popolazioni precedentemente svantaggiate.

Innovazione nata dalla necessità

Il sud-est del mondo ci fornisce svariati esempi di un tipo di innovazione del settore cripto che nasce dai bisogni reali delle persone e non dai sogni di pochi gruppi di potere confinati in castelli dorati.

Faccio un rapido elenco non esaustivo.

Nei paesi con reti elettriche inaffidabili, stiamo assistendo allo sviluppo di soluzioni di transazioni offline e reti mesh per i trasferimenti di bitcoin.

Queste innovazioni, nate dalla necessità, potrebbero potenzialmente rivoluzionare il modo in cui le criptovalute vengono utilizzate a livello globale.

Inoltre, molti mercati emergenti stanno promuovendo comunità crittografiche coese e localizzate.

In luoghi come il Kenya e le Filippine, stiamo assistendo alla crescita di gruppi di risparmio basati sulle criptovalute e di reti di prestito peer-to-peer.

Poi c’è la Nigeria.

Il paese ha abbracciato bitcoin e altre criptovalute come strumenti per la sovranità economica, in particolare a fronte delle restrizioni governative sul commercio di criptovalute.

Il divieto, nel febbraio 2021, da parte della Banca Centrale della Nigeria sui servizi bancari di transazioni di criptovaluta, ha stimolato l’innovazione nel trading DeFi e peer-to-peer (P2P).

Numerosi gruppi WhatsApp e Telegram sono emersi come mercati decentralizzati in cui i nigeriani scambiano criptovalute direttamente tra loro, aggirando gli intermediari finanziari tradizionali.

Questi gruppi, spesso organizzati da comunità locali o studenti universitari, incarnano i principi fondamentali di decentralizzazione e inclusività finanziaria per cui le criptovalute erano state progettate.

Inoltre, gli sviluppatori nigeriani sono i primi produttori di soluzioni DeFi utilizzate in molti paesi africani.

Progetti come Xend Finance, una piattaforma DeFi costruita sulla Binance Smart Chain, consentono alle cooperative di credito e ai singoli individui di risparmiare e investire in criptovalute e stablecoin, proteggendo i loro fondi dalla svalutazione delle valute fiat locali.

All’inizio del 2024, Xend Finance ha segnalato oltre 50.000 utenti attivi in ​​Nigeria e altri paesi africani, dimostrando che, nel mondo reale, le criptovalute possono davvero essere utili nella lotta all’instabilità valutaria.

L’Argentina presenta un caso altrettanto convincente.

In un contesto di ricorrenti svalutazioni valutarie, gli Argentini utilizzano sempre più stablecoin ancorate al dollaro come riserva di valore.

Questa tendenza ha portato alla nascita di conti di risparmio e piattaforme di prestito basati su criptovalute, i quali forniscono servizi finanziari che le banche tradizionali ormai faticano a offrire in un contesto economico in rapida degenerescenza.

Un sondaggio del 2023 condotto dall’Università di Buenos Aires ha rilevato che il 22% degli Argentini detiene una qualche forma di criptovaluta come protezione dall’inflazione.

Uso di bitcoin nell’economia reale

La gestione di Mircrostrategy del proprio bilancio si basa sull’uso di bitcoin come riserva di valore che periodicamente si rivaluta, ridefinendo la capitalizzazione totale dell’azienda e permettendo l’uso dei profitti derivanti dalle normali attività aziendali (produzione di software) per calmierare interamente i debiti.

Una strategia simile viene adottata in El Salvador.

Entrambi i casi d’uso sono ormail famosi e su Internet si trova molto materiale in inglese che consente di approfondirli.

Pochi invece conoscono il caso del Buthan e la sua ridefinizione del concetto economico di “esportazione energetica”.

Il Bhutan, un paese di soli 780.000 abitanti, estrae bitcoin utilizzando le risorse idroelettriche del paese. Attualmente le sue riserve di btc (circa 13.000 btc) sono le quinte al mondo (superiori anche a quelle di El Salvador) e ammontano a un valore di 780 milioni di dollari, pari al 25% del suo PIL totale.

Se ci riflettiamo, vediamo che questo è un nuovo modo di concepire l’esportazione di energia da parte di un paese in via di sviluppo.

Invece di estrarre/generare risorse energetiche tradizionali, esportandole attraverso reti di infrastrutture fisiche che abbracciano tutto il continente, il Bhutan ha esportato la propria energia digitalmente (vendendo la propria energia alla rete bitcoin).

Attualmente, il Bhutan ha creato un gruzzolo in btc che potrebbe eguagliare, o addirittura superare il suo PIL totale, se/quando bitcoin superasse i 100.000 dollari di valore.

3 lezioni per l’Occidente

I modelli di adozione nei mercati emergenti offrono lezioni preziose per le economie sviluppate occidentali:

Focus sull’utilità: il successo delle criptovalute nel risolvere i problemi del mondo reale nei mercati emergenti dimostra l’importanza dell’utilità rispetto alla mera progettazione ultratecnologica fine a se stessa. I mercati occidentali potrebbero trarre vantaggio dallo sviluppo di applicazioni pratiche che rispondano a reali esigenze finanziarie.

Inclusione finanziaria come priorità: il ruolo delle criptovalute nel portare servizi finanziari alle popolazioni prive di servizi bancari evidenzia un aspetto spesso trascurato della tecnologia finanziaria. Le economie sviluppate dovrebbero prendere in considerazione l’idea di sfruttare le criptovalute per affrontare i propri problemi di esclusione finanziaria, piuttosto che spingere per soluzioni centralizzate come le CBDC (valute digitali delle banche centrali) e l’imposizione di regole che possono compromettere la privacy e l’autonomia finanziaria.

Equilibrio normativo: molti mercati emergenti stanno trovando modi innovativi per bilanciare la regolamentazione con l’innovazione. Paesi come la Malesia stanno implementando sandbox normativi che consentono la sperimentazione controllata con le tecnologie crittografiche. Questo approccio potrebbe servire da modello per i regolatori occidentali alle prese con la supervisione del settore.

In questo mondo in cui la parte nord-occidentale, alle prese con problemi di mera autoconservazione, non riesce piu’ ad esprimere una vera innovazione, ma solo una iperprogettualità fine a se stessa, (per giunta in contraddizione con l’iperregolamentazione che ne taglia alle radici le possibilità di utilizzo), forse l’impatto più profondo e i casi d’uso più innovativi emergeranno sempre più da:

I vivaci mercati di Lagos, dove le reti peer-to-peer aggirano le tradizionali barriere finanziarie…
Le remote fattorie dell’India rurale, dove stanno prendendo piede le iniziative di microfinanza basate sulla blockchain…
O le strade di Buenos Aires, dove le criptovalute offrono un’ancora di salvezza contro un’inflazione schiacciante.

Tornando al confronto con ethereum, è chiaro che nella stragrande maggioranza, tutti questi casi d’uso che abbiamo raccontato vedono bitcoin come criptovaluta principale.

Solo tre anni fa pensavamo che il legame indissolubile tra bitcoin e l’energia realmente prodotta dal pianeta fosse un fardello che avrebbe precipitato questa valuta nell’oblio della storia.

Oggi invece stiamo apprendendo che l’energia, come tutti gli altri beni tangibili, è l’unica cosa che conta e che resta, al netto delle mode tecnologiche di un occidente votato alla dissoluzione.

Ethereum è ancora l’infrastruttura (la blockchain) piu’ avanzata, come quantità e qualità di progetti che vi lavorano all’interno.

Ma dal punto di vista della sua rappresentazione monetaria (eth), i problemi di scalabilità, sicurezza/centralizzazione e velocità che condivide con tutte le altre criptovalute non sono stati risolti (anzi, con la proof of stake, eth ha eguagliato btc quanto a centralizzazione del mining e (in)sicurezza della rete).

Al contrario, bitcoin ha un’infrastruttura su cui vengono progettate soluzioni meno eterogenee, incentrate quasi esclusivamente sulla criptovaluta in sé e la sua facilità d’uso nel mondo e nell’economia reali.

Quale delle due impostazioni verrano premiate di piu’ dalla storia?

La guerra fredda finanziaria continua e fa nuove vittime

Non è nostra abitudine occuparci di fatti di cronaca. Lo facciamo solo se si tratta di argomenti necessari per avere il polso dell’economia globale.

Non c’è dubbio che la guerra finanziaria tra Londra e Beijing sia uno di questi argomenti.

Ecco perché dobbiamo per forza occuparci della notizia del giorno, cioè dell’affondamento del panfilo Bayesan e la morte di alcuni dei suoi piu’ illustri occupanti, dal momento che si tratta dell’ultimo dei colpi bassi di questa disputa ormai portata ai livelli sanguinosi di una guerra fredda tipo anni ’80.

In questo articolo di maggio scorso, avevamo raccontato quella che allora era l’ultima tappa di questa guerra: l’arresto in UK di tre presunte “spie” legate alla Cina, una delle quali uccisa poco tempo dopo.

Dopo di allora, altri due eventi si sono aggiunti al puzzle, ossia, una diecina di giorni dopo, l’affondamento del Good…uria sul Lago Maggiore e, circa due mesi dopo, l’affondamento del Bayesan in Sicilia.

Tralascio di raccontare i dettagli sulle vittime e tutto ciò che è già ampiamente noto dei due incidenti. Mi limito a mettere in relazione tutti questi fatti per rendere sempre piu’ completo lo schema mentale che dobbiamo farci di questa guerra.

Anzitutto, invito il lettore a consultare la sezione “Dedollarizzazione e mondo multipolare” di questo blog e leggere tutti gli articoli relativi alla disputa fra Londra e Beijing sul controllo del prezzo dell’oro.

La perdita, da parte di Londra e New York, della possibilità di manipolare a ribasso il prezzo dell’oro e la conseguente presa di controllo della Cina su questo metallo è infatti a mio avviso un evento di grande importanza per il futuro finanziario del pianeta.

La risposta angloamericana a questa sonora sconfitta è senz’altro l’affondamento delle piazze finanziarie cinesi, che avviene in due modi:

da una parte, la sottrazione di liquidità occidentali da quelle piazze finanziarie.

Dall’altra, l’organizzazione di provocazioni, campagne di diffamazione, danneggiamenti e omicidi nei confronti dei rappresentati e degli uffici occidentali di tali piazze.

Il nostro già citato articolo di maggio parla proprio della seconda di queste strategie.

La prima invece, ossia l’esodo dei capitali occidentali da Hong Kong e Shanghai è un fatto ampiamente noto e documentato anche nei media finanziari ufficiali. L’ultimo dei grafici che abbiamo pubblicato pochi giorni fa su Telegram lo mostra chiaramente :

La curva rossa, indicante i flussi di capitali occidentali investiti nei titoli quotati allo Shanghai Composite Index, mostra che tali capitali si sono dileguati e hanno raggiunto un flusso negativo, cioè i deflussi non vengono piu’ compensati da nuovi afflussi.

Ora, contrariamente alla Russia, la Cina ha un’economia in cui la parte finanziaria ha un peso rilevante sull’economia reale.

D’altro canto però, la finanza cinese non ha ancora la liquidità, la raffinatezza e l’ampia gamma di strumenti di quella occidentale. Perciò la perdita di capitali esteri ha un impatto notevole sulla capacità di adottare gli stessi strumenti finanziari che in occidente vengono usati per sostenere l’economia reale.

Per non parlare del fatto che, ultimamente, i grandi fondi di investimento occidentali stanno sottraendo liquidità non solo alle borse e ai titoli, ma direttamente all’economia reale, disinvestendo le loro partecipazioni a società e progetti cinesi.

E’ questo il quadro entro cui va contestualizzata l’eliminazione diretta di importanti elementi dei servizi segreti occidentali che la Cina ha effettuato per rappresaglia, mettendo a segno i due importanti affondamenti di imbarcazioni nelle acque italiane.

Per quanto riguarda il Bayesan, bisogna tenere presente che ormai non è piu’ possibile per giornalisti o analisti esterni ricostruire l’esatta dinamica dell’evento.

Infatti ai sopravvissuti, che potrebbero fornire testimonianze dirette sui fatti, è stato imposto il silenzio stampa, mentre dai video satellitari in dotazione dei servizi metereologici, che potrebbero mostrare le reali condizioni meteo durante l’affondamento, sono state cancellate le immagini precedenti, contemporanee e seguenti l’affondamento.

Dovremo quindi accontentarci della ricostruzione che prima o poi ci verrà fornita dalle autorità o dalla magistratura, sulla cui discutibile affidabilità abbiamo avuto, negli ultimi 70 anni, migliaia di esempi negativi, sia in Italia che all’estero.

Personalmente, tra le ipotesi degli esperti del settore, quella che piu’ mi sembra plausibile è l’hackeraggio dei sistemi elettronici del panfilo, che avrebbe potuto provocare l’apertura indesiderata di tutti i punti d’ingresso necessari ad imbarcare l’acqua che, nei 16 minuti in cui sembra si sia consumata la tragedia, ha provocato l’affondamento dell’imbarcazione.

Tendo ad escludere sia l’argomento complottista del “raggio laser”, sia quello mainstream del dolo intenzionale o dell’apertura avventata dei portelli da parte del capitano, considerato un esperto del settore e con una reputazione difficile da intaccare.

Ad ogni modo, quello che ci interessa di piu’ è il fatto che, se si inserisce l’incidente in uno schema piu’ ampio di eventi, esso assume molto piu’ senso di quanto non appaia dalle notizie decontestualizzate dei media.

L’aumento, in un lasso di tempo cosi’ breve (da maggio ad agosto), di crimini legati ai servizi segreti occidentali non può essere una coincidenza ed è già di per sé una chiara indicazione:

il primo di questi eventi, di cui ci siamo occupati a maggio, ci aveva fatto capire che la guerra finanziaria era ormai diventata appannaggio dei servizi segreti e non era piu’ limitata ai consueti crimini finanziari, quali la manipolazione dei prezzi e dei capitali.

L’affondamento del Good…uria sul Lago Maggiore, ci ha poi fornito utili indicazioni sul fatto che i flussi di capitali legati al traffico di droga (in particolare quelli provenienti dal Kosovo, il piu’ importante snodo della droga in Europa) hanno per l’occidente la stessa importanza dei flussi finanziari normali e sono stati inseriti in un’unica strategia di preservazione della liquidità dalle minacce dei paesi “nemici” (è noto che le “spie” uccise in quell’incidente stessero pianificando azioni in Kosovo).

Infine, l’affondamento del Bayesan sembra essere una disperata rappresaglia dimostrativa con cui i Cinesi hanno deciso di vendicarsi della grave emorragia di capitali che sta mettendo a dura prova la loro economia.

Contrariamente a quanto dicono i complottisti, l’economia cinese è ancora basata sull’essere un contrappeso commerciale e finanziario di quella occidentale.

L’economia “multipolare” che ci si auspica venga instaurata dai BRICS o dalla SCO è ancora in uno stato embrionale ed è del tutto insufficiente a sostenere un paese commercialmente aperto e globalizzato come la Cina.

Vedersi escludere ogni giorno di piu’ dalla cooperazione con l’occidente dev’essere fonte di grande stress e agitazione per le autorità cinesi.

Lo stesso stress che Londra, dal canto suo, prova nel veder ridurre in modo crescente la sua centralità finanziaria, che era ormai l’unico aspetto in grado di tenere ancora in piedi la sua economia, sempre piu’ inutile e marginale nel mondo.

Questi due paesi dunque stanno scaricando l’uno sull’altro la loro disperazione in attentati e ritorsioni sempre piu’ efferati e plateali.

Tale rivalità contribuisce a peggiorare i rapporti già di per sé molto precari fra tutti gli altri paesi e accelera la fine della globalizzazione, questo processo storico-economico di grande portata e dagli esiti imprevedibili che andrebbe studiato in modo imparziale, lontano dalle semplificazioni dei “complottisti” e dei media ufficiali, per capire prima degli altri i nuovi trend dell’economia.

