martedì, Luglio 15, 2025

A ottobre i BRICS decideranno la fine del dollaro?

In questo articolo di marzo avevamo descritto un fenomeno che si sta sviluppando in modo discontinuo nella finanza globale, cioè la crescente difficoltà a stabilire un prezzo unico per alcune materie prime, in particolare oro e petrolio.

La sempre piu’ ampia polarizzazione dell’economia tra l’area dell’occidente allargato e quella del resto del mondo porta infatti come conseguenza un differente uso, che si traduce in valorizzazioni differenti, di queste materie prime.

Avevamo anche detto che, per quanto il fenomeno sia legato al minore uso del dollaro nelle transazioni nell’area non occidentale del pianeta, la presenza di questo fenomeno non implica che ci siamo avvicinati piu’ di prima a una vera e propria “dedollarizzazione”, ma piuttosto che si è creata una condizione in piu’ che in futuro potrebbe facilitarla.

In un altro articolo dedicato a questo argomento avevamo detto che potremo un giorno essere certi di essere vicini a una vera dedollarizzazione quando vedremo nascere una piazza non occidentale alternativa a quella di Londra e New York in cui il prezzo delle materie prime venga stabilito in una valuta differente dal dollaro.

Oggi, per alcune commodities, ci sono già piazze alternative a quelle occidentali, nelle quali però il dollaro è ancora la valuta di riferimento.

Quindi non possiamo parlare di dedollarizzazione.

Tanto piu’ che, per uno dei due pilastri del mondo “multipolare” alternativo a quello occidentale, la Cina, il dollaro gioca ancora un ruolo importante.

Questo paese infatti possiede ancora quote considerevoli di titoli di stato americani, la cui liquidità collaterale in dollari viene data in prestito ai paesi in via di sviluppo, in cambio di infrastrutture, partnership strategiche, vie commerciali e materie prime.

Quando si pensa ai BRICS e al fatto che alcuni dei suoi membri si scambiano le merci in valute locali, anziché in dollari, bisogna capire che ciò avviene appunto solo in questo club ristretto di paesi.

Tutti gli altri paesi non occidentali, soprattutto africani e sudamericani, non ammessi nei BRICS, devono invece accontentarsi dei vecchi dollari, e per averli devono contrarre prestiti, proprio come farebbero con i paesi occidentali “coloniali”; anche se magari i tassi e le condizioni dell’indebitamento sono molto piu’ adeguati alle reali capacità economiche del paese debitore, invece di essere tarati sugli elevati standard di profitto del paese creditore.

I dollari quindi circolano ancora, anche nell’area non occidentale. E non sembra che i BRICS abbiano in mente un sistema alternativo per fare transazioni con questi paesi.

Del resto, non avendo ancora i BRICS una sovranità monetaria piena verso l’estero, un sistema alternativo non potrebbero metterlo in piedi neanche volendo…

Ora, tutto questo era vero fino a ieri…

Oggi, ed è lo scopo di questo articolo, ci stiamo avvicinando alla prossima riunione dei BRICS prevista ad ottobre, nella quale la Russia, che quest’anno ha la presidenza del club, potrebbe proporre agli altri membri il progetto che piu’ di ogni altro potrebbe aprire le porte a una vera dedollarizzazione.

Si tratta di The Unit, una valuta digitale decentralizzata, basata su un ledger, che potrebbe essere adottata da qualsiasi paese per effettuare scambi commerciali.

La nuova valuta dovrebbe essere garantita al 40% da oro e al 60% da un paniere di valute dei BRICS.

Inoltre, alla base del progetto, ci sarebbe anche la costituzione di una piazza delle commodities in cui i prezzi verrebbero decisi in alternativa a quelli di Londra e soprattutto, nella nuova valuta Unit, non in dollari.

A giugno in Russia si terrà una riunione ministeriale che dovrà decidere le discussioni da tenere nel prossimo vertice dei BRICS previsto appunto a ottobre; ed è molto probabile che il progetto Unit potrebbe essere inserito nell’ordine del giorno (ad ogni modo, il progetto è già stato approvato dal Business Council dei BRICS).

Personalmente penso che la Cina potrebbe non essere molto entusiasta di Unit, dato il suo fervido attaccamento al suo yuan digitale e alle mire egemoniche in esso implicate.

Tuttavia i BRICS hanno dato prova di estrema flessibilità nelle negoziazioni. E del resto c’è una gamma infinita nei possibili casi d’uso di Unit; molti dei quali potrebbero lasciare campo aperto allo yuan digitale. Quindi una qualche realizzazione concreta del progetto non è da escludere.

Fermo restando che vi è sempre una caterva di condizioni da soddisfare e mettere a punto, legate soprattutto all’interoperabilità, al peso delle diverse valute da porre a collaterale di Unit, alle molteplici questioni giuridiche, tecniche e geopolitiche su cui trovare la quadra…

Le difficoltà che abbiamo sempre elencato riguardo alla creazione del dollaro e l’euro digitale (e che hanno portato la Fed a rinunciare al progetto di una CBDC emessa dalla banca centrale, preferendo l’uso delle stablecoin private), sarebbero qui decuplicate, dovendo essere Unit una valuta comune fra piu’ stati sovrani, e non la valuta di un paese solo (il dollaro), o quella di un sistema feudale premoderno (l’euro).

Ad ogni modo, che si realizzi o meno, Unit è proprio il progetto che ci vorrebbe per imporre, in una parte di mondo, una vera e propria dedollarizzazione, in quanto ha le caratteristiche minime indispensabili adatte allo scopo, e cioè:

  • prevede l’emissione di una valuta con funzioni reali di scambio
  • prevede che i prezzi dei beni siano in tale valuta e non in dollari

I paesi BRICS non hanno le strutture finanziarie sufficienti per imporre Unit anche come valuta di riserva globale. Quindi Unit resterebbe solo un mezzo comune di pagamento che lascerebbe poi a ciascun paese la responsabilità di giocarsela a modo proprio per accumulare riserve.

In tal caso, ognuno potrebbe decidere se continuare ad ammassare dollari, oppure oro.

Già…ancora i dollari…

Come si vede, per arrivare a un sistema in cui il dollaro sia completamente escluso dal pianeta, ci vogliono decenni.

Tuttavia, è ovvio che Unit, anche se adottato in modo parziale e privo di alcune delle funzionalità tipiche di una valuta, sarebbe già sufficiente a far crollare il sistema occidentale basato sul dollaro.

Come mai?

Il motivo è che il sistema dollaro è verticistico, quindi può sopravvivere solo sulla sottomissione valutaria, economica o militare di quanti piu’ paesi possibile.

Se metà pianeta lascia il gioco, il potere di sottomissione decade; in quanto il dollaro può esistere solo su scala universale.

Infatti, in una diffusione del dollaro solo su scala locale o regionale la montagna di debiti del governo USA inizierebbe ad essere un problema…

Morale della favola, con una eventuale proposta russa di Unit ai BRICS saremo forse un pò piu’ vicini alla dedollarizzazione?

Ancora non so rispondere a questa domanda, ma questo articolo voleva essere solo una anticipazione, per informarvi che da qui a ottobre terremo d’occhio ciò che accade nei BRICS per capire se, per la prima volta nella storia, verrà dato finalmente il fischio d’inizio a questo lungo processo.

Le guerre americane stanno obbligando Powell a tornare sui propri passi

Nell’ultima conferenza stampa del 1 maggio, Powell è riuscito ancora una volta a focalizzare l’attenzione dei media sul (falso) problema dell’inflazione.

Il solito teatrino è andato in onda: l’inflazione non è ancora abbattuta del tutto, i tassi non possono ancora scendere, le borse sono preoccupate, e cosi’ via…

In questo scenario già visto c’è stata però una nota che sembrava non combaciare con tutto il resto: Powell a un certo punto ha annunciato che a partire da giugno la riduzione dei titoli di stato dal bilancio della Fed subirà un forte rallentamento. I titoli scaricati dal bilancio non saranno piu’ pari a 60 miliardi, ma a soli 25!

Ma come? I posti di lavoro e i salari sono in aumento, minacciando un ritorno dell’inflazione. Anche l’economia va a gonfie vele e quindi deve essere raffreddata con una stretta monetaria per evitare l’inflazione. E Powell cosa fa? La cosa esattamente opposta, riducendo fortemente il QT, cioè riducendo la stretta monetaria che lui stesso sostiene essere cosi’ importante per combattere l’inflazione…

La cosa non ha senso, a meno che non guardiamo un pò oltre il ristretto quadro dipinto dai media, cercando di capire cosa sta davvero preoccupando Powell al di là dell’inflazione…

Nel nostro canale Telegram avevamo fatto notare, in un post del 25 marzo, che mentre la Fed era riuscita a ridurre la liquidità dal sistema togliendo di mezzo circa 1 trilione di dollari, il Tesoro degli Stati Uniti ha dovuto spendere, nello stesso lasso di tempo, il doppio di quella cifra (due trilioni), praticamente azzerando gli sforzi della Fed.

Si deve considerare che il Tesoro ha speso il secondo di questi due trilioni in un solo anno. E che ha preso questi soldi da un deposito solitamente destinato al mercato repo (il mercato in cui le banche riallineano i loro bilanci a fine giornata), nel quale, dopo il “saccheggio” del Tesoro, restano soltanto 500 miliardi, che, vista la velocità di spesa del governo, certamente finiranno prima della fine del 2024.

A parte questo tesoretto del mercato repo, che si trovava depositato li’ dai tempi del covid, non ci sono soldi liquidi nascosti da qualche altra parte su cui il Tesoro possa mettere le mani.

E’ ovvio quindi che, per saziare la fame di soldi del governo, bisogna prima o poi riprendere alla grandissima la stampa di dollari che era stata interrotta da Powell nel 2022. In pratica, bisogna smetterla con questa storia dell’inflazione e della riduzione della liquidità attraverso la riduzione del bilancio Fed e l’aumento dei tassi.

Il Tesoro degli Stati Uniti deve poter continuare a emettere montagne di obbligazioni di stato per finanziare le guerre e le altre spese folli del governo. E non è diposto piu’ a pagare montagne di interessi su questi titoli a causa dei tassi alti decisi da Powell. Inoltre, deve esserci la certezza che qualcuno si accolli queste obbligazioni. Quindi Powell deve fare la sua parte rimettendo questi titoli nel bilancio della Fed.

Tutto ciò in forma graduale, certo. Facendo in modo che la Fed non sia costretta da un giorno all’altro a dire che le sue politiche restrittive erano solo uno scherzo.

E infatti Powell ieri ha nascosto la prima mossa del suo voltafaccia (la riduzione del suo QT da 60 a 25 milioni) nei soliti discorsi sull’inflazione tanto cari ai media e a Wall Street.

Nessuno quindi ha badato al fatto che la situazione debitoria del Tesoro, legata alle spese fuori controllo del governo, sono talmente esorbitanti da superare di molto tutti gli aspetti legati all’inflazione.

Vediamo alcune cifre di questo scenario che per ora i media stanno trascurando…

Da quando le politiche dei tassi alti della Fed hanno iniziato ad avere effetti nell’ottobre 2022, il Tesoro ha dovuto pagare in un anno e mezzo più di 1.300 miliardi di dollari di spese per interessi, mentre altri 1.000 miliardi sono da spendere per il prossimo anno.

Il tutto ammonta a oltre 2,3 trilioni di spese per interessi sul debito entro aprile 2025, (assumendo che il tasso medio il prossimo anno rimanga superiore al 4,75%).