Noi continueremo a farlo su questo blog e sulla nostra pagina Telegram.

Una causa economica fondamentale di questo crash di borsa

Il recente sell-off di tutte le borse e tutti gli asset ha diverse cause occasionali che riguardano la geopolitica, il mercato dei derivati, la stagionalità, ecc. Tutte cose che hanno la vita breve di un titolo di media o di social.

Quando ci sono questi crash bisogna invece chiedersi se ci sono cause economiche reali da tenere presente, dal momento che nel medio-lungo termine, sono queste le sole che contano.

Il forte ribasso di questi giorni ha in effetti una causa economica importante, che deriva dalla recente decisione della Banca del Giappone di aumentare i tassi di interesse dello 0,25%.

Anche se l’aumento deciso da questa banca centrale può sembrare irrisorio, esso ha un grande impatto sui mercati globali, in particolare sulla comune strategia di carry trade sullo yen usata dai gestori dei fondi e dei grandi capitali.

Cosa vuol dire?

Il carry trade sullo yen è una strategia in cui gli investitori prendono in prestito yen a bassi tassi di interesse per investire in asset ad alto rendimento denominati in altre valute.

Dal momento che è molto usata, questa strategia è stata finora una fonte significativa di liquidità per i mercati globali, comprese le criptovalute.

Con l’improvviso rafforzamento dello yen, le posizioni aperte col carry trade hanno iniziato ad andare velocemente in perdita, costringendo molti traders a liquidarle, determinando un effetto a cascata su varie classi di asset.

Gli effetti a catena di questo cambiamento di politica giapponese sono stati drammatici. L’indice Nikkei 225 giapponese è crollato del 12,4%, segnando la sua peggiore sessione dal 2011. La turbolenza in una delle più grandi economie del mondo ha contribuito in modo significativo all’incertezza del mercato globale.

Le prime a subire forti ribassi in borsa sono state le banche, sia asiatiche che occidentali.

Infatti l’aumento dei tassi sullo yen ha provocato una conseguente riduzione di liquidità soprattutto nelle banche giapponesi, che detengono la maggior parte dei titoli di debito del loro paese.

In queste banche potrebbe quindi prodursi lo stesso effetto che abbiamo visto nel 2022 su alcune banche americane di medie dimensioni, quando i titoli di stato detenuti in bilancio hanno iniziato ad andare in perdita, esponendo quelle banche a potenziali crisi di liquidità in caso di eventuali “bank run” da parte dei loro clienti.

Il rischio di possibili crisi bancarie in Giappone simili a quelle americane del 2022 ha ovviamente contagiato le banche di tutto il resto del mondo, che detengono quantità variabili di titoli giapponesi.

La conseguente caduta in borsa dei titoli bancari ha fatto capire agli investitori che c’è un possibile rischio di liquidità e una debolezza del sistema finanziario globale, dovuto al fatto che ora tale sistema deve riposizionarsi cercando altre fonti di liquidità da sostituire con quella denominata in yen.

Anche se questa è senza dubbio una tipica causa economica reale e fondamentale della caduta di tutti gli asset, dobbiamo dire che non è un fattore di lungo termine.

Infatti la caduta del Giappone avviene in controtendenza rispetto alle economie occidentali che stavano già tornando a politiche di espansione della liquidità.

Anzi, è probabile che questo incidente non faccia che accelerare l’inversione di marcia del sistema occidentale da politiche di alti tassi verso politiche di bassi tassi.

Col senno di poi, non escludo che vi sia stato persino un accordo fra le banche centrali, in base al quale la banca centrale giapponese, che avrebbe dovuto già da tempo iniziare ad alzare i tassi, abbia ritardato questa decisione proprio per non appesantire, con lo shock di liquidità che ne sarebbe seguito, le già difficili conseguenze dei rialzi effettuati dalle banche occidentali tra il 2022 e il 2023.

Il fatto che lo “shock” proveniente dal Giappone sia stato ritardato in modo da avere luogo in questa fase successiva in cui tutto il sistema finanziario sta già recuperando liquidità, certamente ne limiterà gli effetti negativi e, come ho detto, forse spingerà alcuni paesi ad accelerare il passo dell’allentamento monetario creando nel medio termine una inversione della tendenza ribassista nei mercati.

E’ guerra fra Londra e Hong Kong per il dominio finanziario

Dopo una discesa costante di circa il 50% dai massimi del 2021 (retta rossa), l’indice Hang Seng della borsa di Hong Kong, ha recentemente registrato un rally per 10 giorni consecutivi (cerchio verde):

Dal 1970 a oggi un rally del genere si è verificato solo 12 volte.
E le serie storiche mostrano che in media, in queste 12 volte, dopo il primo rally, l’indice è salito di un ulteriore 23%. Inoltre, nei dodici mesi successivi, l’indice è rimasto in bull trend l’84% delle volte.

Anche la borsa della Cina continentale è in bull trend, ma non cosi’ pronunciato.
Chissà cos’è che stavolta spinge cosi’ forte Hong Kong…forse quegli Etf spot in bitcoin ed ethereum da poco approvati?

Sia come sia, questo indice sarebbe di norma un argomento per i nostri articoli gratuiti che inviamo via email agli iscritti di Segnali di Borsa, dove segnaliamo ogni tanto dei trend su cui può essere interessante investire.

Invece stavolta abbiamo deciso di parlarne qui, dove solitamente trattiamo argomenti di natura economica e politica piu’ generali.

Come mai?

Il motivo è che l’indice Hang Seng si trova nel bel mezzo di una guerra senza esclusione di colpi tra la finanza occidentale e quella cinese. Per cui, no…in questa fase investire in questo indice non è particolarmente raccomandato.

Cliccando sulla categoria “Dedollarizzazione e mondo multipolare” nella home di questo blog, troverete un bel pò di articoli che raccontano la crescente rivalità tra New York e Londra, le principali piazze finanziarie occidentali, contro lo Shanghai Gold Exchange per il controllo dei metalli preziosi.

In questo articolo purtroppo dobbiamo registrare un allargamento di questa rivalità e un innalzamento del livello dello scontro fino all’omicidio.

Ma andiamo per ordine…

Qualche settimana fa, Mark Clifford e Mark Sabah, presidente e direttore del CFHK (Commitee for Freedom in Hong Kong, una delle tante associazioni di ingerenza internazionale statunitense) hanno visitato il parlamento italiano per una sessione di “indottrinamento” dove hanno descritto le motivazioni del Comitato e le loro attività in corso, tra le quali è stato citato esplictamente il ridimensionamento di Hong Kong come centro finanziario globale.

Quindi ora sappiamo che il Commitee for Freedom di Hong Kong è una associazione anglo-americana che, per sua stessa ammissione, è implicata nella guerra finanziaria che Cina e occidente hanno intrapreso in questi anni.

Tra gli obiettivi specifici di questa guerra, sempre secondo i due rappresentanti del Comitato in visita in Italia, c’è anche la chiusura degli uffici di rappresentanza finanziaria di Hong Kong nei paesi occidentali.

Sappiamo che Hong Kong è uno degli ultimi avamposti della defunta “globalizzazione” dove è ancora possibile il trasferimento di asset dall’occidente all’oriente e viceversa.

…Ad esempio, tutto l’oro che i Cinesi stanno accumulando dai paesi occidentali e con cui stanno prendendo il controllo di questo asset, transita da Hong Kong…

Questa isola di globalismo quindi è come una ferita ancora aperta dove, nella visione paranoica delle élites occidentali sempre piu’ bellicose, il “sangue occidentale” continua a defluire verso il “dracula” orientale.

Quindi la ferita deve essere chiusa al piu’ presto e a qualsiasi costo…anche a costo cioè di perseguitare personalmente i rappresentanti di Hong Kong all’estero.

Tutto questo ci fornisce in modo chiaro, senza bisogno di scomodare alcuna “teoria complottista”, il motivo per cui, il 13 maggio scorso, in Gran Bretagna Bill Yuen, Peter Wai e Matthew Trickett sono stati accusati di “spionaggio a favore del governo di Hong Kong”.

Non a caso, i primi due, Bill Yuen e Peter Wai, lavorano per l’Ufficio economico e commerciale di Hong Kong a Londra!

I tre erano stati accusati, nello specifico, di aver raccolto informazioni sui separatisti e gli attivisti, viventi in UK, che avevano svolto un ruolo centrale nel tentativo di rivoluzione colorata del 2019-20 a Hong Kong e che erano fuggiti dalla città per sottrarsi alla giustizia cinese.

Dopo l’arresto, i malcapitati erano stati rilasciati su cauzione; quando poi, 7 giorni fa, uno di loro, Matthew Trickett, è stato trovato morto in un parco.

Trickett non lavorava nel settore finanziario. Era un ex militare della Royal Marine che, a differenza di Bill Yuen e Peter Wai, cittadini sino-britannici, aveva solo cittadinanza britannica.

Queste accuse di “spionaggio”, che siano fondate o meno, si inseriscono molto bene, per la tempistica della loro esecuzione, allo scopo che abbiamo detto, cioè quello di fare pressioni sui governi occidentali affinché chiudano le rappresentanze ufficiali di Hong Kong all’estero.

L’omicidio è solo la ciliegina sulla torta di questa guerra politico-finanziaria.

L’ambasciata cinese a Londra ha ovviamente presentato severe rimostranze alla Gran Bretagna.

Ma sta di fatto che la rivalità economica fra oriente e occidente sta passando velocemente alla modalità di guerriglia tra servizi segreti, esattamente come le altre guerre che oriente e occidente hanno intrapreso e che ogni tanto fanno saltare fuori qualche omicidio nei titoli dei media.

Benvenuti nella nuova guerra fredda 2.0!

Telegram sfida il controllo delle élites sui nostri soldi

Il “caso” Telegram è uno dei piu’ emblematici per capire le opportunità, ma anche le distorsioni e le ambiguità che le nuove tecnologie offrono riguardo alla privacy e alla libertà finanziaria delle persone.

Telegram è indubbiamente l’unico fra i grandi social a garantire ancora un livello elevato di privacy.

Diversamente dalle altre app di messaggistica sociale, Telegram dà priorità alla privacy, con funzionalità come messaggi “a scomparsa” e la possibilità di usare i nomi utente al posto dei numeri di telefono. Gli utenti possono persino creare chat segrete che non possono essere individuate, dando così il controllo sulle conversazioni.

Non stupisce quindi che la quasi totalità dei canali di informazione indipendenti oggi viaggiano su questo medium.

Bisogna però sempre tenere presente che si tratta di un sistema centralizzato, cioè controllato dai suoi fondatori, i due fratelli di origine russa Nikolai e Pavel Durov, le cui opinioni personali, le cui esigenze di profitto e le inevitabili negoziazioni con entità regolatorie influenzano la tenuta di questa privacy.

Dei due fratelli, Nikolai è il genio che sviluppa in concreto tutti gli strumenti e le funzionalità di Telegram, mentre è Pavel che detta le politiche di questo servizio. Quindi vale la pena tracciare un brevissimo ritratto di quest’ultimo, per cogliere tutte le sfumature gestionali, ideologiche ed economiche che stanno dietro a questo, come a tutti gli altri social, e che normalmente non sono note agli utenti.

Come sempre nei nostri articoli, noi non prendiamo posizioni politiche, quindi mi limito a descrivere oggettivamente il pensiero e l’azione di Pavel senza giudicare.

Dal punto di vista ideologico, se cosi’ possiamo dire, Pavel è un libertario convinto, quindi un fautore della privacy e della libertà individuale.

D’altra parte, però, Pavel è principalmente un imprenditore. E come tale ha necessità di fare parte di una rete sociale che protegga e faccia sviluppare i suoi affari.

Nel capitalismo moderno, l’accumulazione del capitale non è piu’ un’impresa solitaria e individualistica (se mai lo è stata in passato), ma viene preferibilmente subordinata a un quadro di riferimento sociale che fornisca una giustificazione morale, un modello di sviluppo e una capacità di negoziazione politica al singolo imprenditore.

Ai nostri tempi, il quadro di riferimento piu’ importante per molti imprenditori è senz’altro quello del World Economic Forum, che raccoglie politici, imprenditori, intellettuali, economisti, ecc., non necessariamente portatori delle stesse ideologie o degli stessi ruoli sociali.

Uno dei fattori (non certo l’unico) del successo del World Economic Forum è la semplicità della sua proposta ideologica, basata su temi molto generali (il clima, il gender, ecc.), che permette ai suoi membri di farne parte senza entrare in conflitto con i diversi ruoli e le svariate idee personali che essi professano all’esterno.

Questa genericità ideologica ha comunque i suoi limiti e non è certo un passpartout sociale che dia una completa impunità alle aziende e le attività dei suoi membri.

Le normali frizioni tra pubblico e privato o tra autorità regolatorie e imprenditori sono sempre possibili, anche per chi fa parte di questo “club”.

Pavel Durov ad esempio, pur essendo uno dei paladini del “club”, ha dovuto sostenere nel 2019 uno storico contenzioso legale con la SEC americana, a causa del lancio di GRAM, una criptovaluta della nuova blockchain di Telegram chiamata TON.
E qui veniamo all’argomento principale di questo articolo

La causa con la SEC non riguardava tanto GRAM in sè, ma la sua vendita attraverso una ICO, ritenuta illegale in quanto Gram non era stata preventivamente registrata alla SEC come titolo scambiabile.

Nel 2020 Durov patteggiò una multa salata e la restituzione dei proventi dell’ICO ai suoi sfortunati partecipanti.

Il giudice inoltre stabili’ che Durov avrebbe dovuto informare la SEC nel caso gli fosse venuto in mente di lanciare qualche nuova criptovaluta, ma solo fino a una scadenza temporale definita, ossia tre anni.

Ora, nel 2023, appunto dopo i tre anni stabiliti, cosa ha fatto Durov? Ha lanciato una nuova criptovaluta, di cui parleremo qui di seguito…

La nuova cripto si chiama Toncoin (TON) e funge da moneta di scambio per usufruire delle decine e decine di funzionalità che stanno fiorendo su Telegram.

Di recente, ad esempio, Telegram ha aggiunto una nuova funzionalità che consente agli utenti di acquistare spazi pubblicitari utilizzando TON e trattenere il 50% delle entrate pubblicitarie generate dai loro canali, che complessivamente vantano oltre un trilione di visualizzazioni mensili.

Questo modello di condivisione delle entrate rappresenta un punto di svolta, offrendo ai creatori un modo tangibile per trarre vantaggio dal successo della piattaforma ed è in netto contrasto con le altre principali app di messaggistica e persino con le piattaforme di social media, che in quanto a monetizzazione delle loro attività sono all’età della pietra, per non parlare dell’integrazione delle criptovalute nei loro sistemi.

Inoltre, sulla rete TON si stanno costruendo promettenti applicazioni decentralizzate, come W3BFLIX, un servizio di streaming e una piattaforma di crowdfunding cinematografico con l’obiettivo di diventare il Netflix di Telegram.

Man mano che l’ecosistema di Telegram fiorisce e si impone come un immenso universo parallelo fra il suo quasi miliardo di utenti attivi mensili, Toncoin è ben posizionata per diventare un attore importante e permanente nel mercato delle altcoin.

Ma, ecco forse il passo piu’ lungo della gamba che a un certo punto potrebbe rimettere Telegram e la sua blockchain nel mirino dei regolatori…

Di recente, Durov ha inserito nella sua blockchain una ben nota cripto, anzi una stablecoin: nientemeno che USDT.

Questa implementazione consente facili e istantanei pagamenti transfrontalieri gratuiti in dollari, cioè in USDT, all’interno delle chat.

Comprensibilmente, questa possibilità sta già attirando un numero spropositato di utenti.

Infatti, in meno di un mese dal lancio, gli USDT circolanti su Toncoin hanno già raggiunto i 200 milioni di dollari…
…Si tratta perciò del lancio a crescita piu’ rapida nella storia di USDT.

E considerando che USDT è praticamente il “dollar standard” del sistema cripto globale, cioè, detto in una sola frase, la valuta su cui si regge tutto il mercato cripto, le dimensioni di questo flusso di capitali potrebbero raggiungere velocemente il livello al quale attireranno l’attenzione, non solo dei regolatori americani e dell’Unione Europea (che, ricordiamolo, tenta di mettere al bando USDT fra i paesi membri), ma anche delle grandi banche sistemiche che, come spiegato in questo articolo, sono impegnate in una guerra senza esclusioni di colpi col fintech per la conquista del traffico dei pagamenti digitali del futuro.

A questo punto l’establishment si troverebbe di fronte a un dilemma.

Da un lato, Telegram, per la sua enorme diffusione e la sua facilità d’uso, sarebbe uno strumento eccezionale per il progetto di dollarizzazione digitale americano che, come ormai è sempre piu’ evidente, dovrà appoggiarsi ai privati e non a qualche struttura governativa centrale in stile cinese.

Dall’altro però, la possibilità di pagamento istantaneo tra account quasi del tutto anonimi, come sono quelli tipici di Telegram, viene vista come una minaccia alle capacità di controllo delle élites sulle transazioni. E questo, in una “economia di guerra”, è semplicemente inammissibile…

Come andrà a finire questa volta?

Il governo americano riuscirà a imporre una riduzione della privacy su queste transazioni?

L’Unione Europea metterà al bando Telegram?

La risposta non è semplice.

Solo il tempo potrà darci delle risposte.

Nel frattempo però, teniamo presente queste criticità quando consideriamo TON come possibilità di investimento.

Dal punto di vista economico, TON diventerà la moneta di scambio di decine di servizi utilizzati da milioni di persone. Quindi si tratta dell’investimento del secolo, per chi investe nel mondo cripto.

I possibili attacchi politici su Telegram o su Pavel Durov d’altra parte, potrebbero provocare notevoli periodi ribassisti su questa valuta.

Personalmente, quando la politica ci si mette di mezzo, rinuncio all’investimento. Ma si tratta di un’opinione strettamente personale…

Perché maggio è cruciale per la legislazione cripto in America

Il 16 maggio la maggioranza dei legislatori del Senato degli Stati Uniti ha approvato una risoluzione congiunta che chiede alla Securities and Exchange Commission (SEC) di eliminare una norma che non piace alle banche che fanno affari con società di criptovalute.

Cosa dice questa norma?

La norma della SEC, inclusa nel Bollettino contabile n. 121., imporrebbe alle banche di collateralizzare le risorse digitali dei loro clienti con un capitale di adeguato valore. In sostanza, le cripto dei clienti, anziché essere a carico dei clienti stessi, diventerebbero una responsabilità della banca.

Questo trattamento differisce da quello riservato a tutti gli altri asset che i clienti normalmente depositano nelle banche, come titoli di borsa, obbligazioni, derivati, ecc., per i quali le banche non sono certo tenute a fornire garanzie a collaterale.

A cosa serve davvero la norma della SEC

Prima di andare oltre, chiariamo subito una cosa: la norma della SEC non serve a proteggere gli investitori, come viene detto ufficialmente.

Facciamo un esempio.

Se io deposito 1 bitcoin dal valore di 70.000 dollari nel mio conto bancario, secondo la regola della SEC la banca dovrebbe aggiungere nel proprio bilancio una somma a collaterale, diciamo 50.000 dollari.

Ma se fra tre anni, al termine del ciclo rialzista attuale, 1 bitcoin scende a 20.000 dollari, non è che la banca mi restituisce 50.000 dollari per compensarmi della perdita di valore del mio bitcoin.

Non è che sul mio conto magicamente il valore del mio bitcoin tornerà a 70.000 euro…

La mia perdita resta, e non c’è niente che la banca possa fare.

L’unica differenza sarà che per quell’anno la banca potrà portare in bilancio una somma piu’ bassa a collaterale del mio bitcoin, ossia, ad esempio, 10.000 dollari invece dei 50.000 di oggi.

Tutto qui.

Allora, qual è lo scopo di questa norma?

A mio avviso, gli scopi sono almeno due:

  • Rendere oneroso per le banche gestire i depositi in cripto per i loro clienti, spingendole a promuovere gli asset “tradizionali” invece dei servizi cripto.
  • Ridurre i picchi a rialzo dei cicli quadriennali di bitcoin (che a mio avviso sono quasi del tutto creati a tavolino), in quanto le banche, per non aumentare a dismisura le somme da mettere a collaterale, potrebbero essere motivate a ridurre le manipolazioni a rialzo di questa valuta.

Una vittoria delle lobby bancarie contro la SEC

Come abbiamo detto però, questa norma per ora non vale piu’, perché sia la Camera che il Senato l’hanno annullata.

Per ammissione di una senatrice, Maxine Waters, l’opposizione a questa norma è stata sponsorizzata soprattutto dalle lobby delle grandi banche, come la American Bankers Association, il Bank Policy Institute, il Financial Services Forum e la Securities Industry and Financial Markets Association.

Inutile dire come ciò confermi il fatto che il processo di accentramento del mercato cripto nelle grandi banche americane, che abbiamo descritto tante volte (ad esempio qui), sia ormai un fatto compiuto.

Le grandi banche dunque sono le prime ad avere interesse a difendere le cripto.

E in effetti le lobby bancarie al Congresso hanno fatto un buon lavoro, visto che la risoluzione di annullamento è passata il 16 maggio con schiacciante maggioranza: 60 a 38.

Tale maggioranza è stata possibile per il fatto che democratici e repubblicani, come raramente accade, hanno votato congiuntamente. Infatti, del 60% dei votanti favorevoli, il 51% era democratico e il 49% repubblicano.

Una legge completa ed esaustiva sulle cripto oggi è piu’ vicina che in passato

Come affermato dalla senatrice Cynthia Lummis, è stata la prima volta che questa sessione del Congresso ha approvato una “legislazione autonoma sulle criptovalute”.

Questo dimostra il fatto che la lobby cripto in America (alla quale appunto si è aggiunta quella delle grandi banche) ha fatto passi da gigante negli ultimi anni e possiede ormai una solida rappresentanza in entrambi gli schieramenti del Congresso. Al punto che se venisse finalmente discussa una legge seria e onnicomprensiva sulle cripto, come da tempo auspicato dagli operatori del settore, questa avrebbe buone possibilità di essere approvata.

E in effetti negli USA un disegno di legge sulle criptovalute c’è, si chiama “Financial Innovation and Technology for the 21st Century Act”, ha iniziato il suo iter legislativo nel luglio 2023 e dovrebbe essere presentato alla Camera per la votazione proprio questo mese.

Il disegno di legge, oltre a porre fine al decennale vuoto legislativo che ha favorito il far west regolatorio che abbiamo tante volte raccontato nei nostri articoli, chiarirebbe anche i ruoli che la SEC e la Commodity Futures Trading Commission avrebbero nella regolamentazione degli asset digitali.

Lo strapotere della SEC, che in questo settore si è ritagliata abusivamente la funzione di organo legislativo privo di mandato elettorale, avrebbe finalmente una conclusione, mentre il Congresso si riprenderebbe la legittima funzione di rappresentanza che le era stata sottratta per anni dallo pseudo dittatore Gensler.

Tutto questo quindi potrebbe avverarsi, se l’alleanza tra democratici e repubblicani riuscirà a reggere lungo tutto l’iter di approvazione del disegno di legge che abbiamo detto.

C’è un ultimo aspetto però.

A rovinare questo “happy end” potrebbe mettersi di traverso la Casa Bianca…

Biden farà tornare l’America ancora una volta nel far west?

Infatti, quando l’8 maggio scorso il Senato iniziò a discutere la risoluzione da poco approvata, Biden dichiarò che l’avrebbe bocciata.

Finora, però, dopo 4 giorni dall’approvazione del Senato, la Casa Bianca non ha ancora rilasciato una dichiarazione.

Non sappiamo quindi cosa deciderà di fare il Presidente…

Forse sulla decisione di Biden iniziano a pesare le ultime dichiarazioni pro cripto fatte da Trump.

Come sappiamo, Trump ha detto che chi è favorevole alle cripto dovrebbe votare per lui.

Ora, è evidente che la forza elettorale di questa posizione dura finché permane in America il vuoto legislativo e il relativo far west che motiverebbe le lobby bancarie e pro cripto a votare “l’uomo del destino” che promette di porre fine a tutto questo.

Se al contrario il Congresso votasse il “Financial Innovation and Technology for the 21st Century Act” prima delle elezioni, la posizione pro cripto di Trump diventerebbe un’arma spuntata, perché l’aspirazione a un quadro legislativo che ponga fine all’anarchia regolatoria sulle cripto verrebbe soddisfatta e quindi non sarebbe piu’ necessario votare “l’uomo del destino”.

Chissà se l’entourage di Biden conserva ancora quel numero minimo di neuroni necessario a capirlo…

Limiti e rischi del progetto di euro digitale al di là dei miti complottisti

Il progetto di euro digitale pensato dalla UE è rimasto l’unico in occidente ad avere ancora l’ambizione di essere davvero realizzato.

Il Consiglio Direttivo della BCE ha infatti stabilito una roadmap in due fasi che dovrebbe portare all’adozione defnitiva abbastanza presto, tra il 2025 e il 2026.

Al confronto, il progetto americano di CBDC, di gran lunga il piu’ importante per l’occidente, si sta sempre piu’ ridimensionando entro uno schema in cui verranno implicate le stablecoin private, invece di un token digitale sviluppato dalla Federal Reserve. Inoltre gli Stati Uniti non si sono ancora impegnati in una roadmap pubblica di implementazione di tale progetto con tanto di date e scadenze precisi, come invece è il progetto di CBDC europea.

Perché l’euro digitale della BCE sembra cosi’ facile e veloce da implementare, rispetto ai progetti delle altre banche centrali?

Per capire come mai l’UE, al contrario degli USA, sia capace di fornire scadenze precise e di garantire una implementazione cosi’ veloce a una CBDC europea, dobbiamo prima capire le caratteristiche principali che dovrebbe avere una vera CBDC e i motivi per cui la complessità di tali caratteristiche ne sta ostacolando finora una implementazione veloce.

L’anno scorso la Banca dei Regolamenti Internazionali (BIS, detta anche la “banca centrale delle banche centrali”) ha pubblicato uno studio che ridimensiona la portata e l’efficacia delle CBDC.

E la settimana prima di quello studio, il capo della BIS in persona, Augustin Carstens, in un discorso alla Banca Centrale Coreana, riassumeva molto chiaramente sia lo schema di sviluppo delle CBDC che la loro reale fattibilità (o meglio, “infattibilità”) nelle condizioni attuali.

Leggendo queste preziose informazioni, per la verità molto esaustive e trasparenti, della BIS e del suo Presidente, veniamo a scoprire una caratteristica fondamentale che la BIS giustamente richiede a qualsiasi stato o banca centrale che voglia implementare una CBDC.

La struttura bipartita di una vera CBDC è diversa da quella della “strana” CBDC europea

Una CBDC  che possa davvero essere riconosciuta dalla BIS come legittima, dovrebbe avere due strutture parallele: la CBDC vera e propria detenuta dalla banca centrale e il token che rappresenta i soldi nei depositi delle banche commerciali. Lo spiega in modo schematico e semplice lo stesso capo della BIS qui.

Il motivo di questa bipartizione è semplice, ma cruciale. Essa serve a non escludere le banche commerciali dal nuovo sistema.

Già questa semplice informazione fa giustizia delle tante sciocchezze diffuse dai canali complottisti secondo cui le CBDC sancirebbero la fine delle banche

La BIS ci aveva già pensato e ha già adottato le misure necessarie perché ciò non accada…

Nel sistema di CBDC pensato dalla BIS, le banche continueranno a gestire, anche se digitalmente, le transazioni del corpo sociale tramite una tokenizzazione dei loro depositi.

La CBDC della banca centrale dovrà poter dialogare con questo token bancario, in modo da integrare le transazioni bancarie da quelle gestite direttamente dalla banca centrale.

Ora, ecco la prima importante divergenza tra questa regola cruciale della BIS e il progetto europeo…

La CBDC europea non ha questo requisito fondamentale, perchè prevede la sola CBDC, senza una digitalizzazione dei depositi bancari.

La “strana” CBDC della BCE non offrirà garanzie di sopravvivenza alle banche?

Se questa divergenza dovesse rimanere, il sistema pensato dalla UE accentrerebbe tutto nelle mani della banca centrale, inaugurando un percorso che porterebbe gradualmente a una sparizione del sistema bancario europeo.

La cosa ha già destato le preoccupazioni dell’autorevole Istituto della Finanza Internazionale, il think-tank bancario piu’ importante al mondo, che annovera tutte le banche principali, soprattutto occidentali.

Come si legge qui, la BCE vorrebbe ovviare a questo problema stabilendo un tetto all’uso della CBDC.

Perché un tetto alla CBDC dovrebbe essere un argine a questo problema?

Perché in tal caso, l’euro digitale verrebbe usato solo per una classe molto ristretta di pagamenti, ad esempio quelli per ottenere documenti, pagare le tasse, ecc., restando quindi una valuta complementare – diciamo pure, marginale – che non sostituirebbe l’euro elettronico che tutti noi usiamo oggi.

La stessa marginalità della CBDC quindi garantirebbe la sopravvivenza del sistema euro in generale, che resterebbe com’è ora, quindi con le banche al centro delle operazioni.

Questa marginalità spiega anche il motivo per cui la BCE, a differenza delle altre banche centrali, sia capace di portare a termine tale progetto in tempi cosi’ brevi e con una road map abbastanza precisa: è ovvio, trattandosi di una CBDC in scala ridotta, non implica tutti i problemi geopolitici, tecnici, finanziari che avrebbe una vera CBDC.

Un conto è produrre una bicicletta, un altro è produrre una Maserati. E’ naturale che la prima sia piu’ semplice e veloce da fare…

La “strana” CBDC europea escluderà VISA e Mastercad dall’Europa?

Ma la soluzione della marginalità non è una panacea che risolve tutti i problemi. Al contrario, ne porta con sé altri che riguardano anche le banche, ma non solo…

Nel già citato studio, l’Istituto della Finanza Internazionale nota come la BCE non abbia sufficientemente tenuto in considerazione i costi significativi che i fornitori di tali servizi interni all’UE, come i fornitori di servizi di pagamento e le banche, dovranno sostenere ad esempio per la connessione e il mantenimento dell’integrazione con il registro CBDC e lo sviluppo di portafogli per gli utenti finali. Tanto piu’ che il progetto di legge impone alle banche di fornire servizi gratuiti agli utenti finali.

Se il sistema resterà davvero cosi’, dal lato delle entrate ci saranno limiti alle commissioni e alle spese di transazione. E ciò potrebbe pesare, non tanto sulle banche, che hanno altre entrate, ma sui servizi di pagamento, che si ritroveranno privi di entrate sufficienti.

Questi ultimi di fatto si trasformerebbero in un società pubblico-private bisognose di continue sovvenzioni.

L’IIF sospetta che queste strane imposizioni facciano pensare che la BCE voglia in realtà escludere gli operatori VISA e Mastercard dalla scena europea per lasciare campo libero solo a ben selezionati operatori locali del tutto asserviti alla banca centrale.

Sembra un pò esagerato? Forse no…

A riprova di ciò, l’IIF rileva infatti che il progetto di legge non prevede restrizioni sulla BCE nel sovvenzionare l’infrastruttura digitale dell’euro.

Ciò vuol dire che gli operatori europei godrebbero di sovvenzioni illimitate, da parte della BCE, a discapito degli operatori internazionali come appunto Matercard e Visa.