Ma abbiamo detto che la spesa del governo è fuori controllo. Di conseguenza, sono fuori controllo anche le emissioni di nuovi titoli di stato che finanziano tali spese, sui quali ovviamente saranno fuori controllo anche gli interessi da pagare…

Secondo alcune stime, infatti, queste spese per interessi sono destinate a peggiorare di circa 3-4 miliardi di dollari al giorno….

Pensate ancora che Powell non sarà costretto prima o poi a ridurre la velocità di questa corsa verso il baratro, allentando il peso che i tassi elevati esercitano su questa accelerazione?

E finora ci siamo limitati solo al debito governativo.

Se ci mettiamo dentro anche il debito di imprese e consumatori, vediamo che la Fed si trova ad affrontare una massiccia struttura debitoria di circa 86 trilioni di dollari in debiti di mercato (50mila miliardi di dollari in obbligazioni di emittenti nazionali e altri 36mila miliardi di dollari in prestiti al settore non finanziario). Escludendo il doppio conteggio dei debiti ipotecari (prestiti più obbligazioni cartolarizzate in MBS per un totale di 9,1 trilioni di dollari), il debito netto non governativo supera i 76 trilioni di dollari.

Non tutto questo debito è destinato a essere rifinanziato ogni anno.

Si stima quindi che i debiti complessivi, pubblici e privati, che necessitano di rifinanziamento il prossimo anno sono compresi tra 13,5 e 14,5 trilioni di dollari, dei quali 9,5 trilioni di dollari sono in titoli di stato, cioè debito governativo.

Si tratta pur sempre di una cifra enorme, su cui i tassi al 5% pesano come un macigno.

Tutto questo in una situazione economica che per ora sta reggendo, ma che inizia a mostrare delle crepe che la narrativa mediatica dell’inflazione impedisce di vedere.

Prendiamo ad esempio i dati del mercato del lavoro, di cui nel nostro canale Telegram abbiamo spesso dimostrato la falsificabilità.

Nei media tutti dicono che il mercato del lavoro è troppo in salute per sperare in una riduzione dell’inflazione.

Ma i dati reali dicono tutt’altro.

Il vero indicatore delle tendenze del lavoro sono i lavori temporanei.

Da quando ha raggiunto il massimo storico di 3,2 milioni di lavoratori nel marzo 2022, questo indice è costantemente diminuito, raggiungendo i 2,8 milioni nel marzo 2024.

Il calo del 13,3% dell’occupazione temporanea negli ultimi due anni significa che circa 400.000 posti di lavoro di questo tipo sono evaporati.

Intanto, i dati della scorsa settimana hanno segnalato che il PIL americano è cresciuto a un tasso inferiore al previsto per il primo trimestre del 2024.

Se la crescita economica continuerà a rallentare, i datori di lavoro non si limiteranno a ridurre i lavoratori temporanei, ma inizieranno a tagliare anche i dipendenti a tempo pieno.

Se la Fed non invertirà in tempo questa politica monetaria restrittiva, il tasso di disoccupazione aumenterà e ben presto si avrà un’evidente recessione.

Ma per molti investitori, le questioni legate all’inflazione sono diventate una preoccupazione talmente grande da occupare tutto il campo visivo, impedendo di scorgere tutto il resto.

La verità è che l’inflazione non dipende dalla Fed, ma è causata dalle politiche del governo, come ad esempio gli incentivi governativi a certi settori produttivi, le sanzioni, le tariffe protezionistiche, ecc…in pratica, tutti gli sforzi economici senza precedenti che gli USA sono costretti a mettere in campo per resistere alla competizione sempre piu’ forte con una parte di mondo che gli sta sfuggendo di mano.

I tassi al 5% o al 3% non cambiano questa situazione, ma contribuiscono a peggiorare gli effetti collaterali di questi sforzi del governo.

Credo che Powell sia perfettamente conscio di questo.

Per tale ragione, è praticamente garantito che i tassi scenderanno e il bilancio della Fed riprenderà a rimpinguarsi di obbligazioni del Tesoro.

Bisogna sperare che ciò accadrà fintanto che l’economia USA è ancora in buono stato e che queste misure non vengano prese troppo tardi.

I fattori epocali in gioco nel rialzo dell’argento

Nei nostri ultimi articoli ci siamo occupati spesso dei fattori economici che stanno trasformando il mercato dell’oro.

In questo ad esempio abbiamo spiegato come la finanziarizzazione (tramite derivati, Etf ecc.) a lungo andare abbia deteriorato questo mercato fino a portarlo al punto di rottura in cui il collaterale di metallo fisico reale non riesce piu’ a coprire il valore dei contratti derivati, a meno di non ricorrere a trucchi sempre piu’ complicati.

Per l’argento il punto di rottura è ancora piu’ vicino.

I grandi investitori ad esempio stanno prosciugando il Comex (la piazza americana dei derivati legati ai preziosi). Cioè stanno ritirando quasi tutto l’argento fisico posto a collaterale dei loro derivati.

Finora sono riusciti a farlo in modo lento e graduale, senza provocare allarmi o aumenti di prezzi. Ma prima o poi il prezzo dell’argento sarà costretto a reagire. Per non parlare dello shock che potrebbe comportare un crollo vero e proprio del Comex.

Infatti ormai al Comex ogni oncia fisica di argento deve fare da collaterale a ben 28 once cartacee. Ciò significa che, se per il 3,5% dei contratti cartacei venisse richiesta la consegna di metallo fisico, il Comex non avrebbe abbastanza argento per soddisfare la domanda.

Anche le scorte di argento della London Bullion Market Association (LBMA, la piazza dei derivati londinese) sono diminuite del 30% rispetto al picco del 2021:

E, contrariamente a ciò che succede per l’oro, in cui le piazze orientali hanno piu’ oro di quelle occidentali, per l’argento la piazza cinese è in un deficit peggiore di quello occidentale, sia per quanto riguarda l’argento fisico:

…sia per quanto riguarda l’argento a collaterale dei derivati:

Negli anni scorsi abbiamo anche accennato alla situazione davvero disperata che riguarda l’argento posto a collaterale degli Etf, ancora piu’ scarso di quello che garantisce i derivati.

Per fortuna, piu’ di recente, il bull market delle criptovalute ha convinto molti investitori a vendere quote di Etf legati all’argento per comprare quote degli Etf legati a bitcoin recentemente approvati in America.

Ciò ha portato al paradossale risultato di una decisa diminuzione di quote di questi Etf, nonostante il bull market dell’oro di questi mesi avrebbe al contrario dovuto portare a una ondata di acquisti anche nell’argento:

Come dicevo però, il fatto che gli investitori abbiano venduto le quote di Etf legati all’argento sta allontanando lo spettro di un crollo del collaterale di questi strumenti. Infatti, se gli acquisti di questi Etf fossero continuati ad aumentare come negli anni scorsi, l’argento a collaterale di tali quote forse a quest’ora sarebbe già finito

Le cose non vanno meglio nel mercato spot (cioè negli scambi di argento fisico vero e proprio).

La domanda industriale di argento è cresciuta di un solido 11% raggiungendo il record di 654,4 milioni di once nel 2023, seguito dall’anno record del 2022.

Questo aumento costante della domanda, a fronte di una impossibilità di aumentare l’offerta (l’argento disponibile infatti è sempre piu’ o meno uguale da un decennio) ha portato il mercato a un cronico disavanzo tra domanda e offerta.

E’ dal 2021, infatti, che la domanda di argento ha superato l’offerta. E questo deficit si è accentuato negli anni, fino a raggiungere 184,3 milioni di once nel 2023, mentre si prevede che raggiungerà 215,3 milioni di once nel 2024.

Nonostante questa scarsità, il prezzo dell’argento è rimasto sempre molto basso e non ha ancora conosciuto quella “rivoluzione” epocale che abbiamo spiegato qui per il prezzo dell’oro.

Il motivo è senz’altro legato al fatto che l’oro, diventando uno strumento finanziario indispensabile per la Cina e gli altri paesi BRICS, è stato strappato dalle mani delle borse occidentali per essere manipolato in modo da avere una quotazione “muscolare” che sia in grado di reggere il confronto con le valute dei BRICS di cui funge da collaterale.

L’argento invece non ha assunto alcuna funzione monetaria, per cui è ancora sotto lo stretto controllo delle piazze occidentali, che, sempre piu’ a fatica, riescono ancora a manipolarlo a ribasso.

Questa differenza tra l’oro e l’argento si riflette nella incredibile discepanza dello storico rapporto tra le loro quotazioni, che negli ultimi anni è salito fino a stabilizzarsi intorno al valore di 80:1, quando storicamente questo valore è sempre stato intorno a 15:1, anche se da quando esistono le manipolazioni il valore si era stabilizzato intorno a 45-50:1.

Il caso dell’argento è quindi uno dei piu’ incoerenti al mondo e certamente costituisce una forte tentazione per gli investitori in cerca di asset in cui la divergenza tra economia fondamentale (relazione tra domanda e offerta) e quotazioni produce interessanti punti d’ingresso.

Qui in effetti la divergenza è tra le piu’ estreme della storia

Ma si sa anche che l’argento, non solo è un asset fra i piu’ manipolati al mondo, ma ha anche una debolezza finanziaria (cioè non ha ruoli di spicco dal punto di vista valutario, monetario, ecc.) che lo rende poco reattivo di fronte alle manipolazioni a ribasso degli angloamericani.

Per portare quindi la manipolazione dell’argento al suo punto di rottura (come avvenuto negli ultimi 18 mesi con l’oro) è necessario che sia l’intero mondo finanziario occidentale a crollare. Se aspetti che sia l’argento ad emanciparsi da solo, campa cavallo!

Ma da questo punto di vista, le cose sono molto piu’ avanti di quanto si pensi…come mostra il seguente grafico:

Il grafico in alto mostra l’andamento dell’argento, mentre in basso abbiamo l’andamento del dollaro.

Le frecce rosse nei due grafici evidenziano come il prezzo dell’argento (simile a quello di qualsiasi altra materia prima o metallo) è sempre stato inverso a quello del dollaro.

…tranne nell’ultimo rialzo dell’argento di queste settimane, che, per quanto non sia stato eccezionale, si distingue perché per la prima volta l’argento è salito nonostante anche il dollaro fosse in salita.

Questo fatto indica che l’argento, pur essendo finanziariamente “debole”, sta diventando meno debole del dollaro.

Infatti la salita del dollaro mostrata dal grafico indica semplicemente che il suo tasso di cambio si sta rafforzando rispetto ad altre valute fiat. Quindi indica che le altre valute stanno messe peggio del dollaro, non certo che il dollaro si stia rafforzando in termini di potere d’acquisto.

La perdita della correlazione inversa tra argento e dollaro è quindi il segno di una debolezza delle valute fiat in generale ed ha lo stesso significato sistemico della perdita della correlazione inversa tra oro (e argento) con i tassi d’interesse di cui abbiamo parlato qui.

Si tratta quindi di una perdita di valore e di autorevolezza di tutto il sistema delle valute fiat nel suo complesso.

La crisi delle valute fiat quindi è in una fase talmente avanzata da permettere persino al “debole” argento di fare la figura del leone! E questo, prima o poi, non potrà non riflettersi sul prezzo.

Anche se l’argento di per sé ha meno forza intrinseca dell’oro, la sua eccezionale sottovalutazione, perseguita in oltre un decennio dal sistema finanziario occidentale, farà da cassa di risonanza (con una clamorosa risalita verticale delle quotazioni) di una eventuale crisi, scivolone o evento sistemico che prima o poi dovrà pure accadere in un sistema in fase cosi’ avanzata di putrefazione.