(A tale proposito, avete notato anche voi che in alcune autostrade non permetteranno piu’ i pagamenti del pedaggio con Visa e Mastercard? Per giorni mi sono arrovellato per capire il motivo di questa stranezza, ma mentre scrivo questo articolo mi sembra tutto piu’ chiaro…)

L’IIF rileva anche un conflitto d’interessi in un sistema “sovranista” cosi’ concepito, in quanto la BCE stabilisce le commissioni per l’euro digitale e ne è il promotore, mentre allo stesso tempo, ne gestisce i rischi di disintermediazione. Per non parlare del fatto che il progetto non ha stabilito una supervisione indipendente che vigili sul ruolo della BCE in tutto questo.

La “strana” CBDC della BCE sarà un sistema chiuso potenzialmente pericoloso e illegale?

L’euro digitale, con queste premesse, data la sua sostanziale illegalità o almeno non conformità con le regole chiare e trasparenti stabilite dalla BIS e che abbiamo citate all’inizio, probabilmente non sarà interoperabile con paesi fuori UE.

Sembra chiaro quindi che lo scopo dell’euro digitale sia diverso da quello del “dollaro digitale”.

Per la Federal Reserve, lo scopo principale di un dollaro digitale è quello di continuare a difendere la competitività del dollaro rispetto alle valute digitali che verranno diffuse dalla Cina e forse da altri paesi.

La BCE, creando una valuta marginale e priva di interoperabilità con l’estero, non può avere questa stessa motivazione.

Ma allora, perché spendere tutti questi soldi per un progetto che non porta alcun beneficio in termini di competitività monetaria?

E’ evidente che lo scopo è tutto relativo alle esigenze interne di controllo sulla popolazione e sull’economia.

L’euro digitale si profila, almeno finora, come un circuito isolato e marginale, ma non per questo meno pericoloso, rispetto ai progetti degli altri paesi, perché chiuderà i cittadini e le imprese europee in un sistema con “usanze” tutte proprie, diverse dalle regole internazionali condivise e quindi suscettibile di ingiustizie e impunità.

I rischi per la libertà e la privacy dei cittadini in un sistema del genere sono superiori rispetto a quelli di qualunque sistema di CBDC progettato in occidente e somigliano molto al sistema cinese, che non a caso resta anch’esso ancora abbastanza marginale, nonostante sia stato adottato ormai da tre anni.

…Ma il rischio sistemico è dietro l’angolo, ed è peggiore di quello relativo ai diritti individuali

Il progetto europeo di CBDC sta per essere lanciato poi in una fase storica molto particolare, in cui vengono erette sempre nuove barriere economiche che stanno facendo saltare uno dopo l’altro gli equilibri commerciali fra i paesi, provocando a cascata distorsioni economiche, valutarie e politiche che gli stati e le entità soprastatali come l’UE cercano di arginare chiudendosi ancora di piu’.

Non dobbiamo mai dimenticare che uno dei motivi per cui negli ultimi anni le CBDC sono diventate cosi’ desiderabili per i governi è che esse costituiscono un facile strumento per combattere l’inflazione, che è una delle conseguenze piu’ temute di tali distorsioni.

In questo studio ad esempio apprendiamo che basta ridurre del 10% la velocità monetaria (rallentando i consumi e dunque la circolazione della moneta) per ridurre dello 0,6%-1,7% l’inflazione.

Le CBDC, data la loro programmabilità, sono lo strumento migliore per ridurre la velocità monetaria, in quanto permettono di imporre in tempo reale limiti ai consumi e a molti altri usi di una valuta.

Quindi le CBDC sembrerebbero, a prima vista, la soluzione che si presenta al momento giusto…

In realtà, quando l’isolamento economico crescente e il deterioramento degli assetti economici non permettono soluzioni strutturali all’inflazione, la tentazione di ricorrere alla facile ricetta di imporre limiti alla popolazione (cioè ai cittadini e alle imprese) con le CBDC può solo peggiorare le cose.

Nel tentativo di “metterci una pezza”, i governi potrebbero essere spinti ad adottare misure restrittive sempre piu’ stringenti all’economia, innescando una spirale di decrescita e di caos sociale paragonabile a quella che causò la scomparsa dell’Unione Sovietica.

In conclusione, l’adozione di una CBDC come quella prevista dalla UE non comporta solo i rischi sui diritti individuali già noti e ampiamente descritti dai media indipendenti, ma si configura come una vera e propria bomba economica e sociale capace di riportare uno stato o un’area geografica all’età della pietra.

A ottobre i BRICS decideranno la fine del dollaro?

In questo articolo di marzo avevamo descritto un fenomeno che si sta sviluppando in modo discontinuo nella finanza globale, cioè la crescente difficoltà a stabilire un prezzo unico per alcune materie prime, in particolare oro e petrolio.

La sempre piu’ ampia polarizzazione dell’economia tra l’area dell’occidente allargato e quella del resto del mondo porta infatti come conseguenza un differente uso, che si traduce in valorizzazioni differenti, di queste materie prime.

Avevamo anche detto che, per quanto il fenomeno sia legato al minore uso del dollaro nelle transazioni nell’area non occidentale del pianeta, la presenza di questo fenomeno non implica che ci siamo avvicinati piu’ di prima a una vera e propria “dedollarizzazione”, ma piuttosto che si è creata una condizione in piu’ che in futuro potrebbe facilitarla.

In un altro articolo dedicato a questo argomento avevamo detto che potremo un giorno essere certi di essere vicini a una vera dedollarizzazione quando vedremo nascere una piazza non occidentale alternativa a quella di Londra e New York in cui il prezzo delle materie prime venga stabilito in una valuta differente dal dollaro.

Oggi, per alcune commodities, ci sono già piazze alternative a quelle occidentali, nelle quali però il dollaro è ancora la valuta di riferimento.

Quindi non possiamo parlare di dedollarizzazione.

Tanto piu’ che, per uno dei due pilastri del mondo “multipolare” alternativo a quello occidentale, la Cina, il dollaro gioca ancora un ruolo importante.

Questo paese infatti possiede ancora quote considerevoli di titoli di stato americani, la cui liquidità collaterale in dollari viene data in prestito ai paesi in via di sviluppo, in cambio di infrastrutture, partnership strategiche, vie commerciali e materie prime.

Quando si pensa ai BRICS e al fatto che alcuni dei suoi membri si scambiano le merci in valute locali, anziché in dollari, bisogna capire che ciò avviene appunto solo in questo club ristretto di paesi.

Tutti gli altri paesi non occidentali, soprattutto africani e sudamericani, non ammessi nei BRICS, devono invece accontentarsi dei vecchi dollari, e per averli devono contrarre prestiti, proprio come farebbero con i paesi occidentali “coloniali”; anche se magari i tassi e le condizioni dell’indebitamento sono molto piu’ adeguati alle reali capacità economiche del paese debitore, invece di essere tarati sugli elevati standard di profitto del paese creditore.

I dollari quindi circolano ancora, anche nell’area non occidentale. E non sembra che i BRICS abbiano in mente un sistema alternativo per fare transazioni con questi paesi.

Del resto, non avendo ancora i BRICS una sovranità monetaria piena verso l’estero, un sistema alternativo non potrebbero metterlo in piedi neanche volendo…

Ora, tutto questo era vero fino a ieri…

Oggi, ed è lo scopo di questo articolo, ci stiamo avvicinando alla prossima riunione dei BRICS prevista ad ottobre, nella quale la Russia, che quest’anno ha la presidenza del club, potrebbe proporre agli altri membri il progetto che piu’ di ogni altro potrebbe aprire le porte a una vera dedollarizzazione.

Si tratta di The Unit, una valuta digitale decentralizzata, basata su un ledger, che potrebbe essere adottata da qualsiasi paese per effettuare scambi commerciali.

La nuova valuta dovrebbe essere garantita al 40% da oro e al 60% da un paniere di valute dei BRICS.

Inoltre, alla base del progetto, ci sarebbe anche la costituzione di una piazza delle commodities in cui i prezzi verrebbero decisi in alternativa a quelli di Londra e soprattutto, nella nuova valuta Unit, non in dollari.

A giugno in Russia si terrà una riunione ministeriale che dovrà decidere le discussioni da tenere nel prossimo vertice dei BRICS previsto appunto a ottobre; ed è molto probabile che il progetto Unit potrebbe essere inserito nell’ordine del giorno (ad ogni modo, il progetto è già stato approvato dal Business Council dei BRICS).

Personalmente penso che la Cina potrebbe non essere molto entusiasta di Unit, dato il suo fervido attaccamento al suo yuan digitale e alle mire egemoniche in esso implicate.

Tuttavia i BRICS hanno dato prova di estrema flessibilità nelle negoziazioni. E del resto c’è una gamma infinita nei possibili casi d’uso di Unit; molti dei quali potrebbero lasciare campo aperto allo yuan digitale. Quindi una qualche realizzazione concreta del progetto non è da escludere.

Fermo restando che vi è sempre una caterva di condizioni da soddisfare e mettere a punto, legate soprattutto all’interoperabilità, al peso delle diverse valute da porre a collaterale di Unit, alle molteplici questioni giuridiche, tecniche e geopolitiche su cui trovare la quadra…

Le difficoltà che abbiamo sempre elencato riguardo alla creazione del dollaro e l’euro digitale (e che hanno portato la Fed a rinunciare al progetto di una CBDC emessa dalla banca centrale, preferendo l’uso delle stablecoin private), sarebbero qui decuplicate, dovendo essere Unit una valuta comune fra piu’ stati sovrani, e non la valuta di un paese solo (il dollaro), o quella di un sistema feudale premoderno (l’euro).

Ad ogni modo, che si realizzi o meno, Unit è proprio il progetto che ci vorrebbe per imporre, in una parte di mondo, una vera e propria dedollarizzazione, in quanto ha le caratteristiche minime indispensabili adatte allo scopo, e cioè:

  • prevede l’emissione di una valuta con funzioni reali di scambio
  • prevede che i prezzi dei beni siano in tale valuta e non in dollari

I paesi BRICS non hanno le strutture finanziarie sufficienti per imporre Unit anche come valuta di riserva globale. Quindi Unit resterebbe solo un mezzo comune di pagamento che lascerebbe poi a ciascun paese la responsabilità di giocarsela a modo proprio per accumulare riserve.

In tal caso, ognuno potrebbe decidere se continuare ad ammassare dollari, oppure oro.

Già…ancora i dollari…

Come si vede, per arrivare a un sistema in cui il dollaro sia completamente escluso dal pianeta, ci vogliono decenni.

Tuttavia, è ovvio che Unit, anche se adottato in modo parziale e privo di alcune delle funzionalità tipiche di una valuta, sarebbe già sufficiente a far crollare il sistema occidentale basato sul dollaro.

Come mai?

Il motivo è che il sistema dollaro è verticistico, quindi può sopravvivere solo sulla sottomissione valutaria, economica o militare di quanti piu’ paesi possibile.

Se metà pianeta lascia il gioco, il potere di sottomissione decade; in quanto il dollaro può esistere solo su scala universale.

Infatti, in una diffusione del dollaro solo su scala locale o regionale la montagna di debiti del governo USA inizierebbe ad essere un problema…

Morale della favola, con una eventuale proposta russa di Unit ai BRICS saremo forse un pò piu’ vicini alla dedollarizzazione?

Ancora non so rispondere a questa domanda, ma questo articolo voleva essere solo una anticipazione, per informarvi che da qui a ottobre terremo d’occhio ciò che accade nei BRICS per capire se, per la prima volta nella storia, verrà dato finalmente il fischio d’inizio a questo lungo processo.

Le guerre americane stanno obbligando Powell a tornare sui propri passi

Nell’ultima conferenza stampa del 1 maggio, Powell è riuscito ancora una volta a focalizzare l’attenzione dei media sul (falso) problema dell’inflazione.

Il solito teatrino è andato in onda: l’inflazione non è ancora abbattuta del tutto, i tassi non possono ancora scendere, le borse sono preoccupate, e cosi’ via…

In questo scenario già visto c’è stata però una nota che sembrava non combaciare con tutto il resto: Powell a un certo punto ha annunciato che a partire da giugno la riduzione dei titoli di stato dal bilancio della Fed subirà un forte rallentamento. I titoli scaricati dal bilancio non saranno piu’ pari a 60 miliardi, ma a soli 25!

Ma come? I posti di lavoro e i salari sono in aumento, minacciando un ritorno dell’inflazione. Anche l’economia va a gonfie vele e quindi deve essere raffreddata con una stretta monetaria per evitare l’inflazione. E Powell cosa fa? La cosa esattamente opposta, riducendo fortemente il QT, cioè riducendo la stretta monetaria che lui stesso sostiene essere cosi’ importante per combattere l’inflazione…

La cosa non ha senso, a meno che non guardiamo un pò oltre il ristretto quadro dipinto dai media, cercando di capire cosa sta davvero preoccupando Powell al di là dell’inflazione…

Nel nostro canale Telegram avevamo fatto notare, in un post del 25 marzo, che mentre la Fed era riuscita a ridurre la liquidità dal sistema togliendo di mezzo circa 1 trilione di dollari, il Tesoro degli Stati Uniti ha dovuto spendere, nello stesso lasso di tempo, il doppio di quella cifra (due trilioni), praticamente azzerando gli sforzi della Fed.

Si deve considerare che il Tesoro ha speso il secondo di questi due trilioni in un solo anno. E che ha preso questi soldi da un deposito solitamente destinato al mercato repo (il mercato in cui le banche riallineano i loro bilanci a fine giornata), nel quale, dopo il “saccheggio” del Tesoro, restano soltanto 500 miliardi, che, vista la velocità di spesa del governo, certamente finiranno prima della fine del 2024.

A parte questo tesoretto del mercato repo, che si trovava depositato li’ dai tempi del covid, non ci sono soldi liquidi nascosti da qualche altra parte su cui il Tesoro possa mettere le mani.

E’ ovvio quindi che, per saziare la fame di soldi del governo, bisogna prima o poi riprendere alla grandissima la stampa di dollari che era stata interrotta da Powell nel 2022. In pratica, bisogna smetterla con questa storia dell’inflazione e della riduzione della liquidità attraverso la riduzione del bilancio Fed e l’aumento dei tassi.

Il Tesoro degli Stati Uniti deve poter continuare a emettere montagne di obbligazioni di stato per finanziare le guerre e le altre spese folli del governo. E non è diposto piu’ a pagare montagne di interessi su questi titoli a causa dei tassi alti decisi da Powell. Inoltre, deve esserci la certezza che qualcuno si accolli queste obbligazioni. Quindi Powell deve fare la sua parte rimettendo questi titoli nel bilancio della Fed.

Tutto ciò in forma graduale, certo. Facendo in modo che la Fed non sia costretta da un giorno all’altro a dire che le sue politiche restrittive erano solo uno scherzo.

E infatti Powell ieri ha nascosto la prima mossa del suo voltafaccia (la riduzione del suo QT da 60 a 25 milioni) nei soliti discorsi sull’inflazione tanto cari ai media e a Wall Street.

Nessuno quindi ha badato al fatto che la situazione debitoria del Tesoro, legata alle spese fuori controllo del governo, sono talmente esorbitanti da superare di molto tutti gli aspetti legati all’inflazione.

Vediamo alcune cifre di questo scenario che per ora i media stanno trascurando…

Da quando le politiche dei tassi alti della Fed hanno iniziato ad avere effetti nell’ottobre 2022, il Tesoro ha dovuto pagare in un anno e mezzo più di 1.300 miliardi di dollari di spese per interessi, mentre altri 1.000 miliardi sono da spendere per il prossimo anno.

Il tutto ammonta a oltre 2,3 trilioni di spese per interessi sul debito entro aprile 2025, (assumendo che il tasso medio il prossimo anno rimanga superiore al 4,75%).

Ma abbiamo detto che la spesa del governo è fuori controllo. Di conseguenza, sono fuori controllo anche le emissioni di nuovi titoli di stato che finanziano tali spese, sui quali ovviamente saranno fuori controllo anche gli interessi da pagare…

Secondo alcune stime, infatti, queste spese per interessi sono destinate a peggiorare di circa 3-4 miliardi di dollari al giorno….

Pensate ancora che Powell non sarà costretto prima o poi a ridurre la velocità di questa corsa verso il baratro, allentando il peso che i tassi elevati esercitano su questa accelerazione?

E finora ci siamo limitati solo al debito governativo.

Se ci mettiamo dentro anche il debito di imprese e consumatori, vediamo che la Fed si trova ad affrontare una massiccia struttura debitoria di circa 86 trilioni di dollari in debiti di mercato (50mila miliardi di dollari in obbligazioni di emittenti nazionali e altri 36mila miliardi di dollari in prestiti al settore non finanziario). Escludendo il doppio conteggio dei debiti ipotecari (prestiti più obbligazioni cartolarizzate in MBS per un totale di 9,1 trilioni di dollari), il debito netto non governativo supera i 76 trilioni di dollari.

Non tutto questo debito è destinato a essere rifinanziato ogni anno.

Si stima quindi che i debiti complessivi, pubblici e privati, che necessitano di rifinanziamento il prossimo anno sono compresi tra 13,5 e 14,5 trilioni di dollari, dei quali 9,5 trilioni di dollari sono in titoli di stato, cioè debito governativo.

Si tratta pur sempre di una cifra enorme, su cui i tassi al 5% pesano come un macigno.

Tutto questo in una situazione economica che per ora sta reggendo, ma che inizia a mostrare delle crepe che la narrativa mediatica dell’inflazione impedisce di vedere.

Prendiamo ad esempio i dati del mercato del lavoro, di cui nel nostro canale Telegram abbiamo spesso dimostrato la falsificabilità.

Nei media tutti dicono che il mercato del lavoro è troppo in salute per sperare in una riduzione dell’inflazione.

Ma i dati reali dicono tutt’altro.

Il vero indicatore delle tendenze del lavoro sono i lavori temporanei.

Da quando ha raggiunto il massimo storico di 3,2 milioni di lavoratori nel marzo 2022, questo indice è costantemente diminuito, raggiungendo i 2,8 milioni nel marzo 2024.

Il calo del 13,3% dell’occupazione temporanea negli ultimi due anni significa che circa 400.000 posti di lavoro di questo tipo sono evaporati.

Intanto, i dati della scorsa settimana hanno segnalato che il PIL americano è cresciuto a un tasso inferiore al previsto per il primo trimestre del 2024.

Se la crescita economica continuerà a rallentare, i datori di lavoro non si limiteranno a ridurre i lavoratori temporanei, ma inizieranno a tagliare anche i dipendenti a tempo pieno.

Se la Fed non invertirà in tempo questa politica monetaria restrittiva, il tasso di disoccupazione aumenterà e ben presto si avrà un’evidente recessione.

Ma per molti investitori, le questioni legate all’inflazione sono diventate una preoccupazione talmente grande da occupare tutto il campo visivo, impedendo di scorgere tutto il resto.

La verità è che l’inflazione non dipende dalla Fed, ma è causata dalle politiche del governo, come ad esempio gli incentivi governativi a certi settori produttivi, le sanzioni, le tariffe protezionistiche, ecc…in pratica, tutti gli sforzi economici senza precedenti che gli USA sono costretti a mettere in campo per resistere alla competizione sempre piu’ forte con una parte di mondo che gli sta sfuggendo di mano.

I tassi al 5% o al 3% non cambiano questa situazione, ma contribuiscono a peggiorare gli effetti collaterali di questi sforzi del governo.

Credo che Powell sia perfettamente conscio di questo.

Per tale ragione, è praticamente garantito che i tassi scenderanno e il bilancio della Fed riprenderà a rimpinguarsi di obbligazioni del Tesoro.

Bisogna sperare che ciò accadrà fintanto che l’economia USA è ancora in buono stato e che queste misure non vengano prese troppo tardi.

I fattori epocali in gioco nel rialzo dell’argento

Nei nostri ultimi articoli ci siamo occupati spesso dei fattori economici che stanno trasformando il mercato dell’oro.

In questo ad esempio abbiamo spiegato come la finanziarizzazione (tramite derivati, Etf ecc.) a lungo andare abbia deteriorato questo mercato fino a portarlo al punto di rottura in cui il collaterale di metallo fisico reale non riesce piu’ a coprire il valore dei contratti derivati, a meno di non ricorrere a trucchi sempre piu’ complicati.

Per l’argento il punto di rottura è ancora piu’ vicino.

I grandi investitori ad esempio stanno prosciugando il Comex (la piazza americana dei derivati legati ai preziosi). Cioè stanno ritirando quasi tutto l’argento fisico posto a collaterale dei loro derivati.

Finora sono riusciti a farlo in modo lento e graduale, senza provocare allarmi o aumenti di prezzi. Ma prima o poi il prezzo dell’argento sarà costretto a reagire. Per non parlare dello shock che potrebbe comportare un crollo vero e proprio del Comex.

Infatti ormai al Comex ogni oncia fisica di argento deve fare da collaterale a ben 28 once cartacee. Ciò significa che, se per il 3,5% dei contratti cartacei venisse richiesta la consegna di metallo fisico, il Comex non avrebbe abbastanza argento per soddisfare la domanda.

Anche le scorte di argento della London Bullion Market Association (LBMA, la piazza dei derivati londinese) sono diminuite del 30% rispetto al picco del 2021:

E, contrariamente a ciò che succede per l’oro, in cui le piazze orientali hanno piu’ oro di quelle occidentali, per l’argento la piazza cinese è in un deficit peggiore di quello occidentale, sia per quanto riguarda l’argento fisico:

…sia per quanto riguarda l’argento a collaterale dei derivati:

Negli anni scorsi abbiamo anche accennato alla situazione davvero disperata che riguarda l’argento posto a collaterale degli Etf, ancora piu’ scarso di quello che garantisce i derivati.

Per fortuna, piu’ di recente, il bull market delle criptovalute ha convinto molti investitori a vendere quote di Etf legati all’argento per comprare quote degli Etf legati a bitcoin recentemente approvati in America.

Ciò ha portato al paradossale risultato di una decisa diminuzione di quote di questi Etf, nonostante il bull market dell’oro di questi mesi avrebbe al contrario dovuto portare a una ondata di acquisti anche nell’argento:

Come dicevo però, il fatto che gli investitori abbiano venduto le quote di Etf legati all’argento sta allontanando lo spettro di un crollo del collaterale di questi strumenti. Infatti, se gli acquisti di questi Etf fossero continuati ad aumentare come negli anni scorsi, l’argento a collaterale di tali quote forse a quest’ora sarebbe già finito

Le cose non vanno meglio nel mercato spot (cioè negli scambi di argento fisico vero e proprio).

La domanda industriale di argento è cresciuta di un solido 11% raggiungendo il record di 654,4 milioni di once nel 2023, seguito dall’anno record del 2022.

Questo aumento costante della domanda, a fronte di una impossibilità di aumentare l’offerta (l’argento disponibile infatti è sempre piu’ o meno uguale da un decennio) ha portato il mercato a un cronico disavanzo tra domanda e offerta.

E’ dal 2021, infatti, che la domanda di argento ha superato l’offerta. E questo deficit si è accentuato negli anni, fino a raggiungere 184,3 milioni di once nel 2023, mentre si prevede che raggiungerà 215,3 milioni di once nel 2024.

Nonostante questa scarsità, il prezzo dell’argento è rimasto sempre molto basso e non ha ancora conosciuto quella “rivoluzione” epocale che abbiamo spiegato qui per il prezzo dell’oro.

Il motivo è senz’altro legato al fatto che l’oro, diventando uno strumento finanziario indispensabile per la Cina e gli altri paesi BRICS, è stato strappato dalle mani delle borse occidentali per essere manipolato in modo da avere una quotazione “muscolare” che sia in grado di reggere il confronto con le valute dei BRICS di cui funge da collaterale.

L’argento invece non ha assunto alcuna funzione monetaria, per cui è ancora sotto lo stretto controllo delle piazze occidentali, che, sempre piu’ a fatica, riescono ancora a manipolarlo a ribasso.

Questa differenza tra l’oro e l’argento si riflette nella incredibile discepanza dello storico rapporto tra le loro quotazioni, che negli ultimi anni è salito fino a stabilizzarsi intorno al valore di 80:1, quando storicamente questo valore è sempre stato intorno a 15:1, anche se da quando esistono le manipolazioni il valore si era stabilizzato intorno a 45-50:1.

Il caso dell’argento è quindi uno dei piu’ incoerenti al mondo e certamente costituisce una forte tentazione per gli investitori in cerca di asset in cui la divergenza tra economia fondamentale (relazione tra domanda e offerta) e quotazioni produce interessanti punti d’ingresso.

Qui in effetti la divergenza è tra le piu’ estreme della storia

Ma si sa anche che l’argento, non solo è un asset fra i piu’ manipolati al mondo, ma ha anche una debolezza finanziaria (cioè non ha ruoli di spicco dal punto di vista valutario, monetario, ecc.) che lo rende poco reattivo di fronte alle manipolazioni a ribasso degli angloamericani.

Per portare quindi la manipolazione dell’argento al suo punto di rottura (come avvenuto negli ultimi 18 mesi con l’oro) è necessario che sia l’intero mondo finanziario occidentale a crollare. Se aspetti che sia l’argento ad emanciparsi da solo, campa cavallo!

Ma da questo punto di vista, le cose sono molto piu’ avanti di quanto si pensi…come mostra il seguente grafico:

Il grafico in alto mostra l’andamento dell’argento, mentre in basso abbiamo l’andamento del dollaro.

Le frecce rosse nei due grafici evidenziano come il prezzo dell’argento (simile a quello di qualsiasi altra materia prima o metallo) è sempre stato inverso a quello del dollaro.

…tranne nell’ultimo rialzo dell’argento di queste settimane, che, per quanto non sia stato eccezionale, si distingue perché per la prima volta l’argento è salito nonostante anche il dollaro fosse in salita.

Questo fatto indica che l’argento, pur essendo finanziariamente “debole”, sta diventando meno debole del dollaro.

Infatti la salita del dollaro mostrata dal grafico indica semplicemente che il suo tasso di cambio si sta rafforzando rispetto ad altre valute fiat. Quindi indica che le altre valute stanno messe peggio del dollaro, non certo che il dollaro si stia rafforzando in termini di potere d’acquisto.

La perdita della correlazione inversa tra argento e dollaro è quindi il segno di una debolezza delle valute fiat in generale ed ha lo stesso significato sistemico della perdita della correlazione inversa tra oro (e argento) con i tassi d’interesse di cui abbiamo parlato qui.

Si tratta quindi di una perdita di valore e di autorevolezza di tutto il sistema delle valute fiat nel suo complesso.

La crisi delle valute fiat quindi è in una fase talmente avanzata da permettere persino al “debole” argento di fare la figura del leone! E questo, prima o poi, non potrà non riflettersi sul prezzo.

Anche se l’argento di per sé ha meno forza intrinseca dell’oro, la sua eccezionale sottovalutazione, perseguita in oltre un decennio dal sistema finanziario occidentale, farà da cassa di risonanza (con una clamorosa risalita verticale delle quotazioni) di una eventuale crisi, scivolone o evento sistemico che prima o poi dovrà pure accadere in un sistema in fase cosi’ avanzata di putrefazione.

Ecco perché l’argento resta l’asset piu’ interessante di questo inizio secolo e merita una costante attenzione da parte degli investitori.

La prima manipolazione a rialzo dell’oro della storia

In questo blog stiamo costantemente monitorando i cambiamenti epocali che dal 2022 sono in atto sul mercato dell’oro.

A luglio 2023 avevamo segnalato qui la fine della correlazione inversa tra oro e titoli di stato americani: il primo sintomo del probabile indebolimento del controllo occidentale su questo metallo.

Ad agosto 2023 avevamo segnalato qui una svolta importante del mercato dell’oro: la perdita del controllo di Londra e delle banche centrali occidentali sul prezzo del metallo giallo.

Infine ad ottobre 2023 avevamo scoperto che le banche cinesi avevano interrotto la collaborazione col London Bullion Market, con la conseguenza di una sempre piu’ evidente divergenza del prezzo dell’oro tra Londra e Shanghai.

Il tassello successivo di questo cambiamento epocale è il fatto che la Cina, dopo aver preso il controllo dell’oro, lo sta manipolando moderatamente a rialzo. Ed è di questo che vogliamo parlare ora.

Iniziamo a dire che il controllo dell’oro da parte della Cina è ormai un fatto inequivocabile, come mostrato dal grafico qui sotto:

Nel 2023, la Banca popolare cinese (PBoC) ha acquistato la cifra record di 735 tonnellate di oro, di cui circa due terzi sono stati acquistati di nascosto. Inoltre, il settore privato cinese ha importato al netto 1.411 tonnellate nel 2023 e ben 228 tonnellate solo nel gennaio 2024.

Il grafico quindi mostra che da quando, nella seconda metà del 2022, sono iniziati questi acquisti in grande stile (le grandi bande gialle sulla destra), il prezzo dell’oro ha registrato una tendenza al rialzo.

C’è quindi una semplice e facilmente osservabile relazione di causa-effetto tra gli acquisti cinesi e il rialzo del prezzo dell’oro.

Questo rialzo inoltre avviene nonostante l’occidente sia un venditore netto dell’oro, come mostra ad esempio la divergenza, a destra del grafico seguente, tra la diminuzione degli acquisti di quote degli Etf occidentali legati all’oro (area blu) e l’aumento del prezzo del metallo giallo (curva gialla):

I due grafici quindi mostrano in modo chiaro i due fenomeni concomitanti che abbiamo detto, cioè:

  1. Il prezzo dell’oro è sotto l’influenza cinese
  2. I movimenti sull’oro che avvengono in occidente non influiscono piu’ sulle quotazioni

Ma, come abbiamo detto, la Cina ora non si limita al controllo dell’oro: lo sta anche manipolando a rialzo.

Una novità assoluta nella storia recente di cui dobbiamo capire le modaità.

La prova di questo fenomeno inedito è nel grafico seguente, dove si può vedere un importante cambiamento del modus operandi dei grandi investitori cinesi sull’oro.

Nel primo rettangolo nero sulla destra vediamo infatti che nel 2022 i Cinesi hanno aumentato gli acquisti di oro per reagire a una diminuzione del prezzo.

In sostanza, qui i Cinesi si erano limitati a determinare, con quei forti acquisti, un livello minimo per il prezzo dell’oro, impedendone la caduta.

Tuttavia il rettangolo verde sull’estrema destra mostra che nel 2024 i Cinesi stanno facendo qualcosa di diverso, ossia non si limitano piu’, con i loro acquisti, a stabilizzare il prezzo dell’oro: lo stanno addirittura portando a massimi storici superiori. In sostanza, lo stanno moderatamente manipolando a rialzo:

In effetti, il raggiungimento dei nuovi massimi storici dell’oro in questi giorni è sotto gli occhi di tutti, ma finora molti analisti lo avevano attribuito all’aumento delle posizioni rialziste nel mercato dei derivati legati all’oro.

Tuttavia, se questo fosse l’unico fattore in gioco, dovremmo avere dei fenomeni di divergenza tra prezzo spot e prezzo future che invece non si stanno verificando.

La manipolazione moderata verso l’alto operata dalla Cina è quindi un fattore che si sta aggiungendo all’influenza dei derivati e, anzi, ne sta forse influenzando l’andamento; in quanto, piu’ la Cina compra oro è piu’ gli investitori nei derivati, seguendo i loro tipici riflessi incondizionati e iperreattivi, aumentano le posizioni a rialzo, senza nemmeno farsi troppe domande.

Noi invece una domanda ce la facciamo: per quale motivo i Cinesi si comportano cosi’?