Ecco perché l’argento resta l’asset piu’ interessante di questo inizio secolo e merita una costante attenzione da parte degli investitori.

La prima manipolazione a rialzo dell’oro della storia

In questo blog stiamo costantemente monitorando i cambiamenti epocali che dal 2022 sono in atto sul mercato dell’oro.

A luglio 2023 avevamo segnalato qui la fine della correlazione inversa tra oro e titoli di stato americani: il primo sintomo del probabile indebolimento del controllo occidentale su questo metallo.

Ad agosto 2023 avevamo segnalato qui una svolta importante del mercato dell’oro: la perdita del controllo di Londra e delle banche centrali occidentali sul prezzo del metallo giallo.

Infine ad ottobre 2023 avevamo scoperto che le banche cinesi avevano interrotto la collaborazione col London Bullion Market, con la conseguenza di una sempre piu’ evidente divergenza del prezzo dell’oro tra Londra e Shanghai.

Il tassello successivo di questo cambiamento epocale è il fatto che la Cina, dopo aver preso il controllo dell’oro, lo sta manipolando moderatamente a rialzo. Ed è di questo che vogliamo parlare ora.

Iniziamo a dire che il controllo dell’oro da parte della Cina è ormai un fatto inequivocabile, come mostrato dal grafico qui sotto:

Nel 2023, la Banca popolare cinese (PBoC) ha acquistato la cifra record di 735 tonnellate di oro, di cui circa due terzi sono stati acquistati di nascosto. Inoltre, il settore privato cinese ha importato al netto 1.411 tonnellate nel 2023 e ben 228 tonnellate solo nel gennaio 2024.

Il grafico quindi mostra che da quando, nella seconda metà del 2022, sono iniziati questi acquisti in grande stile (le grandi bande gialle sulla destra), il prezzo dell’oro ha registrato una tendenza al rialzo.

C’è quindi una semplice e facilmente osservabile relazione di causa-effetto tra gli acquisti cinesi e il rialzo del prezzo dell’oro.

Questo rialzo inoltre avviene nonostante l’occidente sia un venditore netto dell’oro, come mostra ad esempio la divergenza, a destra del grafico seguente, tra la diminuzione degli acquisti di quote degli Etf occidentali legati all’oro (area blu) e l’aumento del prezzo del metallo giallo (curva gialla):

I due grafici quindi mostrano in modo chiaro i due fenomeni concomitanti che abbiamo detto, cioè:

  1. Il prezzo dell’oro è sotto l’influenza cinese
  2. I movimenti sull’oro che avvengono in occidente non influiscono piu’ sulle quotazioni

Ma, come abbiamo detto, la Cina ora non si limita al controllo dell’oro: lo sta anche manipolando a rialzo.

Una novità assoluta nella storia recente di cui dobbiamo capire le modaità.

La prova di questo fenomeno inedito è nel grafico seguente, dove si può vedere un importante cambiamento del modus operandi dei grandi investitori cinesi sull’oro.

Nel primo rettangolo nero sulla destra vediamo infatti che nel 2022 i Cinesi hanno aumentato gli acquisti di oro per reagire a una diminuzione del prezzo.

In sostanza, qui i Cinesi si erano limitati a determinare, con quei forti acquisti, un livello minimo per il prezzo dell’oro, impedendone la caduta.

Tuttavia il rettangolo verde sull’estrema destra mostra che nel 2024 i Cinesi stanno facendo qualcosa di diverso, ossia non si limitano piu’, con i loro acquisti, a stabilizzare il prezzo dell’oro: lo stanno addirittura portando a massimi storici superiori. In sostanza, lo stanno moderatamente manipolando a rialzo:

In effetti, il raggiungimento dei nuovi massimi storici dell’oro in questi giorni è sotto gli occhi di tutti, ma finora molti analisti lo avevano attribuito all’aumento delle posizioni rialziste nel mercato dei derivati legati all’oro.

Tuttavia, se questo fosse l’unico fattore in gioco, dovremmo avere dei fenomeni di divergenza tra prezzo spot e prezzo future che invece non si stanno verificando.

La manipolazione moderata verso l’alto operata dalla Cina è quindi un fattore che si sta aggiungendo all’influenza dei derivati e, anzi, ne sta forse influenzando l’andamento; in quanto, piu’ la Cina compra oro è piu’ gli investitori nei derivati, seguendo i loro tipici riflessi incondizionati e iperreattivi, aumentano le posizioni a rialzo, senza nemmeno farsi troppe domande.

Noi invece una domanda ce la facciamo: per quale motivo i Cinesi si comportano cosi’?

Tanto per cominciare, ritengo che la moderata manipolazione a rialzo sia una mossa preventiva di breve-medio termine che mira a stabilizzare l’attuale prezzo dell’oro. Esattamente come avveniva nei derivati ai tempi in cui Londra effettuava le sue manipolazioni a ribasso: ogni tanto il trend ribassista generale doveva essere sostenuto da forti “bastonate” a ribasso intraday.

Quindi la vera domanda è: perché la Cina vuole mantenere l’oro entro un range di prezzo piu’ alto rispetto agli ultimi dieci anni?

I principali motivi sono essenzialmente tre:

  • Ciò che preoccupa la PBoC – oltre alla possibilità che i suoi dollari vengano “congelati” dall’occidente – è che la Federal Reserve sarà costretta ad abbassare drasticamente i tassi di interesse e a lasciare che l’inflazione si surriscaldi al di fuori degli Stati Uniti.
    L’oro è il naturale antidoto contro l’inflazione.

 

  • Come abbiamo spiegato qui, i paesi “BRICS” che commerciano nelle loro valute locali estromettendo il dollaro, devono usare l’oro come valuta terza che permetta la conversione reciproca delle loro valute.
    Finché questi scambi non avverranno in una nuova valuta universale alternativa al dollaro, l’oro manterrà il ruolo di vera e propria valuta che, come tale, non potrà avere troppa volatilità, soprattutto verso il basso.

 

  • La Cina è impegnata in una “rivoluzione industriale” che si prefigge di prendere il controllo globale di quelle che chiama “nuove realtà produttive” (Intelligenza artificiale, Energie alternative, Microchip e cosi’ via…). Per fare ciò sta investendo cifre monumentali nelle aziende interessate, aumentando la svalutazione dello yuan e quindi rendendo necessario accumulare oro a compensazione della perdita di potere d’acquisto della valuta nazionale.

 

Come si vede, quindi, l’aumento del prezzo medio dell’oro non è solo un argomento per gli investitori, ma è un vero e proprio fattore economico fondamentale che rivela la reazione dei vari paesi agli importanti cambiamenti nelle economie globali di questi ultimi anni, cioè:

  • il ritorno nei prossimi mesi, forse per l’ultima volta in occidente, a nuove politiche di allentamento monetario (taglio dei tassi e ripresa di acquisti di titoli di stato governativi) e, contemporaneamente,
  • la separazione sempre piu’ netta fra le economie occidentali e quelle del resto del mondo.

Continueremo perciò a occuparci dell’oro, il primo indiscusso indicatore di questi cambiamenti, e a monitorare gli straordinari avvenimenti di portata epocale che continuano a dispiegarsi sotto i nostri occhi.

La crisi della price discovery nelle materie prime legate al dollaro

Un importante effetto della fine della globalizzazione, ormai inarrestabile, è la polarizzazione dell’economia fra le due aree attualmente in competizione fra loro, cioè l’occidente e il resto del mondo.

Si tratta di un processo graduale che sta agendo sempre piu’ in profondità e alla fine, se non ci sarà una svolta che lo riporti indietro nel tempo, produrrà effetti decisivi sull’assetto delle valute globali.

Chi ci legge sa bene che non ci siamo mai allineati alle facili narrative complottiste sulla “dedollarizzazione”.

Neanche questa volta diremo che la dedollarizzazione è dietro l’angolo.

Ma possiamo dire ormai con certezza che l’equilibrio basato su una valuta unica mondiale è rotto, forse in modo irrimediabile. E questo dovrà per forza portare a un nuovo assetto valutario, di cui però è prematuro prevedere i contorni.

Nel nostro piccolo, in due articoli dell’anno scorso (qui e qui) avevamo già segnalato i primi sintomi di questa crisi epocale.

Avevamo infatti evidenziato una importante polarizzazione fra oriente e occidente dei prezzi dell’oro.

Dopo che le banche cinesi avevano abbandonato la piazza di Londra che fissa ancora oggi il prezzo ufficiale dell’oro, le quotazioni di questa materia prima hanno iniziato a divergere fra oriente e occidente.

Ora un’analoga divergenza di prezzi si sta affacciando sulla scena mondiale per un’altra importantissima materia prima: il petrolio.

Questo articolo è fra i pochi che lo rivelano; e ne consigliamo perciò la lettura a chi vuole approfondire.

In soldoni, mentre l’AIE, l’agenzia internazionale (occidentale) dell’energia dice che il petrolio è destinato a valere sempre meno, l’OPEC, dice la cosa opposta.

Le conclusioni dell’AIE sono basate sulle fantasiose prospettive di affermazione delle energie alternative, mentre quelle dell’OPEC si basano sulla ipotetica capacità dei membri di tale organizzazione di manipolare a rialzo le quotazioni.

Legate dunque piu’ alla politica e all’ideologia che alla realtà, queste stime hanno portato le due entità alla massima divergenza sulle proiezioni future degli ultimi 16 anni.

E nel caso del petrolio, dove, a differenza dell’oro, non c’è una piazza ufficiale che fissa le quotazioni giornalmente, le proiezioni future hanno un effetto fondamentale sul prezzo giornaliero.

Infatti il mercato dei derivati, dove questo prezzo si crea in modo indiscriminato e spontaneo, si basa interamente sulle proiezioni future, non certo sui reali scambi di domanda e offerta.

Ecco quindi che, come nel caso dell’oro, anche in quello del petrolio si inizia a riscontrare una crescente difficoltà nella fissazione di un solo prezzo ufficiale che valga in tutte le parti del globo.

Ma oro e petrolio non sono due materie prime qualsiasi.

La modulazione e il controllo delle loro quotazioni sono le colonne portanti di tutto il sistema valutario globale basato sul dollaro.

In tale sistema, l’immagine falsa dell’oro come “suddito” e “fratello scemo”delle obbligazioni statali sta alla base della credibilità delle valute fiat basate sul debito, cioè dollaro ed euro.

Tuttavia, in quella larga parte di mondo che non fa parte dell’occidente allargato, questa finzione non regge piu’.

Dal momento che i paesi che ne fanno parte effettuano scambi commerciali in valuta locale e non in dollari, l’oro viene usato come valuta ponte per passare da una valuta locale all’altra, e quindi ridiventa il polo fisso e immutabile tra queste diverse valute.

Allo stesso modo il petrolio, materia prima intorno cui si coalizzava il consenso alla circolazione del dollaro negli scambi globali, sta diventando l’elemento divisivo che giustifica il superamento di tale sistema.

Man mano che i ruoli di queste due materie prime si differenziano fra i due emisferi concorrenti occidentale e sud-orientale, la loro valutazione unica globale perde sempre piu’ concretezza reale.

A una polarizzazione dell’uso del petrolio e dell’oro corrisponde quindi una polarizzazione delle loro rispettive valutazioni.

E a lungo andare, è l’uso, non la forza delle armi o dei ricatti economici, a determinare la struttura dell’economia, in questo caso dell’economia valutaria.

A questo punto, potremmo ipotizzare che tutto questo porterà un giorno alla “fine del dollaro”?