Tanto per cominciare, ritengo che la moderata manipolazione a rialzo sia una mossa preventiva di breve-medio termine che mira a stabilizzare l’attuale prezzo dell’oro. Esattamente come avveniva nei derivati ai tempi in cui Londra effettuava le sue manipolazioni a ribasso: ogni tanto il trend ribassista generale doveva essere sostenuto da forti “bastonate” a ribasso intraday.

Quindi la vera domanda è: perché la Cina vuole mantenere l’oro entro un range di prezzo piu’ alto rispetto agli ultimi dieci anni?

I principali motivi sono essenzialmente tre:

  • Ciò che preoccupa la PBoC – oltre alla possibilità che i suoi dollari vengano “congelati” dall’occidente – è che la Federal Reserve sarà costretta ad abbassare drasticamente i tassi di interesse e a lasciare che l’inflazione si surriscaldi al di fuori degli Stati Uniti.
    L’oro è il naturale antidoto contro l’inflazione.

 

  • Come abbiamo spiegato qui, i paesi “BRICS” che commerciano nelle loro valute locali estromettendo il dollaro, devono usare l’oro come valuta terza che permetta la conversione reciproca delle loro valute.
    Finché questi scambi non avverranno in una nuova valuta universale alternativa al dollaro, l’oro manterrà il ruolo di vera e propria valuta che, come tale, non potrà avere troppa volatilità, soprattutto verso il basso.

 

  • La Cina è impegnata in una “rivoluzione industriale” che si prefigge di prendere il controllo globale di quelle che chiama “nuove realtà produttive” (Intelligenza artificiale, Energie alternative, Microchip e cosi’ via…). Per fare ciò sta investendo cifre monumentali nelle aziende interessate, aumentando la svalutazione dello yuan e quindi rendendo necessario accumulare oro a compensazione della perdita di potere d’acquisto della valuta nazionale.

 

Come si vede, quindi, l’aumento del prezzo medio dell’oro non è solo un argomento per gli investitori, ma è un vero e proprio fattore economico fondamentale che rivela la reazione dei vari paesi agli importanti cambiamenti nelle economie globali di questi ultimi anni, cioè:

  • il ritorno nei prossimi mesi, forse per l’ultima volta in occidente, a nuove politiche di allentamento monetario (taglio dei tassi e ripresa di acquisti di titoli di stato governativi) e, contemporaneamente,
  • la separazione sempre piu’ netta fra le economie occidentali e quelle del resto del mondo.

Continueremo perciò a occuparci dell’oro, il primo indiscusso indicatore di questi cambiamenti, e a monitorare gli straordinari avvenimenti di portata epocale che continuano a dispiegarsi sotto i nostri occhi.

La crisi della price discovery nelle materie prime legate al dollaro

Un importante effetto della fine della globalizzazione, ormai inarrestabile, è la polarizzazione dell’economia fra le due aree attualmente in competizione fra loro, cioè l’occidente e il resto del mondo.

Si tratta di un processo graduale che sta agendo sempre piu’ in profondità e alla fine, se non ci sarà una svolta che lo riporti indietro nel tempo, produrrà effetti decisivi sull’assetto delle valute globali.

Chi ci legge sa bene che non ci siamo mai allineati alle facili narrative complottiste sulla “dedollarizzazione”.

Neanche questa volta diremo che la dedollarizzazione è dietro l’angolo.

Ma possiamo dire ormai con certezza che l’equilibrio basato su una valuta unica mondiale è rotto, forse in modo irrimediabile. E questo dovrà per forza portare a un nuovo assetto valutario, di cui però è prematuro prevedere i contorni.

Nel nostro piccolo, in due articoli dell’anno scorso (qui e qui) avevamo già segnalato i primi sintomi di questa crisi epocale.

Avevamo infatti evidenziato una importante polarizzazione fra oriente e occidente dei prezzi dell’oro.

Dopo che le banche cinesi avevano abbandonato la piazza di Londra che fissa ancora oggi il prezzo ufficiale dell’oro, le quotazioni di questa materia prima hanno iniziato a divergere fra oriente e occidente.

Ora un’analoga divergenza di prezzi si sta affacciando sulla scena mondiale per un’altra importantissima materia prima: il petrolio.

Questo articolo è fra i pochi che lo rivelano; e ne consigliamo perciò la lettura a chi vuole approfondire.

In soldoni, mentre l’AIE, l’agenzia internazionale (occidentale) dell’energia dice che il petrolio è destinato a valere sempre meno, l’OPEC, dice la cosa opposta.

Le conclusioni dell’AIE sono basate sulle fantasiose prospettive di affermazione delle energie alternative, mentre quelle dell’OPEC si basano sulla ipotetica capacità dei membri di tale organizzazione di manipolare a rialzo le quotazioni.

Legate dunque piu’ alla politica e all’ideologia che alla realtà, queste stime hanno portato le due entità alla massima divergenza sulle proiezioni future degli ultimi 16 anni.

E nel caso del petrolio, dove, a differenza dell’oro, non c’è una piazza ufficiale che fissa le quotazioni giornalmente, le proiezioni future hanno un effetto fondamentale sul prezzo giornaliero.

Infatti il mercato dei derivati, dove questo prezzo si crea in modo indiscriminato e spontaneo, si basa interamente sulle proiezioni future, non certo sui reali scambi di domanda e offerta.

Ecco quindi che, come nel caso dell’oro, anche in quello del petrolio si inizia a riscontrare una crescente difficoltà nella fissazione di un solo prezzo ufficiale che valga in tutte le parti del globo.

Ma oro e petrolio non sono due materie prime qualsiasi.

La modulazione e il controllo delle loro quotazioni sono le colonne portanti di tutto il sistema valutario globale basato sul dollaro.

In tale sistema, l’immagine falsa dell’oro come “suddito” e “fratello scemo”delle obbligazioni statali sta alla base della credibilità delle valute fiat basate sul debito, cioè dollaro ed euro.

Tuttavia, in quella larga parte di mondo che non fa parte dell’occidente allargato, questa finzione non regge piu’.

Dal momento che i paesi che ne fanno parte effettuano scambi commerciali in valuta locale e non in dollari, l’oro viene usato come valuta ponte per passare da una valuta locale all’altra, e quindi ridiventa il polo fisso e immutabile tra queste diverse valute.

Allo stesso modo il petrolio, materia prima intorno cui si coalizzava il consenso alla circolazione del dollaro negli scambi globali, sta diventando l’elemento divisivo che giustifica il superamento di tale sistema.

Man mano che i ruoli di queste due materie prime si differenziano fra i due emisferi concorrenti occidentale e sud-orientale, la loro valutazione unica globale perde sempre piu’ concretezza reale.

A una polarizzazione dell’uso del petrolio e dell’oro corrisponde quindi una polarizzazione delle loro rispettive valutazioni.

E a lungo andare, è l’uso, non la forza delle armi o dei ricatti economici, a determinare la struttura dell’economia, in questo caso dell’economia valutaria.

A questo punto, potremmo ipotizzare che tutto questo porterà un giorno alla “fine del dollaro”?

Certamente la divergenza dei prezzi è una condizione che, aggiunta ad altre, può portare a lungo andare in quella direzione.

Ma bisogna capire che la dedollarizzazione è un processo “rivoluzionario”, mentre gli eventi che abbiamo appena spiegato sono ancora fenomeni di “resistenza”, non di rivoluzione.

La rivoluzione è la sostituzione di un ordine con un altro.

La resistenza è il tentativo di sopravvivere in un ordine costituito, senza tentare di sovvertirlo, ma a volte tentando di avvantaggiarsi a sue spese.

Almeno per ora, i paesi del cosiddetto “nuovo ordine multipolare” non cercano di sovvertire l’ordine unipolare dominato dal dollaro e dagli USA.

Tutte le azioni che mettono in atto, sia in campo economico e geopolitico che in quello militare, sono ancora dei semplici espedienti per resistere a tale ordine, cioè per sopravvivere in esso alla meno peggio, non per sovvertirlo.

In questo articolo avevamo spiegato il modo con cui potremmo un giorno capire quando questi paesi staranno passando dalla semplice resistenza a una vera rivoluzione, almeno per quanto riguarda la supremazia del dollaro.

Avevamo detto infatti che la dedollarizzazione avverrà nel momento in cui un gruppo di paesi deciderà di prezzare alcune materie prime in una valuta diversa dal dollaro.

Finché ciò non avviene, la supremazia del dollaro resta ancora in piedi, anche se gli scambi commerciali in dollari non avvengono con la stessa frequenza di prima e anche se le quotazioni in dollari di alcune materie prime iniziano ad essere complicate.

E’ possibile che questi due fenomeni che abbiamo citato, con l’andar del tempo, finiscano per rendere sempre piu’ difficili, e in certi casi persino impossibili, le transazioni nel sistema del dollaro.

Ma anche in questo caso non è detto che ciò spinga i paesi “multipolari” al grande passo della dedollarizzazione. Semplicemente perché quest’ultima, come dicevamo, è un’azione rivoluzionaria che implica il sovvertimento di un ordine in tutti i suoi aspetti, non solo quello valutario.

Decidersi per la dedollarizzazione vuol dire voler creare un intero ordine alternativo (in tutti i suoi aspetti politici, sociali, commerciali, economici, ecc.). E vuol dire anche essere disposti a difenderlo con un imponente sforzo militare

Siamo ancora molto lontani da tutto questo…

2024-2025: arriva la madre di tutte le bolle

Nel nostro canale Telegram ci occupiamo spesso del ciclo quadriennale di bitcoin che periodicamente porta tutto il mercato cripto a formare una bolla ciclica i cui massimi superano sempre quelli dei cicli precedenti.

La bolla attuale, appena iniziata, è stata finora alimentata dalla approvazione da parte della SEC di una serie di Etf in bitcoin che hanno portato alla luce una domanda inespressa di questa coin molto superiore alle piu’ rosee aspettative.

Basti pensare che, secondo i dati  di Glassnode, i volumi dei movimenti di bitcoin legati alla continua domanda di quote di questi Etf è salita a circa 7,7 miliardi di dollari al giorno.

Non stupisce quindi che, mentre di solito un Etf appena nato impiega 5-10 anni per avvicinarsi alla vetta della classifica delle migliori performance mensili, … agli Etf in bitcoin di BlackRock e Fidelity sono bastate tre settimane.

Ma questo già eccezionale risultato potrebbe essere doppiato con una eventuale approvazione da parte della SEC degli Etf in ether.

Un forte segnale che va in tale direzione è il forte deflusso di eth dagli exchanges, pari a circa 1,2 miliardi di dollari.
Questa massa enorme di eth, verosimilmente spostati in wallet e servizi di staking, indica un interesse a lungo termine per Ethereum e fa pensare che vi sia una domanda inespressa di questa coin che potrebbe sbloccarsi con l’approvazione degli Etf, esattamente come avvenuto per btc.

Non capita spesso che un forte fattore di crescita di una bolla venga raddoppiato da un fattore “gemello”.

Già questo renderebbe l’attuale ciclo di bitcoin e delle cripto molto piu’ promettente di quelli, peraltro già fantastici e fuori misura, degli anni precedenti.

Ultimamente però si sta risvegliando un nuovo fattore che in passato è bastato da solo a creare una di queste bolle cicliche.

Parlo della bolla del 2017, nella quale molte persone sono diventate milionarie nel giro di pochi mesi.

Diversamente dalla bolla del 2021, che è stata l’ultima della serie, quella del 2017 fu causata da un fattore che poi non si è piu’ presentato nello scenario economico mondiale, ma che oggi sembra voler tornare ancora piu’ potente di prima.

Parlo della svalutazione dello yuan.

Come sanno tutti gli economisti, per sostenere la crescita, Pechino per molti anni si è concentrata sugli investimenti interni, reindirizzando i prestiti bancari specialmente verso il settore immobiliare, creando un eccessivo sviluppo edilizio che ora ammonta a 100 trilioni di dollari, ben 3,6 volte il PIL cinese.

Nel 2021, l’esplosione di questa bolla immobiliare ha fatto crollare le vendite degli alloggi di circa il 40%.

Di conseguenza, con circa 50mila miliardi di dollari di depositi, le banche cinesi hanno ora gran parte dei loro asset vincolati in milioni di proprietà immobiliari inutilizzate.

Pechino è intervenuta incaricando la Banca popolare cinese di garantire fondi illimitati alle banche commerciali per proteggerle dalle perdite. In pratica, un grande QE che sta svalutando lo yuan.

Nel 2017 vi fu una analoga fortissima svalutazione dello yuan che causò una fuga di capitali dalla Cina verso asset rifugio, tra cui anche bitcoin:

In questo grafico, che mostra i volumi di acquisto di btc durante la magnifica bolla del 2017, vediamo nella piccola area grigia in basso a destra, i volumi di acquisto provenienti da investitori occidentali, mentre la grande area rosso-arancio rappresenta i volumi degli investitori cinesi.

In pratica, senza il contributo dei Cinesi, la bolla del 2017 non sarebbe mai esistita (si possono leggere qui le analisi fatte all’epoca su tale fenomeno).

E, come abbiamo detto sopra, nel 2024 si stanno producendo le stesse condizioni del 2017, ma a un livello di grandezza triplicato.

Come ciliegina sulla torta, questa situazione sta avendo luogo in un momento di forte competizione tra USA e Cina.

Un momento in cui nel mondo economico americano si fa anche strada la consapevolezza del ruolo positivo delle cripto in questa competizione.

Tutti gli investitori in cripto infatti utilizzano le stablecoin come valuta ponte fra scambi, come piano di atterraggio da precedenti speculazioni, come valuta di deposito che genera interessi, ecc.

Le stablecoin sono l’ossatura di questo mercato. E sono tutte (almeno quelle universalmente usate) in dollari…e spesso collateralizzate in titoli di stato USA.

In questo articolo abbiamo descritto il ruolo crescente di queste stablecoin a livello internazionale.

Questo report della Federal Reserve invece mostra a quanto sia arrivata la consapevolezza dell’establishment americano dell’importanza di questo ruolo. Al punto da inserire la Defi nella lista delle “armi” valutarie a disposizione per mantenere il ruolo dominante del dollaro…

Una cosa che qualche anno fa sarebbe stato impensabile.

Riassumendo quindi, abbiamo come al solito lo sviluppo di una bolla che precede e segue di un certo numero di mesi l’halving di bitcoin.

Ogni quattro anni si sviluppa una bolla del genere. Ormai ci abbiamo fatto l’abitudine.

La differenza è però che, in questo ciclo, è come se si stessero concentrando tutte le bolle precedenti per formare una super bolla.

Infatti, i fattori che abbiamo elencato:

  • approvazione degli Etf in btc
  • raddoppio con l’approvazione degli Etf in eth
  • crisi immobiliare e svalutazione dello yuan
  • adozione del mercato cripto nella competizione internazionale americana

presi singolarmente sarebbero già capaci di creare una bolla.

Ma cosa succede se tutte queste cause avvengono nello stesso ciclo? Quale scala di grandezza potrebbe raggiungere la bolla che sta per arrivare?

Nessuno lo sa, perché non è mai successo nulla del genere…

Possiamo solo aspettare e vedere coi nostri occhi…

Le stablecoin come nuove ambasciatrici del dollaro

USDC cryptocurrency. Financial background. USDC exchange for dollar. Coins with US dollar symbol. USDC background with rising chart. Stablecoin trading. Buying and selling digital money. 3d image

La quota degli investitori stranieri nei titoli di stato americani si è dimezzata negli ultimi 15 anni, passando dal 40% del 2008 al 20% del 2023.

Mantenere un discreto livello di domanda di questi titoli di stato, cioè del debito pubblico americano, negli investitori internazionali, è basilare per proteggere la stabilità e la credibilità del dollaro. Perciò il Tesoro USA deve inventarsi qualcosa per compensare queste perdite.