Certamente la divergenza dei prezzi è una condizione che, aggiunta ad altre, può portare a lungo andare in quella direzione.

Ma bisogna capire che la dedollarizzazione è un processo “rivoluzionario”, mentre gli eventi che abbiamo appena spiegato sono ancora fenomeni di “resistenza”, non di rivoluzione.

La rivoluzione è la sostituzione di un ordine con un altro.

La resistenza è il tentativo di sopravvivere in un ordine costituito, senza tentare di sovvertirlo, ma a volte tentando di avvantaggiarsi a sue spese.

Almeno per ora, i paesi del cosiddetto “nuovo ordine multipolare” non cercano di sovvertire l’ordine unipolare dominato dal dollaro e dagli USA.

Tutte le azioni che mettono in atto, sia in campo economico e geopolitico che in quello militare, sono ancora dei semplici espedienti per resistere a tale ordine, cioè per sopravvivere in esso alla meno peggio, non per sovvertirlo.

In questo articolo avevamo spiegato il modo con cui potremmo un giorno capire quando questi paesi staranno passando dalla semplice resistenza a una vera rivoluzione, almeno per quanto riguarda la supremazia del dollaro.

Avevamo detto infatti che la dedollarizzazione avverrà nel momento in cui un gruppo di paesi deciderà di prezzare alcune materie prime in una valuta diversa dal dollaro.

Finché ciò non avviene, la supremazia del dollaro resta ancora in piedi, anche se gli scambi commerciali in dollari non avvengono con la stessa frequenza di prima e anche se le quotazioni in dollari di alcune materie prime iniziano ad essere complicate.

E’ possibile che questi due fenomeni che abbiamo citato, con l’andar del tempo, finiscano per rendere sempre piu’ difficili, e in certi casi persino impossibili, le transazioni nel sistema del dollaro.

Ma anche in questo caso non è detto che ciò spinga i paesi “multipolari” al grande passo della dedollarizzazione. Semplicemente perché quest’ultima, come dicevamo, è un’azione rivoluzionaria che implica il sovvertimento di un ordine in tutti i suoi aspetti, non solo quello valutario.

Decidersi per la dedollarizzazione vuol dire voler creare un intero ordine alternativo (in tutti i suoi aspetti politici, sociali, commerciali, economici, ecc.). E vuol dire anche essere disposti a difenderlo con un imponente sforzo militare

Siamo ancora molto lontani da tutto questo…

2024-2025: arriva la madre di tutte le bolle

Nel nostro canale Telegram ci occupiamo spesso del ciclo quadriennale di bitcoin che periodicamente porta tutto il mercato cripto a formare una bolla ciclica i cui massimi superano sempre quelli dei cicli precedenti.

La bolla attuale, appena iniziata, è stata finora alimentata dalla approvazione da parte della SEC di una serie di Etf in bitcoin che hanno portato alla luce una domanda inespressa di questa coin molto superiore alle piu’ rosee aspettative.

Basti pensare che, secondo i dati  di Glassnode, i volumi dei movimenti di bitcoin legati alla continua domanda di quote di questi Etf è salita a circa 7,7 miliardi di dollari al giorno.

Non stupisce quindi che, mentre di solito un Etf appena nato impiega 5-10 anni per avvicinarsi alla vetta della classifica delle migliori performance mensili, … agli Etf in bitcoin di BlackRock e Fidelity sono bastate tre settimane.

Ma questo già eccezionale risultato potrebbe essere doppiato con una eventuale approvazione da parte della SEC degli Etf in ether.

Un forte segnale che va in tale direzione è il forte deflusso di eth dagli exchanges, pari a circa 1,2 miliardi di dollari.
Questa massa enorme di eth, verosimilmente spostati in wallet e servizi di staking, indica un interesse a lungo termine per Ethereum e fa pensare che vi sia una domanda inespressa di questa coin che potrebbe sbloccarsi con l’approvazione degli Etf, esattamente come avvenuto per btc.

Non capita spesso che un forte fattore di crescita di una bolla venga raddoppiato da un fattore “gemello”.

Già questo renderebbe l’attuale ciclo di bitcoin e delle cripto molto piu’ promettente di quelli, peraltro già fantastici e fuori misura, degli anni precedenti.

Ultimamente però si sta risvegliando un nuovo fattore che in passato è bastato da solo a creare una di queste bolle cicliche.

Parlo della bolla del 2017, nella quale molte persone sono diventate milionarie nel giro di pochi mesi.

Diversamente dalla bolla del 2021, che è stata l’ultima della serie, quella del 2017 fu causata da un fattore che poi non si è piu’ presentato nello scenario economico mondiale, ma che oggi sembra voler tornare ancora piu’ potente di prima.

Parlo della svalutazione dello yuan.

Come sanno tutti gli economisti, per sostenere la crescita, Pechino per molti anni si è concentrata sugli investimenti interni, reindirizzando i prestiti bancari specialmente verso il settore immobiliare, creando un eccessivo sviluppo edilizio che ora ammonta a 100 trilioni di dollari, ben 3,6 volte il PIL cinese.

Nel 2021, l’esplosione di questa bolla immobiliare ha fatto crollare le vendite degli alloggi di circa il 40%.

Di conseguenza, con circa 50mila miliardi di dollari di depositi, le banche cinesi hanno ora gran parte dei loro asset vincolati in milioni di proprietà immobiliari inutilizzate.

Pechino è intervenuta incaricando la Banca popolare cinese di garantire fondi illimitati alle banche commerciali per proteggerle dalle perdite. In pratica, un grande QE che sta svalutando lo yuan.

Nel 2017 vi fu una analoga fortissima svalutazione dello yuan che causò una fuga di capitali dalla Cina verso asset rifugio, tra cui anche bitcoin:

In questo grafico, che mostra i volumi di acquisto di btc durante la magnifica bolla del 2017, vediamo nella piccola area grigia in basso a destra, i volumi di acquisto provenienti da investitori occidentali, mentre la grande area rosso-arancio rappresenta i volumi degli investitori cinesi.

In pratica, senza il contributo dei Cinesi, la bolla del 2017 non sarebbe mai esistita (si possono leggere qui le analisi fatte all’epoca su tale fenomeno).

E, come abbiamo detto sopra, nel 2024 si stanno producendo le stesse condizioni del 2017, ma a un livello di grandezza triplicato.

Come ciliegina sulla torta, questa situazione sta avendo luogo in un momento di forte competizione tra USA e Cina.

Un momento in cui nel mondo economico americano si fa anche strada la consapevolezza del ruolo positivo delle cripto in questa competizione.

Tutti gli investitori in cripto infatti utilizzano le stablecoin come valuta ponte fra scambi, come piano di atterraggio da precedenti speculazioni, come valuta di deposito che genera interessi, ecc.

Le stablecoin sono l’ossatura di questo mercato. E sono tutte (almeno quelle universalmente usate) in dollari…e spesso collateralizzate in titoli di stato USA.

In questo articolo abbiamo descritto il ruolo crescente di queste stablecoin a livello internazionale.

Questo report della Federal Reserve invece mostra a quanto sia arrivata la consapevolezza dell’establishment americano dell’importanza di questo ruolo. Al punto da inserire la Defi nella lista delle “armi” valutarie a disposizione per mantenere il ruolo dominante del dollaro…

Una cosa che qualche anno fa sarebbe stato impensabile.

Riassumendo quindi, abbiamo come al solito lo sviluppo di una bolla che precede e segue di un certo numero di mesi l’halving di bitcoin.

Ogni quattro anni si sviluppa una bolla del genere. Ormai ci abbiamo fatto l’abitudine.

La differenza è però che, in questo ciclo, è come se si stessero concentrando tutte le bolle precedenti per formare una super bolla.

Infatti, i fattori che abbiamo elencato:

  • approvazione degli Etf in btc
  • raddoppio con l’approvazione degli Etf in eth
  • crisi immobiliare e svalutazione dello yuan
  • adozione del mercato cripto nella competizione internazionale americana

presi singolarmente sarebbero già capaci di creare una bolla.

Ma cosa succede se tutte queste cause avvengono nello stesso ciclo? Quale scala di grandezza potrebbe raggiungere la bolla che sta per arrivare?

Nessuno lo sa, perché non è mai successo nulla del genere…

Possiamo solo aspettare e vedere coi nostri occhi…

Le stablecoin come nuove ambasciatrici del dollaro

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La quota degli investitori stranieri nei titoli di stato americani si è dimezzata negli ultimi 15 anni, passando dal 40% del 2008 al 20% del 2023.

Mantenere un discreto livello di domanda di questi titoli di stato, cioè del debito pubblico americano, negli investitori internazionali, è basilare per proteggere la stabilità e la credibilità del dollaro. Perciò il Tesoro USA deve inventarsi qualcosa per compensare queste perdite.

Probabilmente le migliori opportunità per sostenere la domanda di debito americano si stanno aprendo col passaggio dalle attuali valute elettroniche a quelle digitali negli scambi internazionali.

Già lo yuan digitale ad esempio, viene sempre piu’ usato nelle transazioni commerciali, al punto che la Standard Chartered, una banca multinazionale con sede a Londra, offre ora servizi di cambio per la CBDC cinese.

L’America però è ben lontana dallo sviluppare un CBDD, cioè un dollaro digitale statale analogo a quello cinese, e rischia cosi’ di perdere la corsa ad occupare queste nuove vie di trasmissione della valuta a livello globale.

Non stupisce quindi che negli equilibri valutari internazionali stia assumendo sempre piu’ importanza il ruolo delle stablecoin private quotate in dollari e collateralizzate in titoli di stato americani.

Ad esempio, Paxos, la società che ha creato la stablecoin di Paypal (PYUSD), ha ottenuto l’approvazione preliminare dell’autorità finanziaria di Abu Dhabi e da quella di Singapore per emettere stablecoin in dollari e offrire servizi di asset digitali.

Allo stesso modo Circle, l’emittente di USDC, collabora con SBI Holdings di Tokyo, per promuovere l’uso di USDC in Giappone.

In Brasile sarà invece la società fintech Nubank a promuovere ai suoi 85 milioni di clienti l’acquisto e il possesso di USDC, grazie a una partnership con Circle.

Man mano che il web.3 e i servizi basati sulla blockchain si espandono nel mondo, le stablecoin in dollari vengono promosse da questi “ambasciatori” (Circle e Paxos) in tutti i paesi amici dell’America.

Emblematica è anche la collaborazione tra il Ministero delle Finanze di Palau e Ripple.

La Repubblica di Palau, a 500 km dalle Filippine, sta portando avanti un progetto pilota che verrà certamente copiato in futuro dal Tesoro americano per diffondere l’egemonia del dollaro nelle nuove vie del fintech.

In una prima fase, anche a Palau è stata creata una stablecoin legata al dollaro basata sulla blockchain di Ripple.

Tuttavia il progetto prevede che, in una seconda fase, Ripple crei anche una CBDC locale, con la formazione di una infrastruttura digitale di commercio con l’estero che presumibilmente avrà la stablecoin in dollari come valuta ponte negli scambi tra la CBDC di Palau e le CBDC di altri paesi.

Si profila cosi’ una differenza tra la rete digitale implementata dal blocco Orientale (i Brics, per semplificare) e quella che vorrebbe mettere in piedi l’America.

Nella prima infatti la valuta ponte è l’oro, la cui convertibilità con qualsiasi valuta fiat viene assicurata dalle banche centrali cinese e russa.

Nel sistema americano invece la valuta ponte dovrebbe restare il dollaro, nella sua forma digitale creata dalle società private americane, in assenza di un dollaro digitale statale.

Inoltre, come abbiamo detto all’inizio, questa rete digitale contribuirebbe a formare una nuova base di utenti, quelli che useranno appunto le stablecoin in dollari, per compensare le perdite di domanda in titoli di stato USA dovute alle vendite da parte degli investitori esteri.

Si creerebbe cosi’ in modo indiretto una nuova domanda per i titoli di stato, dal momento che questi fanno da collaterale alle stablecoin di Circle, Paxos e Ripple.

L’efficacia e la competitività di questa futura rete digitale rispetto a quella dei “Brics”, dipenderà dalla rapidità con cui verrà implementata. E a sua volta la rapidità di implementazione dipenderà dalla consapevolezza con cui la politica americana sosterrà questa “linea evolutiva” del dollaro.

Attualmente infatti sembra che la politica americana sia ancora frammentata, per non dire: lacerata, tra i fautori del dollaro tradizionale e i sostenitori del nuovo corso.

Se la classe dirigente americana non si dà velocemente una regolata, questa mancanza di coesione decisionale potrebbe portare alla sconfitta americana nella corsa verso l’egemonia del futuro.

Prepararsi in tempo alla deflazione

In Strategie Economiche siamo famosi per la capacità di anticipare i principali trend economici con largo, anzi, spesso enorme anticipo.

Ad esempio, mentre a marzo 2020 i media erano concentrati sulla deflazione indotta dai lockdown, noi avevamo spiegato qui per filo e per segno come e perché sarebbe arrivata l’inflazione.

Piu’ di recente, a gennaio 2023, siamo stati fra i primi a segnalare qui l’arrivo della disinflazione mentre tutti i media si stracciavano ancora le vesti per l’inflazione.

Questa capacità di previsione non ci deriva da una qualche particolare bravura, nè da poteri paranormali. Spesso è causata dal semplice fatto che i media ignorano i dati, non sanno interpretarli, oppure tengono conto solo dei dati a breve termine.

Vi sono in realtà numerose società di analisi capaci di prevedere l’economia anche meglio di noi, ma in genere pubblicano i loro risultati per un ristretto pubblico di esperti o per clienti a pagamento.

Il loro – e il nostro – unico merito, se ve n’è uno, è quello di leggere con onestà e obiettività i dati ufficiali che vengono pubblicati dalle banche centrali, dalle società internazionali di monitoraggio e da altre entità private o governative. Tutto qui.

In questo articolo prenderemo spunto ancora una volta dai dati ufficiali che sono sotto gli occhi di tutti, ma che pochi leggono in modo approfondito.

Nei dati sull’inflazione pubblicati ieri in America infatti, c’è un dato che ha attirato la nostra attenzione e ci ha spinto a pubblicare questo articolo. Articolo che non è ancora una previsione di qualcosa che accadrà, ma una ipotesi preliminare da verificare col tempo (verifica che faremo nel nostro canale Telegram e nella newsletter gratuita).

Vediamo di cosa si tratta.

I dati americani sui prezzi generali e core di ieri hanno mostrato, come quelli dei trimestri precedenti, un rallentamento dell’inflazione, per quanto meno rapido del previsto.

Tecnicamente, in economia questo rallentamento viene chiamato “disinflazione”.

Tuttavia i dati di ieri hanno mostrato, per alcuni ristretti settori commerciali, qualcosa che può essere confusa con la disinflazione e che viene detta tecnicamente “deflazione”.

Qual è la differenza tra disinflazione e deflazione?

E’ molto semplice:

Disinflazione = rallentamento dell’inflazione. Cioè i prezzi continuano ad aumentare, ma sempre meno.

Deflazione = diminuzione dei prezzi. Tutte le forze che spingono l’inflazione si annullano; quindi i prezzi iniziano a calare.

Ora, nei dati di ieri è apparsa per la prima volta la deflazione in questi settori:

giocattoli (-2,8%), mobili (-3,1%), elettrodomestici (-3,5%), materiale scolastico (-4,8%) e biglietti aerei (-12,1%).

Vorrei essere chiaro: questi dati non indicano ancora che potrebbe esserci una deflazione in tutta l’economia americana. Ma di sicuro c’è l’inizio di una tendenza, soprattutto nelle aree sensibili ai tassi di interesse.

Come ho detto prima, solo un costante monitoraggio dell’economia potrà dirci in futuro se arriveremo a una deflazione generalizzata.

Per ora mi limito ad anticipare alcuni aspetti che possono essere utili a chi investe.

Ad esempio, qual è l’effetto della deflazione sui mercati?

Molto semplicemente, la deflazione, cioè l’abbassamento dei prezzi dei beni di consumo, può comportare una riduzione dei profitti delle aziende, a cui può fare seguito una recessione economica.

Ma le cose non sono sempre cosi’ semplici…

In occidente ad esempio, abbiamo avuto, per quasi 30 anni, una specie particolare di deflazione che non ha causato una recessione visibile, perché era prodotta in modo “artificiale” dalle banche centrali.

Come si sa, in quel lasso di tempo le banche centrali hanno portato i tassi d’interesse sempre piu’ in basso, creando un nuovo tipo di economia basata sul debito.

Questo nuovo contesto economico ha comportato una progressiva perdita d’acquisto della moneta, ma allo stesso tempo anche una deflazione dei prezzi che ha mascherato tale svalutazione.

Per questo motivo le borse si sono costantemente apprezzate e, tranne brevi periodi, come le crisi del 2008 e del 2012, non hanno mai veramente tenuto conto di una possibile recessione come effetto della deflazione.

In occidente abbiamo però anche avuto 9 episodi di deflazione vera e propria, cioè causata da fattori economici e non creata a tavolino dalle banche centrali.

Ad esempio, nei quattro anni compresi tra il 1930 e il 1933 i prezzi in America calarono rispettivamente del 3%, 9%, 10% e 5%.

Nel 1938 e 1939 i prezzi scesero del 2% e del 1,3%.

Nel 1949 e nel 1955 i prezzi calarono dell’1% e dello 0,3%.

Infine, nel 2009 i prezzi scesero dello 0,4%.

La performance dei mercati in tutti questi periodi considerati è stata sempre in due fasi: una prima reazione negativa e poi una forte ripresa.

In alcuni casi, la ripresa è avvenuta in anticipo rispetto alla deflazione stessa, come ad esempio nel periodo compreso tra le recessioni del 1953-1954 e del 1958, detta anche “recessione di Eisenhower”.

In quel caso, la guerra di Corea aveva provocato una forte inflazione, seguita da un aumento dei tassi di interesse. Ma nonostante questo, nel 1954 le azioni aumentarono del 53%, prima che la deflazione si manifestasse l’anno successivo.

Il fatto che la ripresa delle borse inizi prima o dopo la deflazione dipende dalla presenza o meno di interventi monetari della banca centrale.

Ad esempio, nella deflazione del 2009 la ripresa delle borse avvenne soprattutto a causa dell’inizio della lunga stagione dei tassi negativi della Federal Reserve, quindi si presentò dopo la deflazione stessa.

Nella tabella qui sotto possiamo vedere le maggiori o minori performance di diversi asset di investimento nei periodi di deflazione considerati:

Come si vede, c’è una certa variabilità di risultati, che dipende dalla grande differenza delle economie esistente in periodi cosi’ lontani tra loro, ma anche dalla differente gravità della deflazione (in realtà solo negli anni ’30 la deflazione fu lasciata salire a livelli davvero pericolosi).

Nella maggioranza dei casi e degli asset, ad esclusione dei titoli di stato, la deflazione non portò affatto a performance molto negative, ma al contrario, in molti casi fu un toccasana, soprattutto per il mercato azionario.

Ritornando ai giorni nostri, è molto probabile che, prima di arrivare a una deflazione generalizzata, la banca centrale interverrà con adeguate politiche monetarie (taglio dei tassi, ecc.). Queste già di per sé sono state previste da alcuni esponenti della Fed, come sa bene Wall Street. Quindi, è probabile che non arriveremo mai a una deflazione vera e propria.

Tuttavia, come già detto, non bisogna abbassare la guardia e quindi la situazione deve essere monitorata…E noi saremo sempre all’erta su questo…

Perché bisogna fuggire dagli Etf legati all’oro

In questo blog abbiamo parlato spesso delle manipolazioni del mercato dell’oro perpetrato dalle banche.

Gran parte delle inchieste del Dipartimento di Giustizia americano su questo reato sono iniziate nella prima metà degli anni 2000 e, dopo diversi anni, si sono concluse sempre con delle condanne.

Nel 2019 ad esempio, il capo del commercio di metalli preziosi della JPMorgan Chase fu dichiarato colpevole di tentata manipolazione dei prezzi, frode sulle materie prime, frode telematica e falsificazione dei prezzi dei futures su oro, argento, platino e palladio.

E nel 2020 la stessa JPMorgan Chase si dichiarò colpevole di questi reati, anche se il suo presidente, Jamie Dimon, a differenza del suo dipendente, evitò il processo e la galera dopo aver pagato una multa stratosferica in un procedimento stragiudiziale.

Mi sono soffermato su queste condanne, perché, come si legge qui, nel 2022 proprio alla JPMorgan Chase è stata affidata la custodia del collaterale in lingotti del più grande ETF sull’oro esistente sul mercato, cioè lo SPDR Trust (GLD).

Nel sentire questa notizia, vi chiederete: perché mai un compito cosi’ delicato che richiede la massima onestà e trasparenza è stato affidato praticamente a un cartello mafioso bancario?

Per capire cosa c’è dietro, bisogna un attimo spiegare il mandato che è stato assegnato a questa banca.

Ho detto che i lingotti a collaterale dell’ETF sono stati affidati in custodia alla banca.

Ma per essere preciso, avrei dovuto dire che la JP Morgan è stata nominata Depository Trust and Clearing Corporation di questo ETF.

Cos’è una Depository Trust and Clearing Corporation?

E’ una istituzione creata di recente per allontanare dalle banche i rischi del collaterale dei titoli che hanno in bilancio.

Questa esigenza è nata, ovviamente, da quando in America i tassi d’interesse troppo alti hanno iniziato a ridurre vertiginosamente il valore dei titoli di stato detenuti dalle banche.

Molti di questi titoli sono infatti il collaterale di una marea di contratti “swap” che le banche si scambiano giornalmente per regolare le loro transazioni e che compongono una fetta rilevante della loro liquidità.

Se il collaterale dietro questi swap fosse limitato solo a quello che una banca X ha al momento in cui crea o scambia uno di questi swap, e se questo collaterale inizia a crollare come una valanga, non passa molto tempo prima che la banca Y che deve ricevere lo swap inizi a dubitare della solvibilità dello swap e della stessa banca X che lo sta emettendo.

L’unico modo per evitare un effetto a catena di default provocato dai reciproci sospetti di solvibilità fra banche, che di fatto bloccherebbe i loro scambi giornalieri e quindi tutto il funzionamento delle banche stesse, si è pensato bene di ampliare il concetto di collaterale.

Oggi quindi, secondo le nuove norme, uno swap può essere garantito non solo dal collaterale che possiede la banca, cioè dai titoli di stato che ha in bilancio, ma anche da qualsiasi altro collaterale fuori dalla banca che si trovi sul mercato.

Quindi, per fare un esempio da scuola elementare, la banca X può emettere swap per un controvalore di 1000 dollari, anche se possiede titoli di stato per soli 500 dollari.

Perché?

Perché il collaterale dello swap non è piu’ gestito dalla banca X, ma da una Depository Trust and Clearing Corporation (chiamiamola per brevità DTCC).