Probabilmente le migliori opportunità per sostenere la domanda di debito americano si stanno aprendo col passaggio dalle attuali valute elettroniche a quelle digitali negli scambi internazionali.

Già lo yuan digitale ad esempio, viene sempre piu’ usato nelle transazioni commerciali, al punto che la Standard Chartered, una banca multinazionale con sede a Londra, offre ora servizi di cambio per la CBDC cinese.

L’America però è ben lontana dallo sviluppare un CBDD, cioè un dollaro digitale statale analogo a quello cinese, e rischia cosi’ di perdere la corsa ad occupare queste nuove vie di trasmissione della valuta a livello globale.

Non stupisce quindi che negli equilibri valutari internazionali stia assumendo sempre piu’ importanza il ruolo delle stablecoin private quotate in dollari e collateralizzate in titoli di stato americani.

Ad esempio, Paxos, la società che ha creato la stablecoin di Paypal (PYUSD), ha ottenuto l’approvazione preliminare dell’autorità finanziaria di Abu Dhabi e da quella di Singapore per emettere stablecoin in dollari e offrire servizi di asset digitali.

Allo stesso modo Circle, l’emittente di USDC, collabora con SBI Holdings di Tokyo, per promuovere l’uso di USDC in Giappone.

In Brasile sarà invece la società fintech Nubank a promuovere ai suoi 85 milioni di clienti l’acquisto e il possesso di USDC, grazie a una partnership con Circle.

Man mano che il web.3 e i servizi basati sulla blockchain si espandono nel mondo, le stablecoin in dollari vengono promosse da questi “ambasciatori” (Circle e Paxos) in tutti i paesi amici dell’America.

Emblematica è anche la collaborazione tra il Ministero delle Finanze di Palau e Ripple.

La Repubblica di Palau, a 500 km dalle Filippine, sta portando avanti un progetto pilota che verrà certamente copiato in futuro dal Tesoro americano per diffondere l’egemonia del dollaro nelle nuove vie del fintech.

In una prima fase, anche a Palau è stata creata una stablecoin legata al dollaro basata sulla blockchain di Ripple.

Tuttavia il progetto prevede che, in una seconda fase, Ripple crei anche una CBDC locale, con la formazione di una infrastruttura digitale di commercio con l’estero che presumibilmente avrà la stablecoin in dollari come valuta ponte negli scambi tra la CBDC di Palau e le CBDC di altri paesi.

Si profila cosi’ una differenza tra la rete digitale implementata dal blocco Orientale (i Brics, per semplificare) e quella che vorrebbe mettere in piedi l’America.

Nella prima infatti la valuta ponte è l’oro, la cui convertibilità con qualsiasi valuta fiat viene assicurata dalle banche centrali cinese e russa.

Nel sistema americano invece la valuta ponte dovrebbe restare il dollaro, nella sua forma digitale creata dalle società private americane, in assenza di un dollaro digitale statale.

Inoltre, come abbiamo detto all’inizio, questa rete digitale contribuirebbe a formare una nuova base di utenti, quelli che useranno appunto le stablecoin in dollari, per compensare le perdite di domanda in titoli di stato USA dovute alle vendite da parte degli investitori esteri.

Si creerebbe cosi’ in modo indiretto una nuova domanda per i titoli di stato, dal momento che questi fanno da collaterale alle stablecoin di Circle, Paxos e Ripple.

L’efficacia e la competitività di questa futura rete digitale rispetto a quella dei “Brics”, dipenderà dalla rapidità con cui verrà implementata. E a sua volta la rapidità di implementazione dipenderà dalla consapevolezza con cui la politica americana sosterrà questa “linea evolutiva” del dollaro.

Attualmente infatti sembra che la politica americana sia ancora frammentata, per non dire: lacerata, tra i fautori del dollaro tradizionale e i sostenitori del nuovo corso.

Se la classe dirigente americana non si dà velocemente una regolata, questa mancanza di coesione decisionale potrebbe portare alla sconfitta americana nella corsa verso l’egemonia del futuro.

Prepararsi in tempo alla deflazione

In Strategie Economiche siamo famosi per la capacità di anticipare i principali trend economici con largo, anzi, spesso enorme anticipo.

Ad esempio, mentre a marzo 2020 i media erano concentrati sulla deflazione indotta dai lockdown, noi avevamo spiegato qui per filo e per segno come e perché sarebbe arrivata l’inflazione.

Piu’ di recente, a gennaio 2023, siamo stati fra i primi a segnalare qui l’arrivo della disinflazione mentre tutti i media si stracciavano ancora le vesti per l’inflazione.

Questa capacità di previsione non ci deriva da una qualche particolare bravura, nè da poteri paranormali. Spesso è causata dal semplice fatto che i media ignorano i dati, non sanno interpretarli, oppure tengono conto solo dei dati a breve termine.

Vi sono in realtà numerose società di analisi capaci di prevedere l’economia anche meglio di noi, ma in genere pubblicano i loro risultati per un ristretto pubblico di esperti o per clienti a pagamento.

Il loro – e il nostro – unico merito, se ve n’è uno, è quello di leggere con onestà e obiettività i dati ufficiali che vengono pubblicati dalle banche centrali, dalle società internazionali di monitoraggio e da altre entità private o governative. Tutto qui.

In questo articolo prenderemo spunto ancora una volta dai dati ufficiali che sono sotto gli occhi di tutti, ma che pochi leggono in modo approfondito.

Nei dati sull’inflazione pubblicati ieri in America infatti, c’è un dato che ha attirato la nostra attenzione e ci ha spinto a pubblicare questo articolo. Articolo che non è ancora una previsione di qualcosa che accadrà, ma una ipotesi preliminare da verificare col tempo (verifica che faremo nel nostro canale Telegram e nella newsletter gratuita).

Vediamo di cosa si tratta.

I dati americani sui prezzi generali e core di ieri hanno mostrato, come quelli dei trimestri precedenti, un rallentamento dell’inflazione, per quanto meno rapido del previsto.

Tecnicamente, in economia questo rallentamento viene chiamato “disinflazione”.

Tuttavia i dati di ieri hanno mostrato, per alcuni ristretti settori commerciali, qualcosa che può essere confusa con la disinflazione e che viene detta tecnicamente “deflazione”.

Qual è la differenza tra disinflazione e deflazione?

E’ molto semplice:

Disinflazione = rallentamento dell’inflazione. Cioè i prezzi continuano ad aumentare, ma sempre meno.

Deflazione = diminuzione dei prezzi. Tutte le forze che spingono l’inflazione si annullano; quindi i prezzi iniziano a calare.

Ora, nei dati di ieri è apparsa per la prima volta la deflazione in questi settori:

giocattoli (-2,8%), mobili (-3,1%), elettrodomestici (-3,5%), materiale scolastico (-4,8%) e biglietti aerei (-12,1%).

Vorrei essere chiaro: questi dati non indicano ancora che potrebbe esserci una deflazione in tutta l’economia americana. Ma di sicuro c’è l’inizio di una tendenza, soprattutto nelle aree sensibili ai tassi di interesse.

Come ho detto prima, solo un costante monitoraggio dell’economia potrà dirci in futuro se arriveremo a una deflazione generalizzata.

Per ora mi limito ad anticipare alcuni aspetti che possono essere utili a chi investe.

Ad esempio, qual è l’effetto della deflazione sui mercati?

Molto semplicemente, la deflazione, cioè l’abbassamento dei prezzi dei beni di consumo, può comportare una riduzione dei profitti delle aziende, a cui può fare seguito una recessione economica.

Ma le cose non sono sempre cosi’ semplici…

In occidente ad esempio, abbiamo avuto, per quasi 30 anni, una specie particolare di deflazione che non ha causato una recessione visibile, perché era prodotta in modo “artificiale” dalle banche centrali.

Come si sa, in quel lasso di tempo le banche centrali hanno portato i tassi d’interesse sempre piu’ in basso, creando un nuovo tipo di economia basata sul debito.

Questo nuovo contesto economico ha comportato una progressiva perdita d’acquisto della moneta, ma allo stesso tempo anche una deflazione dei prezzi che ha mascherato tale svalutazione.

Per questo motivo le borse si sono costantemente apprezzate e, tranne brevi periodi, come le crisi del 2008 e del 2012, non hanno mai veramente tenuto conto di una possibile recessione come effetto della deflazione.

In occidente abbiamo però anche avuto 9 episodi di deflazione vera e propria, cioè causata da fattori economici e non creata a tavolino dalle banche centrali.

Ad esempio, nei quattro anni compresi tra il 1930 e il 1933 i prezzi in America calarono rispettivamente del 3%, 9%, 10% e 5%.

Nel 1938 e 1939 i prezzi scesero del 2% e del 1,3%.

Nel 1949 e nel 1955 i prezzi calarono dell’1% e dello 0,3%.

Infine, nel 2009 i prezzi scesero dello 0,4%.

La performance dei mercati in tutti questi periodi considerati è stata sempre in due fasi: una prima reazione negativa e poi una forte ripresa.

In alcuni casi, la ripresa è avvenuta in anticipo rispetto alla deflazione stessa, come ad esempio nel periodo compreso tra le recessioni del 1953-1954 e del 1958, detta anche “recessione di Eisenhower”.

In quel caso, la guerra di Corea aveva provocato una forte inflazione, seguita da un aumento dei tassi di interesse. Ma nonostante questo, nel 1954 le azioni aumentarono del 53%, prima che la deflazione si manifestasse l’anno successivo.

Il fatto che la ripresa delle borse inizi prima o dopo la deflazione dipende dalla presenza o meno di interventi monetari della banca centrale.

Ad esempio, nella deflazione del 2009 la ripresa delle borse avvenne soprattutto a causa dell’inizio della lunga stagione dei tassi negativi della Federal Reserve, quindi si presentò dopo la deflazione stessa.

Nella tabella qui sotto possiamo vedere le maggiori o minori performance di diversi asset di investimento nei periodi di deflazione considerati:

Come si vede, c’è una certa variabilità di risultati, che dipende dalla grande differenza delle economie esistente in periodi cosi’ lontani tra loro, ma anche dalla differente gravità della deflazione (in realtà solo negli anni ’30 la deflazione fu lasciata salire a livelli davvero pericolosi).

Nella maggioranza dei casi e degli asset, ad esclusione dei titoli di stato, la deflazione non portò affatto a performance molto negative, ma al contrario, in molti casi fu un toccasana, soprattutto per il mercato azionario.

Ritornando ai giorni nostri, è molto probabile che, prima di arrivare a una deflazione generalizzata, la banca centrale interverrà con adeguate politiche monetarie (taglio dei tassi, ecc.). Queste già di per sé sono state previste da alcuni esponenti della Fed, come sa bene Wall Street. Quindi, è probabile che non arriveremo mai a una deflazione vera e propria.

Tuttavia, come già detto, non bisogna abbassare la guardia e quindi la situazione deve essere monitorata…E noi saremo sempre all’erta su questo…

Perché bisogna fuggire dagli Etf legati all’oro

In questo blog abbiamo parlato spesso delle manipolazioni del mercato dell’oro perpetrato dalle banche.

Gran parte delle inchieste del Dipartimento di Giustizia americano su questo reato sono iniziate nella prima metà degli anni 2000 e, dopo diversi anni, si sono concluse sempre con delle condanne.

Nel 2019 ad esempio, il capo del commercio di metalli preziosi della JPMorgan Chase fu dichiarato colpevole di tentata manipolazione dei prezzi, frode sulle materie prime, frode telematica e falsificazione dei prezzi dei futures su oro, argento, platino e palladio.

E nel 2020 la stessa JPMorgan Chase si dichiarò colpevole di questi reati, anche se il suo presidente, Jamie Dimon, a differenza del suo dipendente, evitò il processo e la galera dopo aver pagato una multa stratosferica in un procedimento stragiudiziale.

Mi sono soffermato su queste condanne, perché, come si legge qui, nel 2022 proprio alla JPMorgan Chase è stata affidata la custodia del collaterale in lingotti del più grande ETF sull’oro esistente sul mercato, cioè lo SPDR Trust (GLD).

Nel sentire questa notizia, vi chiederete: perché mai un compito cosi’ delicato che richiede la massima onestà e trasparenza è stato affidato praticamente a un cartello mafioso bancario?

Per capire cosa c’è dietro, bisogna un attimo spiegare il mandato che è stato assegnato a questa banca.

Ho detto che i lingotti a collaterale dell’ETF sono stati affidati in custodia alla banca.

Ma per essere preciso, avrei dovuto dire che la JP Morgan è stata nominata Depository Trust and Clearing Corporation di questo ETF.

Cos’è una Depository Trust and Clearing Corporation?

E’ una istituzione creata di recente per allontanare dalle banche i rischi del collaterale dei titoli che hanno in bilancio.

Questa esigenza è nata, ovviamente, da quando in America i tassi d’interesse troppo alti hanno iniziato a ridurre vertiginosamente il valore dei titoli di stato detenuti dalle banche.

Molti di questi titoli sono infatti il collaterale di una marea di contratti “swap” che le banche si scambiano giornalmente per regolare le loro transazioni e che compongono una fetta rilevante della loro liquidità.

Se il collaterale dietro questi swap fosse limitato solo a quello che una banca X ha al momento in cui crea o scambia uno di questi swap, e se questo collaterale inizia a crollare come una valanga, non passa molto tempo prima che la banca Y che deve ricevere lo swap inizi a dubitare della solvibilità dello swap e della stessa banca X che lo sta emettendo.

L’unico modo per evitare un effetto a catena di default provocato dai reciproci sospetti di solvibilità fra banche, che di fatto bloccherebbe i loro scambi giornalieri e quindi tutto il funzionamento delle banche stesse, si è pensato bene di ampliare il concetto di collaterale.

Oggi quindi, secondo le nuove norme, uno swap può essere garantito non solo dal collaterale che possiede la banca, cioè dai titoli di stato che ha in bilancio, ma anche da qualsiasi altro collaterale fuori dalla banca che si trovi sul mercato.

Quindi, per fare un esempio da scuola elementare, la banca X può emettere swap per un controvalore di 1000 dollari, anche se possiede titoli di stato per soli 500 dollari.

Perché?

Perché il collaterale dello swap non è piu’ gestito dalla banca X, ma da una Depository Trust and Clearing Corporation (chiamiamola per brevità DTCC).

E questa DTCC puo’ fornire alla banca X tutto il colaterale che vuole, perché non ha a sua disposizione solo i titoli di stato della banca X, ma anche quelli delle altre banche per cui svolge lo stesso servizio di “custodia”.

Ma non finisce qui, perché di queste banche, il DTCC non ha solo a disposizione i titoli di stato presenti nel bilancio delle banche stesse, ma anche (e qui sicuramente salterete sulla sedia)…i titoli di stato depositati dai clienti di quelle banche…!!!

Proprio cosi’: in base alle nuove norme, tutti i titoli di stato, e non solo, che i clienti ingenuamente ancora depositano in una banca in realtà entrano a far parte di un “bacino” di titoli messi a disposizione dei DTCC e che formano il collaterale di qualsiasi contratto o derivato emesso da una banca che appartiene a tale sistema.

Ribadisco il concetto, tanto per essere chiari: oggi, non solo i titoli di stato, ma molte altre tipologie di titoli, azioni e altro che compongono il collaterale di qualche derivato, non sono piu’ pienamente proprietà dei clienti ignari che li depositano in banca, ma possono essere sottratti a piacimento da un DTCC per coprire delle emissioni di derivati.

E se pensate che questa sia la tipica “americanata”, sappiate che questi istituti sono stati legalizzati anche in Europa, col nome di Clearstream ed Euroclear

Ora, tornando all’argomento di questo articolo, chiediamoci ancora: perché la JP Morgan è diventata la DTCC dell’ETF GLD?