E questa DTCC puo’ fornire alla banca X tutto il colaterale che vuole, perché non ha a sua disposizione solo i titoli di stato della banca X, ma anche quelli delle altre banche per cui svolge lo stesso servizio di “custodia”.

Ma non finisce qui, perché di queste banche, il DTCC non ha solo a disposizione i titoli di stato presenti nel bilancio delle banche stesse, ma anche (e qui sicuramente salterete sulla sedia)…i titoli di stato depositati dai clienti di quelle banche…!!!

Proprio cosi’: in base alle nuove norme, tutti i titoli di stato, e non solo, che i clienti ingenuamente ancora depositano in una banca in realtà entrano a far parte di un “bacino” di titoli messi a disposizione dei DTCC e che formano il collaterale di qualsiasi contratto o derivato emesso da una banca che appartiene a tale sistema.

Ribadisco il concetto, tanto per essere chiari: oggi, non solo i titoli di stato, ma molte altre tipologie di titoli, azioni e altro che compongono il collaterale di qualche derivato, non sono piu’ pienamente proprietà dei clienti ignari che li depositano in banca, ma possono essere sottratti a piacimento da un DTCC per coprire delle emissioni di derivati.

E se pensate che questa sia la tipica “americanata”, sappiate che questi istituti sono stati legalizzati anche in Europa, col nome di Clearstream ed Euroclear

Ora, tornando all’argomento di questo articolo, chiediamoci ancora: perché la JP Morgan è diventata la DTCC dell’ETF GLD?

Evidentemente, perché il collaterale in lingotti d’oro di GLD non è sufficiente e ha bisogno di un “aiutino”. E chi meglio della JP Morgan, esperta in imbrogli nei metalli preziosi, è in grado di metterci una pezza?

Ma, in questo caso, quale sarebbe il “bacino” di lingotti al quale la JP Morgan dovrebbe attingere per ampliare il magro bilancio in oro fisico dell’ETF?

Anzitutto, possiamo aggiungerci il collaterale di altri ETF di cui la JP Morgan potrebbe essere “custode”. Ma questo non basta, perché sappiamo bene che in realtà tutti gli ETF hanno lo stesso problema e quindi di collaterale ne hanno ben poco. Dunque, che altro?…

Secondo alcuni, per risolvere il mistero, forse dobbiamo chiederci perché la JP Morgan sta pensando di trasferire i lingotti di GLD nei suoi depositi a New York.

Ricordiamo che l’ETF GLD aveva già un “custode” del suo oro fisico, cioè la banca HSBC, a cui da poco è stata affiancata la JP Morgan.

Quindi non è che a GLD mancasse il caveau di una banca affidabile, fra le maggiori al mondo, dove depositare i lingotti…

Dev’esserci un altro motivo per cui la JP Morgan ha deciso questa strana mossa.

A Wall Street è un segreto di Pulcinella il fatto che il caveau di JP Morgan sia collegato sottoterra a quello della FED, essendo quest’ultima sul lato nord di Liberty Street e laJP Morgan dall’altra parte della strada.

E indovina cosa c’è nel caveau della FED di New York? C’è l’oro depositato dalle banche centrali straniere… E quando ricordiamo le difficoltà incontrate dalla Germania nel convincere la FED di New York a restituire 300 misere tonnellate in lingotti, iniziamo ad avere qualche sospetto…

Frank Veneroso concluse già nel 2002 che tra le 10.000 e le 14.000 tonnellate di oro delle banche centrali venivano abitualmente affittate o prestate dalla Fed.

Questo commercio molto lucrativo viene portato avanti alla luce del sole dalla Banca d’Inghilterra, che organizza questi contratti per le sue banche centrali clienti.

Possiamo perciò supporre che la FED di New York organizzi in modo simile tali attività generatrici di reddito, usando l’oro accantonato in sua custodia.

Non è escluso quindi che l’affiancamento di JP Morgan a HSBC faccia parte di un programma stabilito con la Fed per stabilire un collegamento diretto e, manco a dirlo, “sotterraneo”, tra le riserve in oro americane, in modo che tutto lo scarso oro disponibile tra banca centrale, banche commerciali e fondi di investimento, venga riciclato all’infinito per far apparire le riserve piu’ ampie di quanto siano in realtà.

Una nota sinistra a questa ipotesi, già di per sé poco rassicurante, è un’altra voce che gira a Wall Street, secondo cui la FED di New York possa aver venduto, anziché prestato, parte dell’oro in sua custodia; il che spiegherebbe perché si è rifiutata di consentire ai rappresentanti della Bundesbank d’ispezionare l’oro depositato e inizialmente si è dimostrata estremamente riluttante a restituire solo 300 delle 1.536 tonnellate di oro tedesco presumibilmente conservate a New York.

Non dimentichiamo che è stata l’esperienza della Bundesbank a spingere la banca centrale olandese a rimpatriare a sua volta 122 tonnellate del suo oro da New York…

Ma queste sono tutte voci che non possono essere confermate, soprattutto perché dagli anni ’70 nessun ente, nessuna autorità, nessun ufficio legale ha mai avuto il permesso di visionare le riserve in oro che sarebbero detenute dalla banca centrale.

Al di là di questi argomenti di carattere generale, la conclusione pratica piu’ immediata che possiamo trarre da questo nuovo modo di trattare l’oro fisico a collaterale degli ETF è sicuramente quella di non usare piu’ gli ETF per investire sull’oro.

Al massimo possiamo usare titoli minerari o di royalties, ma è meglio stare alla larga dagli ETF.

Chi ha acquistato quote di ETF legati all’oro deve sapere che tali quote non danno la proprietà del collaterale che vi sta dietro, perché questo può essere “saccheggiato” a piacimento dalla JPMorgan Chase.

Le singole quote di questi ETF sono diventate dei contenitori vuoti. E se la cosa trapelasse, sarebbe la fine per questi ETF.

Cosa dice la scienza sui reali effetti del prossimo halving di btc

Siamo ormai a poco piu’ di 5 mesi dal prossimo halving di bitcoin e, come sempre, nei media si inizia a discutere se i suoi noti effetti sul ciclo dei prezzi sarà ancora preponderante, oppure questa volta “sarà diverso”…

Nella maggioranza dei casi, questo tipo di discussioni sembrano riferirsi a un fenomeno quasi magico e capriccioso.

Per molti, gli effetti dell’halving sono come quelli del clima stagionale: l’anno scorso ad aprile è piovuto, ma chissà se anche quest’anno pioverà. Dio o il caso ci metteranno lo zampino, quindi non possiamo dire nulla a riguardo.

Eppure ormai abbiamo tutti gli strumenti a disposizione per analizzare l’halving e il ciclo di bitcoin da un punto di vista scientifico, misurando cioè tutti i principali fattori di economia fondamentale che operano al loro interno.

Non c’è niente di magico o di “divino” in questi fenomeni.

Al contrario, tutti i fattori che determinano l’andamento ciclico di bitcoin e l’halving sono misurabili, anche se non tutte queste misurazioni possono portare a fare ipotesi sul loro andamento futuro.

Banalmente, i cicli di bitcoin sono determinati da dinamiche di domanda e offerta che si ripetono con una certa regolarità.

Sia la domanda che l’offerta sono misurabili. Quindi, grazie a queste misurazioni, ormai diventate molto complesse e approfondite, è possibile analizzare l’andamento di questi cicli meglio di come si faceva appena quattro anni fa.

Domanda e offerta nel mercato cripto

La domanda è un fattore molto piu’ imprevedibile dell’offerta. Quindi per tentare delle proiezioni statistiche sui cicli futuri di btc, si utilizzano piu’ che altro i dati che riguardano l’offerta.

E dato che l’halving influisce proprio sull’offerta, se ne deduce che l’halving stesso è fra gli elementi che contribuiscono a rendere ricorrenti e costanti i cicli di btc.

Possiamo quindi dire schematicamente che il fattore offerta (che include l’halving) tende a rendere ripetibili i cicli di btc, mentre il fattore domanda vi porta una maggiore imprevedibilità.

Oggi possiamo dire che la domanda di bitcoin è in aumento, come mostrano le bande blu crescenti sulla destra del grafico qui sotto:

Ma naturalmente il comportamento umano è imprevedibile, perciò non abbiamo la certezza che questa domanda resti sostenuta per tutto il resto del ciclo.

Tutt’al piu’ posso dire che, secondo me, anche i flussi di capitale, che formano la domanda nel mercato cripto, sono prevedibili, perché seguono forse degli schemi ben precisi con cui si cerca di manipolare i prezzi in modo da accompagnare e pilotare la tendenza già di per sé ciclica dell’offerta.

Ma si tratta di mie opinioni personali che non possono essere dimostrate scientificamente.

In questo articolo perciò ci limiteremo ad analizzare l’offerta di btc, usando i grafici di Glassnode, la società di analisi che citiamo spesso nei nostri articoli e nel nostro canale Telegram, dai quali trarremo in modo semplificato delle ipotesi su cosa possiamo aspettarci da questo ciclo in base ai dati disponibili.

L’offerta di bitcoin spiegata semplice

Finché bitcoin resterà il “benchmark”, cioè il dominatore, in termini di volumi, il fattore “offerta” di tutto il mercato cripto sarà sempre legato alla caratteristica particolare che ha in bitcoin, dovuta proprio agli halving che ne dimezzano la quantità minata ogni quattro anni circa.

Ma l’offerta, cioè la disponibilità dei bitcoin e quindi di tutte le altre cripto, non è data solo dai bitcoin minati ogni giorno.

Quindi non basta dire che ogni quattro anni i prezzi di btc salgono a causa dell’halving che dimezza l’offerta disponibile.

Se cosi’ fosse, i prezzi dovrebbero restare sostenuti per molto tempo, invece di formare, l’anno dopo l’halving, il ben noto trend parabolico finale dopo il quale crolla giu’ tutto…

L’halving semmai fa in modo che i minimi di un ciclo non scendano mai sotto i minimi del ciclo precedente.

Ma l’andamento del ciclo pre e post halving a cui siamo abituati, quel tipico rialzo in due fasi che sta in mezzo a ciascun halving, si spiega solo analizzando l’altro fattore che determina l’offerta di btc, che è la quantità di bitcoin messi a deposito dagli investitori nelle fasi precedenti.

L’energia potenziale dei rialzi ciclici di bitcoin

Bisogna immaginare l’alternarsi di cicli ribassisti e rialzisti di btc come un’energia potenziale che viene immagazzinata in un ciclo per poi esplodere nel ciclo successivo:

Il grafico sopra schematizza le fasi di accumulazione (bande arancio) nelle quali gli investitori aumentano i loro depositi di coin approfittando dei prezzi in discesa nelle fasi ribassiste del ciclo.

Successivamente (aree verdi), questi coin vengono venduti man mano che i prezzi nuovamente in salita rendono conveniente tale vendite.

Le vendite quindi “distribuiscono” i coin (cioè ne aumentano l’offerta disponibile sul mercato), fornendo la “benzina” che alimenta appunto le fasi rialziste, dette di distribuzione, in cui si moltiplicano le operazioni di compravendita che provocano un circolo virtuoso di incremento dei prezzi.

Come dicevo, l’accumulazione forma l’energia potenziale che alimenterà il ciclo rialzista successivo. Quindi piu’ coin saranno accumulati (messi a deposito dagli investitori), piu’ forte sarà il rialzo successivo.

A questo proposito, un aspetto interessante dei vari cicli è che, ad ogni ciclo, aumenta la parte di investitori che accumula coin nei ribassi, aspettando il ciclo a rialzo successivo.