Evidentemente, perché il collaterale in lingotti d’oro di GLD non è sufficiente e ha bisogno di un “aiutino”. E chi meglio della JP Morgan, esperta in imbrogli nei metalli preziosi, è in grado di metterci una pezza?

Ma, in questo caso, quale sarebbe il “bacino” di lingotti al quale la JP Morgan dovrebbe attingere per ampliare il magro bilancio in oro fisico dell’ETF?

Anzitutto, possiamo aggiungerci il collaterale di altri ETF di cui la JP Morgan potrebbe essere “custode”. Ma questo non basta, perché sappiamo bene che in realtà tutti gli ETF hanno lo stesso problema e quindi di collaterale ne hanno ben poco. Dunque, che altro?…

Secondo alcuni, per risolvere il mistero, forse dobbiamo chiederci perché la JP Morgan sta pensando di trasferire i lingotti di GLD nei suoi depositi a New York.

Ricordiamo che l’ETF GLD aveva già un “custode” del suo oro fisico, cioè la banca HSBC, a cui da poco è stata affiancata la JP Morgan.

Quindi non è che a GLD mancasse il caveau di una banca affidabile, fra le maggiori al mondo, dove depositare i lingotti…

Dev’esserci un altro motivo per cui la JP Morgan ha deciso questa strana mossa.

A Wall Street è un segreto di Pulcinella il fatto che il caveau di JP Morgan sia collegato sottoterra a quello della FED, essendo quest’ultima sul lato nord di Liberty Street e laJP Morgan dall’altra parte della strada.

E indovina cosa c’è nel caveau della FED di New York? C’è l’oro depositato dalle banche centrali straniere… E quando ricordiamo le difficoltà incontrate dalla Germania nel convincere la FED di New York a restituire 300 misere tonnellate in lingotti, iniziamo ad avere qualche sospetto…

Frank Veneroso concluse già nel 2002 che tra le 10.000 e le 14.000 tonnellate di oro delle banche centrali venivano abitualmente affittate o prestate dalla Fed.

Questo commercio molto lucrativo viene portato avanti alla luce del sole dalla Banca d’Inghilterra, che organizza questi contratti per le sue banche centrali clienti.

Possiamo perciò supporre che la FED di New York organizzi in modo simile tali attività generatrici di reddito, usando l’oro accantonato in sua custodia.

Non è escluso quindi che l’affiancamento di JP Morgan a HSBC faccia parte di un programma stabilito con la Fed per stabilire un collegamento diretto e, manco a dirlo, “sotterraneo”, tra le riserve in oro americane, in modo che tutto lo scarso oro disponibile tra banca centrale, banche commerciali e fondi di investimento, venga riciclato all’infinito per far apparire le riserve piu’ ampie di quanto siano in realtà.

Una nota sinistra a questa ipotesi, già di per sé poco rassicurante, è un’altra voce che gira a Wall Street, secondo cui la FED di New York possa aver venduto, anziché prestato, parte dell’oro in sua custodia; il che spiegherebbe perché si è rifiutata di consentire ai rappresentanti della Bundesbank d’ispezionare l’oro depositato e inizialmente si è dimostrata estremamente riluttante a restituire solo 300 delle 1.536 tonnellate di oro tedesco presumibilmente conservate a New York.

Non dimentichiamo che è stata l’esperienza della Bundesbank a spingere la banca centrale olandese a rimpatriare a sua volta 122 tonnellate del suo oro da New York…

Ma queste sono tutte voci che non possono essere confermate, soprattutto perché dagli anni ’70 nessun ente, nessuna autorità, nessun ufficio legale ha mai avuto il permesso di visionare le riserve in oro che sarebbero detenute dalla banca centrale.

Al di là di questi argomenti di carattere generale, la conclusione pratica piu’ immediata che possiamo trarre da questo nuovo modo di trattare l’oro fisico a collaterale degli ETF è sicuramente quella di non usare piu’ gli ETF per investire sull’oro.

Al massimo possiamo usare titoli minerari o di royalties, ma è meglio stare alla larga dagli ETF.

Chi ha acquistato quote di ETF legati all’oro deve sapere che tali quote non danno la proprietà del collaterale che vi sta dietro, perché questo può essere “saccheggiato” a piacimento dalla JPMorgan Chase.

Le singole quote di questi ETF sono diventate dei contenitori vuoti. E se la cosa trapelasse, sarebbe la fine per questi ETF.

Cosa dice la scienza sui reali effetti del prossimo halving di btc

Siamo ormai a poco piu’ di 5 mesi dal prossimo halving di bitcoin e, come sempre, nei media si inizia a discutere se i suoi noti effetti sul ciclo dei prezzi sarà ancora preponderante, oppure questa volta “sarà diverso”…

Nella maggioranza dei casi, questo tipo di discussioni sembrano riferirsi a un fenomeno quasi magico e capriccioso.

Per molti, gli effetti dell’halving sono come quelli del clima stagionale: l’anno scorso ad aprile è piovuto, ma chissà se anche quest’anno pioverà. Dio o il caso ci metteranno lo zampino, quindi non possiamo dire nulla a riguardo.

Eppure ormai abbiamo tutti gli strumenti a disposizione per analizzare l’halving e il ciclo di bitcoin da un punto di vista scientifico, misurando cioè tutti i principali fattori di economia fondamentale che operano al loro interno.

Non c’è niente di magico o di “divino” in questi fenomeni.

Al contrario, tutti i fattori che determinano l’andamento ciclico di bitcoin e l’halving sono misurabili, anche se non tutte queste misurazioni possono portare a fare ipotesi sul loro andamento futuro.

Banalmente, i cicli di bitcoin sono determinati da dinamiche di domanda e offerta che si ripetono con una certa regolarità.

Sia la domanda che l’offerta sono misurabili. Quindi, grazie a queste misurazioni, ormai diventate molto complesse e approfondite, è possibile analizzare l’andamento di questi cicli meglio di come si faceva appena quattro anni fa.

Domanda e offerta nel mercato cripto

La domanda è un fattore molto piu’ imprevedibile dell’offerta. Quindi per tentare delle proiezioni statistiche sui cicli futuri di btc, si utilizzano piu’ che altro i dati che riguardano l’offerta.

E dato che l’halving influisce proprio sull’offerta, se ne deduce che l’halving stesso è fra gli elementi che contribuiscono a rendere ricorrenti e costanti i cicli di btc.

Possiamo quindi dire schematicamente che il fattore offerta (che include l’halving) tende a rendere ripetibili i cicli di btc, mentre il fattore domanda vi porta una maggiore imprevedibilità.

Oggi possiamo dire che la domanda di bitcoin è in aumento, come mostrano le bande blu crescenti sulla destra del grafico qui sotto:

Ma naturalmente il comportamento umano è imprevedibile, perciò non abbiamo la certezza che questa domanda resti sostenuta per tutto il resto del ciclo.

Tutt’al piu’ posso dire che, secondo me, anche i flussi di capitale, che formano la domanda nel mercato cripto, sono prevedibili, perché seguono forse degli schemi ben precisi con cui si cerca di manipolare i prezzi in modo da accompagnare e pilotare la tendenza già di per sé ciclica dell’offerta.

Ma si tratta di mie opinioni personali che non possono essere dimostrate scientificamente.

In questo articolo perciò ci limiteremo ad analizzare l’offerta di btc, usando i grafici di Glassnode, la società di analisi che citiamo spesso nei nostri articoli e nel nostro canale Telegram, dai quali trarremo in modo semplificato delle ipotesi su cosa possiamo aspettarci da questo ciclo in base ai dati disponibili.

L’offerta di bitcoin spiegata semplice

Finché bitcoin resterà il “benchmark”, cioè il dominatore, in termini di volumi, il fattore “offerta” di tutto il mercato cripto sarà sempre legato alla caratteristica particolare che ha in bitcoin, dovuta proprio agli halving che ne dimezzano la quantità minata ogni quattro anni circa.

Ma l’offerta, cioè la disponibilità dei bitcoin e quindi di tutte le altre cripto, non è data solo dai bitcoin minati ogni giorno.

Quindi non basta dire che ogni quattro anni i prezzi di btc salgono a causa dell’halving che dimezza l’offerta disponibile.

Se cosi’ fosse, i prezzi dovrebbero restare sostenuti per molto tempo, invece di formare, l’anno dopo l’halving, il ben noto trend parabolico finale dopo il quale crolla giu’ tutto…

L’halving semmai fa in modo che i minimi di un ciclo non scendano mai sotto i minimi del ciclo precedente.

Ma l’andamento del ciclo pre e post halving a cui siamo abituati, quel tipico rialzo in due fasi che sta in mezzo a ciascun halving, si spiega solo analizzando l’altro fattore che determina l’offerta di btc, che è la quantità di bitcoin messi a deposito dagli investitori nelle fasi precedenti.

L’energia potenziale dei rialzi ciclici di bitcoin

Bisogna immaginare l’alternarsi di cicli ribassisti e rialzisti di btc come un’energia potenziale che viene immagazzinata in un ciclo per poi esplodere nel ciclo successivo:

Il grafico sopra schematizza le fasi di accumulazione (bande arancio) nelle quali gli investitori aumentano i loro depositi di coin approfittando dei prezzi in discesa nelle fasi ribassiste del ciclo.

Successivamente (aree verdi), questi coin vengono venduti man mano che i prezzi nuovamente in salita rendono conveniente tale vendite.

Le vendite quindi “distribuiscono” i coin (cioè ne aumentano l’offerta disponibile sul mercato), fornendo la “benzina” che alimenta appunto le fasi rialziste, dette di distribuzione, in cui si moltiplicano le operazioni di compravendita che provocano un circolo virtuoso di incremento dei prezzi.

Come dicevo, l’accumulazione forma l’energia potenziale che alimenterà il ciclo rialzista successivo. Quindi piu’ coin saranno accumulati (messi a deposito dagli investitori), piu’ forte sarà il rialzo successivo.

A questo proposito, un aspetto interessante dei vari cicli è che, ad ogni ciclo, aumenta la parte di investitori che accumula coin nei ribassi, aspettando il ciclo a rialzo successivo.

Infatti si dice che il mercato ad ogni ciclo diviene “piu’ maturo”, intendendo che aumenta il numero degli investitori che non si fanno piu’ impressionare dalla volatilità e con disciplina comprano quando i prezzi sono bassi e vendono quando i prezzi risalgono.

Anche questo ciclo non fa eccezione su questo aspetto.

Come mostra il grafico sotto, oggi non sono piu’ solo gli investitori a lungo termine (curva blu) ad aver incrementato il valore dei loro depositi, ma anche diverse categorie di traders (accomunati nella curva rossa) stanno adottando lo stesso comportamento conservativo.

Inoltre, pure le varie forme di “staking” (curva azzurra) e di servizi di custodia perlopiu’ bancaria (curva verde) si aggiungono a determinare un aumento dei coin accumulati.

A questo giro quindi l'”energia potenziale” è molto superiore rispetto al ciclo precedente. E questo fatto tenderà ad amplificare poi tutto il processo con cui, nella fase rialzista, avverrà la rivalutazione del prezzo dei coin rispetto al loro costo iniziale.

Nei prossimi grafici, vedremo che proprio il rapporto tra il costo iniziale, al quale questi coin erano stati comprati prima di essere messi a deposito, e il loro prezzo attuale è la variabile piu’ importante per determinare il contributo “rialzista” di questi coin quando vengono poi distribuiti nelle fasi successive.

In altre parole, la velocità e la forza della rivalutazione dei prezzi è strettamente dipendente dal numero di investitori che riescono ad andare in profitto nelle varie fasi di un ciclo.

Per brevità tralascio di pubblicare tutti i grafici con cui viene analizzata questa dinamica, ma chi vuole approfondire può leggere direttamente l’articolo di Glassnode.

Qui cito solo due ultimi grafici che mostrano cosa c’entra l’halving in tutto questo.

Come l’halving amplifica l’energia potenziale causando la fase finale parabolica del ciclo

Questo grafico mostra l’importanza del rapporto tra:

  1. il numero di investitori in profitto in un dato momento e

2. il valore totale che il mercato ha in quel momento.

Il fattore 1 è rappresentato dalla variabile “Realized Cap”, cioè dalla quantità di coin accumulati che sono in guadagno in base al prezzo che btc ha in quel momento.

Il fattore 2 invece è rappresentato ovviamente dal “Market Cap”, cioè dalla capitalizzazione di mercato che btc ha in quel momento.

Devo specificare che il Realized Cap è fatto da coin in deposito ancora non spesi, quindi esprime un’energia potenziale inespressa.

Come si può immaginare, durante i mercati ribassisti avanzati, basta che vengano effettivamente venduti da 0,10 a 0,30 dollari di questo Realized Cap potenziale per provocare una variazione del Market Cap di 1,0 dollaro.

Invece nelle fasi avanzate dei mercati rialzisti (bande arancioni) sono necessari più di 0,75 dollari, e spesso più di 1,0 dollari, di Realized Cap per ottenere la stessa variazione della capitalizzazione di mercato di 1,0 dollari.

Naturalmente, quest’ultima situazione non è sostenibile a lungo, perché è come un processo termodinamico in perdita, nel quale il costo necessario a produrre energia eccede il costo dell’energia finale prodotta.
Ecco perché a quel punto la rivalutazione dei prezzi inizia a perdere forza, fino a invertirsi in una discesa.

Ma torniamo invece al primo caso, quando bastano 0,1-0,3 dollari per aumentare di 1 dollaro il market cap.

Oggi ci troviamo proprio in tale range (cerchio azzurro tratteggiato in basso), indicato dalla linea mediana a lungo termine (in rosso) di 0,25 dollari.

Siamo quindi nella situazione ottimale per una ripartenza sostenuta della dinamica dei prezzi.

Per vedere il ruolo che ha l’halving in tutto questo, ci aiutiamo col grafico successivo, che mostra come in realtà questo rapporto tra realized cap e market cap è grandemente influenzato dalla quantità di coin che vengono minati.

Qui la banda arancio sullo sfondo rappresenta i coin minati disponibili, mentre in primo piano le bande blu mostrano la quantità di coin accumulati disponibili.

I cerchi azzurri evidenziano che nelle fasi prima e dopo l’halving, i coin accumulati diventano preponderanti rispetto ai coin minati (i picchi delle bande blu superano le bande arancio che sono dietro).

In pratica, in quelle fasi l’offerta (ancora potenziale e non ancora espressa) che deriva dai coin accumulati supera enormemente l’offerta esistente assicurata dai coin minati.

E naturalmente l’halving, dimezzando la parte di offerta derivante dal mining (riducendo la banda arancio), aumenta ulteriormente la forza con cui l’energia immagazzinata in questi coin accumulati si abbatterà sulle bande arancio, una volta che verranno realmente spesi.

Nel ciclo attuale (cerchio rosa a destra) l’accumulo eccede ormai di molto il mining.

Anzi , a dire il vero, non siamo ancora in una fase molto avanzata verso l’halving e già l’eccedenza è paragonabile a quella delle fasi avanzate dei cicli precedenti.

Conclusioni

Tutto questo è il segno che la fase finale parabolica del rialzo post halving sarà eccezionale, anche piu’ delle volte precedenti?

Staremo a vedere; anche perché, come ho detto all’inizio, ci sono sempre i fattori psicologici imprevedibili a influenzare l’andamento di questi cicli. Perciò non possiamo stabilire una corrispondenza assoluta tra questi dati e l’esito reale delle fasi del ciclo.

Tuttavia, questi dati sono già sufficienti a poter affermare una cosa: che questa volta, almeno sulla base dei dati oggettivi “NON è diverso”.

Le condizioni di domanda e offerta sono del tutto simili, se non migliori, rispetto a quelle degli halving precedenti.

Certo, non possiamo affermare con certezza assoluta che questo ciclo si ripeterà come quelli precedenti, ma possiamo dire che ci sono le condizioni necessarie perché ciò avvenga, salvo eventuali fattori imprevedibili che possono sempre accadere.

>