Infatti si dice che il mercato ad ogni ciclo diviene “piu’ maturo”, intendendo che aumenta il numero degli investitori che non si fanno piu’ impressionare dalla volatilità e con disciplina comprano quando i prezzi sono bassi e vendono quando i prezzi risalgono.

Anche questo ciclo non fa eccezione su questo aspetto.

Come mostra il grafico sotto, oggi non sono piu’ solo gli investitori a lungo termine (curva blu) ad aver incrementato il valore dei loro depositi, ma anche diverse categorie di traders (accomunati nella curva rossa) stanno adottando lo stesso comportamento conservativo.

Inoltre, pure le varie forme di “staking” (curva azzurra) e di servizi di custodia perlopiu’ bancaria (curva verde) si aggiungono a determinare un aumento dei coin accumulati.

A questo giro quindi l'”energia potenziale” è molto superiore rispetto al ciclo precedente. E questo fatto tenderà ad amplificare poi tutto il processo con cui, nella fase rialzista, avverrà la rivalutazione del prezzo dei coin rispetto al loro costo iniziale.

Nei prossimi grafici, vedremo che proprio il rapporto tra il costo iniziale, al quale questi coin erano stati comprati prima di essere messi a deposito, e il loro prezzo attuale è la variabile piu’ importante per determinare il contributo “rialzista” di questi coin quando vengono poi distribuiti nelle fasi successive.

In altre parole, la velocità e la forza della rivalutazione dei prezzi è strettamente dipendente dal numero di investitori che riescono ad andare in profitto nelle varie fasi di un ciclo.

Per brevità tralascio di pubblicare tutti i grafici con cui viene analizzata questa dinamica, ma chi vuole approfondire può leggere direttamente l’articolo di Glassnode.

Qui cito solo due ultimi grafici che mostrano cosa c’entra l’halving in tutto questo.

Come l’halving amplifica l’energia potenziale causando la fase finale parabolica del ciclo

Questo grafico mostra l’importanza del rapporto tra:

  1. il numero di investitori in profitto in un dato momento e

2. il valore totale che il mercato ha in quel momento.

Il fattore 1 è rappresentato dalla variabile “Realized Cap”, cioè dalla quantità di coin accumulati che sono in guadagno in base al prezzo che btc ha in quel momento.

Il fattore 2 invece è rappresentato ovviamente dal “Market Cap”, cioè dalla capitalizzazione di mercato che btc ha in quel momento.

Devo specificare che il Realized Cap è fatto da coin in deposito ancora non spesi, quindi esprime un’energia potenziale inespressa.

Come si può immaginare, durante i mercati ribassisti avanzati, basta che vengano effettivamente venduti da 0,10 a 0,30 dollari di questo Realized Cap potenziale per provocare una variazione del Market Cap di 1,0 dollaro.

Invece nelle fasi avanzate dei mercati rialzisti (bande arancioni) sono necessari più di 0,75 dollari, e spesso più di 1,0 dollari, di Realized Cap per ottenere la stessa variazione della capitalizzazione di mercato di 1,0 dollari.

Naturalmente, quest’ultima situazione non è sostenibile a lungo, perché è come un processo termodinamico in perdita, nel quale il costo necessario a produrre energia eccede il costo dell’energia finale prodotta.
Ecco perché a quel punto la rivalutazione dei prezzi inizia a perdere forza, fino a invertirsi in una discesa.

Ma torniamo invece al primo caso, quando bastano 0,1-0,3 dollari per aumentare di 1 dollaro il market cap.

Oggi ci troviamo proprio in tale range (cerchio azzurro tratteggiato in basso), indicato dalla linea mediana a lungo termine (in rosso) di 0,25 dollari.

Siamo quindi nella situazione ottimale per una ripartenza sostenuta della dinamica dei prezzi.

Per vedere il ruolo che ha l’halving in tutto questo, ci aiutiamo col grafico successivo, che mostra come in realtà questo rapporto tra realized cap e market cap è grandemente influenzato dalla quantità di coin che vengono minati.

Qui la banda arancio sullo sfondo rappresenta i coin minati disponibili, mentre in primo piano le bande blu mostrano la quantità di coin accumulati disponibili.

I cerchi azzurri evidenziano che nelle fasi prima e dopo l’halving, i coin accumulati diventano preponderanti rispetto ai coin minati (i picchi delle bande blu superano le bande arancio che sono dietro).

In pratica, in quelle fasi l’offerta (ancora potenziale e non ancora espressa) che deriva dai coin accumulati supera enormemente l’offerta esistente assicurata dai coin minati.

E naturalmente l’halving, dimezzando la parte di offerta derivante dal mining (riducendo la banda arancio), aumenta ulteriormente la forza con cui l’energia immagazzinata in questi coin accumulati si abbatterà sulle bande arancio, una volta che verranno realmente spesi.

Nel ciclo attuale (cerchio rosa a destra) l’accumulo eccede ormai di molto il mining.

Anzi , a dire il vero, non siamo ancora in una fase molto avanzata verso l’halving e già l’eccedenza è paragonabile a quella delle fasi avanzate dei cicli precedenti.

Conclusioni

Tutto questo è il segno che la fase finale parabolica del rialzo post halving sarà eccezionale, anche piu’ delle volte precedenti?

Staremo a vedere; anche perché, come ho detto all’inizio, ci sono sempre i fattori psicologici imprevedibili a influenzare l’andamento di questi cicli. Perciò non possiamo stabilire una corrispondenza assoluta tra questi dati e l’esito reale delle fasi del ciclo.

Tuttavia, questi dati sono già sufficienti a poter affermare una cosa: che questa volta, almeno sulla base dei dati oggettivi “NON è diverso”.

Le condizioni di domanda e offerta sono del tutto simili, se non migliori, rispetto a quelle degli halving precedenti.

Certo, non possiamo affermare con certezza assoluta che questo ciclo si ripeterà come quelli precedenti, ma possiamo dire che ci sono le condizioni necessarie perché ciò avvenga, salvo eventuali fattori imprevedibili che possono sempre accadere.

Divorzio tra la Cina e Londra sul prezzo dell’oro

A Chinese worker shows a 1000g-weight gold bar at a gold shop in Beijing on November 8, 2010. China's central bank chief has warned that the risks of excessive liquidity, inflation, asset bubbles and bad loans will "increase significantly", in comments published. AFP PHOTO CHINA OUT (Photo credit should read STR/AFP via Getty Images)

In un articolo appena pubblicato da Bullionstar, uno dei nostri siti di riferimento per l’oro, apprendiamo un fatto clamoroso: le quattro banche cinesi implicate nelle aste londinesi dove si fissa giornalmente il prezzo dell’oro, sono scomparse dalla lista dei partecipanti.

Facciamo un breve riepilogo storico.

Il LBMA Gold Price auction è la piazza di Londra dove avvengono le compravendite di oro che fissano giornalmente il prezzo ufficiale di questo metallo.

La piazza è stata inaugurata nel 2015, in sostituzione della piazza precedente, il London Gold Fixing auction, sempre piu’ accerchiata dalle inchieste giudiziarie sulla manipolazione del prezzo del metallo giallo.

Per rifarsi una “verginità”, la nuova piazza non solo è stata messa sotto la supervisione della FCA, cioè dell’autorità regolatoria finanziaria del Regno Unito, ma ha anche accettato di includere un numero maggiore di banche partecipanti, in modo da rendere piu’ “trasparente” la fissazione giornaliera dei prezzi.

Nell’ambito di questo nuovo corso, anche le banche cinesi furono invitate a far parte del “cartello”.

Ed è cosi’ che, tra il 2015 e il 2016, quattro banche cinesi: Bank of China, China Construction Bank (CCB), Industrial and Commercial Bank of China (ICBC) e Bank of Communications sono entrate a far parte del LBMA Gold Price auction.

La notizia di oggi è che, appunto, queste quattro banche cinesi sono silenziosamente sparite dalla lista dei partecipanti alla piazza londinese, senza suscitare alcun commento da parte della LBMA, della FCA, dei media mainstream, dell’amministratore dell’asta ICE Benchmark Administration e dalle stesse banche cinesi.

Non sappiamo quindi se il ritiro della Cina dalle aste di Londra sia stato volontario, magari motivato da ragioni geopolitiche, oppure sia stato richiesto da Londra, per motivi, anche qui, geopolitici, o per ragioni regolatorie.

Ma possiamo già notare alcune conseguenze di questa uscita…

All’epoca, l’entrata di queste banche fu celebrato dalla stampa mainstream occidentale, secondo cui le banche cinesi avrebbero contribuito a fornire una price discovery piu’ aderente agli scambi reali dell’oro e quindi a riflettere le dinamiche reali della domanda e dell’offerta.

Possiamo perciò dedurre che, ora che le quattro banche non ci sono piu’, la price discovery di Londra sarà meno aderente al mercato reale dell’oro.

A ciò si aggiunge anche un problema di liquidità per Londra. Problema che possiamo desumere da un evento analogo accaduto nel 2017, quando UBS, Standard Chartered e Société Gènerale lasciarono la piazza londinese per motivi di rivalità tra le società di emissione dei derivati usati per gli interscambi.

All’epoca, come disse la Reuters , la minore liquidità dovuta alla mancata partecipazione di queste banche iniziò a portare un aumento della volatilità che creava episodi di improvvise divergenze tra il prezzo fissato a Londra e il prezzo dell’oro fisico…

Questo problema si ripresenta ancora oggi (ne abbiamo parlato qualche volta nella nostra newsletter), ma questa volta l’ulteriore riduzione del numero delle banche partecipanti e il trasferimento in Cina degli scambi per la price discovery produce una prevedibile competizione tra la piazza londinese e quella cinese, con sensibili differenze tra il prezzo di Londra e quello fissato in Cina dallo Shanghai Gold Exchange.

Infatti, come vediamo in questo grafico, il prezzo cinese (curva rossa) è costantemente superiore a quello londinese (curva blu):

Questa incredibile evoluzione della price discovery dell’oro è da aggiungere agli altri tasselli che abbiamo segnalato in altri due importanti articoli recenti sull’oro (qui e qui).

Sentiamo che ci sono dei cambiamenti fondamentali in corso sull’oro; anche se al momento non è ancora possibile avere una visione completa di ciò che sta succedendo.

Questi cambiamenti sono il sintomo di qualcosa di piu’ ampio che bolle in pentola nell’economia globale, o si tratta solo di aggiustamenti temporanei che non avranno conseguenze su larga scala?

Ancora non lo sappiamo. Ma di certo dobbiamo monitorare molto da vicino questa situazione.

Ti terremo aggiornato…

Perché i tassi americani continuano a salire?

Oggi trattiamo un argomento cardine dell’economia attuale: l’aumento dei tassi d’interesse dei titoli di stato americani a lungo termine.

Questi tassi, che influenzano in vari modi diversi aspetti cruciali dell’economia, non sono influenzati dalla politica monetaria della banca centrale americana, ma solo dal mercato.

Nel nostro articolo precedente avevamo analizzato l’influenza di breve termine del mercato dei derivati su questi tassi.

Oggi descriviamo un altro fenomeno che si affianca al precedente, cioè lo squilibrio piu’ allarmante tra una offerta in continuo aumento e una domanda in continua riduzione.

L’aumento dell’offerta dei titoli di stato è determinata dall’incremento delle voci di spesa del governo, che, già quasi fuori controllo, probabilmente avrà una accelerazione per finanziare le guerre in Ucraina e Israele.

La riduzione della domanda invece è determinata essenzialmente dalla riduzione dei compratori esteri, come la Cina, il Giappone e altri.

Questi paesi, invece di comprare, stanno vendendo quantità crescenti di titoli di stato americani.

E non lo fanno per provocare una “dedollarizzazione” dell’economia, ma perché non riescono a fare fronte ai prezzi crescenti dei beni e le materie prime che sono quotati in dollari.

Questi paesi quindi liquidano obbligazioni e altri titoli americani, ottenendo in cambio i dollari di cui hanno disperato bisogno per sopravvivere. Tutto qui.

L’inflazione dei beni quotati in dollari sta quindi facendo crollare la quota di detentori stranieri del debito americano.

Come mostra il grafico sotto, dieci anni fa i paesi esteri detenevano il 45% del debito pubblico statunitense, mentre ora, nonostante l’aumento delle loro partecipazioni in questo ultimo periodo, la loro quota è scesa al 29%:

I paesi che ancora comprano titoli di stato americani, come la Svizzera, diversi paesi europei e alcuni paradisi fiscali, come le Cayman, dietro sollecitazione del loro potente “alleato”, stanno incrementando gli acquisti, ma non abbastanza velocemente da tenere il passo con la folle crescita del debito americano.

Per tale ragione, altri acquirenti devono essere attratti in questo mercato.

Ma dal momento che la Fed, come sappiamo, è impegnata in un QT e quindi non sta acquistando nuovi titoli di stato americani per sostituire quelli che ha in scadenza, restano gli acquirenti del libero mercato: banche, fondi obbligazionari, compagnie assicurative, fondi pensione, altri investitori istituzionali e privati.

Questi acquirenti, appunto, fanno parte del libero mercato. Non hanno alcun obbligo politico o istituzionale a comprare il debito americano. Perciò devono essere attratti da rendimenti più elevati…

Quindi, riassumendo ancora, la situazione è questa: la spesa in deficit da parte del governo americano, ormai quasi fuori controllo, deve essere finanziata, inondando il mercato con enormi quantità di titoli del Tesoro che hanno bisogno di trovare acquirenti.

Il rendimento di questi titoli è l’unico modo per convincere un numero sufficiente di investitori a comprare.

Perciò, i tassi dei titoli di stato americani a lunga scadenza aumentano, finché non soddisfano la loro scarsa domanda.

Con l’ultima emissione, gli acquirenti di queste obbligazioni hanno trovato il 5% un rendimento abbastanza interessante. Perciò oggi i tassi si sono fermati a tale livello.

Ciò non toglie che altri potenziali acquirenti sperano che i rendimenti aumentino ulteriormente e compreranno solo quando la soglia del 5% verrà superata.

In altre parole, il mercato dei titoli di stato americani ha imboccato un circolo vizioso.

Piu’ il governo aumenterà le emissioni dei titoli per finanziare guerre e altre spese ormai fuori controllo, piu’ l’offerta di questi titoli dovrà soddisfare una domanda sempre piu’ bassa, piu’ i tassi aumenteranno, piu’ aumenterà la spesa del governo per pagare gli interessi su questi tassi.

Useremo questo articolo come base per discutere alcune importanti conseguenze di questa spirale fuori controllo.

Qui però vorrei concludere con una riflessione che pochi hanno fatto in relazione a questo problema.

Molti dimenticano infatti che nell’economia contemporanea c’è un’altra importante categoria di compratori del debito americano: le società che gestiscono le stablecoin peggate al dollaro…

Anche tutti coloro che comprano queste stablecoin, o almeno quelle che sono chiaramente collateralizzate con titoli di stato americani, come USDC, PYUSD, ecc, sono in pratica compratori di debito americano

Pensi ancora che in America abbiano voglia di eliminare l’uso di queste valute e quello delle criptovalute in genere, entrambi strettamente connessi? O che l’Unione Europea vieterà l’uso di queste stablecoin in base alle sue nuove normative, dichiarando in pratica un embargo sul dollaro?

Io avrei seri dubbi in proposito…

Attenzione a questa divergenza nel mercato obbligazionario…

Non c’è dubbio che l’economia stia arrivando alla resa dei conti fra le illusioni dei media e delle banche centrali e la realtà.

Quando ciò accade, si presentano delle divergenze fra alcuni asset e l’economia, che possono creare occasioni irripetibili per un investitore.

Oggi la divergenza piu’ importante di tutte è quella che si sta creando nel mercato obbligazionario dei titoli di stato USA.

Il grafico sotto mostra i valori piu’ recenti dell’indice COT, cioè delle posizioni long e short aperte in quella parte del mercato dei derivati che scommette sui titoli di stato.

Il grafico mostra il numero record di posizioni short contro i titoli del Tesoro (le bande giallo arancio sulla estrema destra):

Questo insolito accumulo di posizioni short, assieme alle ultime dichiarazioni di Powell, sta spingendo sempre piu’ in basso i prezzi dei titoli di stato, facendone salire in modo innaturale i tassi (inversi ai prezzi, come si sa).

Il grafico mostra che una situazione simile si era verificata nel 2018, cioè l’ultima volta che la Fed aveva alzato i tassi d’interesse (nel grafico, la banda giallo arancio corrispondente all’anno 2018).
Archiviamo per ora questa analogia col 2018, perché ci torneremo a breve…

Ora, sebbene gli speculatori che shortano possano provocare tassi più elevati per un certo tempo, alla fine sono i flussi di capitali istituzionali a determinare nel medio e lungo termine l’andamento dei prezzi e dei tassi in questo mercato.

E dove stanno andando questi flussi?

Ce lo dice il grafico seguente, che mostra un aumento evidente dei volumi di acquisto nei titoli di stato a 20 anni (cerchio nero in alto), mentre i prezzi (curva blu) restano ancora eccezionalmente bassi.

(Per inciso, questo volume dei flussi di capitali è il più alto dalla fine del 2020):

E’ questa la divergenza di cui parlavo.

Un aumento dei volumi (quindi un aumento dei flussi di capitali nei titoli di stato USA) dovrebbe far risalire la curva blu, che invece resta ancora a terra a causa dei media, della Fed e degli speculatori short.

Quell’aumento dei volumi contrasta con la narrativa dei media sulla “morte del dollaro” e sui “debiti e deficit insostenibili del governo USA” che continua ad alimentare i timori di una spirale dei tassi di interesse.

I flussi di capitali parlano chiaro e suggeriscono una storia diversa.

L’economia statunitense si sta dimostrando più robusta rispetto alle sue controparti – e il rendimento dei titoli del Tesoro a 10 anni è sostanzialmente ancora elevato e quindi appetibile.

Perciò, le riserve estere in eccesso stanno di nuovo confluendo nel dollaro statunitense.

E quando le riserve confluiscono nel dollaro USA, quei dollari vengono convertiti in buoni del Tesoro USA.

Come abbiamo detto in quest’altro articolo, gli acquirenti esteri non hanno ancora raggiunto dei volumi tali da poter invertire la crescita dei tassi.

Forse i paesi esteri non torneranno piu’ a detenere il 45% del debito americano.

Ma, come spiegato in quell’articolo, ciò non vuol dire che la scarsità della domanda di questi titoli verrà abbandonata a se stessa al punto da innescare una spirale senza controllo di aumento dei tassi.

Nell’articolo citato abbiamo spiegato esattamente perché questa spirale non verrà innescata, grazie all’intervento della Federal Reserve, peraltro già preventivato dal Congressional Budget Office.

Il mercato obbligazionario è il piu’ grande fra tutti, ed è guidato da capitali istituzionali di grande peso, cioè quello delle banche centrali.

Perciò, tornando al nostro argomento, quando il contrasto fra questi capitali e il mercato dei derivati arriverà allo scontro finale, indovina quale dei due è destinato a rompersi?

Ce lo ricorda il 2018…ti avevo detto di tenerlo a mente…

Nel 2018 i prezzi dei titoli di stato, anche allora fortemente shortati dagli speculatori, non poterono resistere alle pressioni della realtà (cioè dei flussi di capitali istituzionali) e iniziarono a risalire, costringendo gli speculatori a coprire le posizioni short man mano che andavano perdendo valore.

In altre parole, si creò uno short squeeze che costrinse la Federal Reserve a un massiccio programma di “reverse repo” per salvare i bilanci degli hedge fund in caduta libera.

E’ probabile che anche questa volta la distorsione nel mercato obbligazionario si risolverà con un intervento di emergenza della Fed e la sua macchina per stampare soldi.

Non dimentichiamo che nel 2022 alcuni colleghi di Powell, cioè il governatore della Banca d’Inghilterra, Andrew Bailey e il governatore della Banca del Giappone, Haruhiko Kuroda, hanno già eseguito iniezioni di liquidità in situazioni di emergenza.

E cosa accadrebbe se Powell non inondasse il mercato di liquidità, sia per andare in aiuto agli hedge fund, sia per evitare la spirale dei tassi ipotizzata nel nostro altro articolo?

Gli investitori fuggirebbero dal mercato dei titoli di stato, che per parte sua si avvierebbe alla piena autodistruzione, e si dirigerebbero verso asset come oro e cripto.

Quindi in entrambi i casi, sia che vi sia nuova liquidità della Fed, sia che il mercato obbligazionario vada a rotoli, gli investitori si dirigeranno verso gli asset alternativi, cioè oro e criptovalute.

Approfittiamo quindi delle momentanee discese di prezzo di questi due asset (oro e cripto) per accumulare posizioni che si rivaluteranno fortemente quando la realtà tornerà a dominare i mercati.

Londra ha perso il controllo dell’oro

Negli ultimi tre secoli il prezzo mondiale dell’oro è stato sempre determinato dalle banche occidentali attraverso il mercato di Londra.

Questo dominio incontrastato dell’occidente è diventato sempre piu’ forte, quasi ossessivo, dopo la crisi dei debiti pubblici del 2011-2012.

Infatti, l’oro è il competitor per eccellenza dei titoli di stato, su cui si basa il debito pubblico.

Per questo, come vediamo nel grafico sotto, a partire dal 2012 le banche centrali occidentali, temendo una crisi di credibilità dei titoli di stato emessi dai governi e un ritorno dei risparmiatori all’oro, commissionarono alle banche di Londra una massiccia stagione di vendite (le bande dorate inverse nel rettangolo rosso) allo scopo di deprimere il prezzo del metallo giallo fino al valore di circa 1300 dollari l’oncia.

Questo range di prezzo è stato mantenuto con polso di ferro per circa 8 anni, anche grazie alle manipolazioni nei mercati dei derivati.

Il giocattolo però ha iniziato a rompersi dopo il covid, quando le banche londinesi hanno dovuto riprendere gli acquisti di oro per soddisfare una domanda da parte del mondo finanziario occidentale, che cercava di coprirsi dai rischi che iniziavano a minacciare l’economia di questa parte di mondo.

L’oro a quel punto è risalito al livello di circa 1900 dollari: un livello di guardia oltre il quale, secondo le banche centrali occidentali, la competizione tra titoli di stato e oro inizia ad essere troppo a favore del metallo giallo.

Per giunta, tra il 2022 e il 2023 le stesse banche centrali hanno iniziato una politica di aumento dei tassi d’interesse che ha provocato una inaspettata perdita della consueta relazione inversa dei tassi con l’oro.

Questa relazione inversa (ne abbiamo parlato qui) è essenziale per mantenere l’impressione che i titoli di stato e l’oro siano asset equivalenti, per quanto opposti fra loro.

Ma da quando questa relazione inversa è saltata, appare sempre piu’ evidente che l’oro non è una semplice copertura dei tassi d’interesse. Appare evidente che, fra i due asset, semplicemente ce n’è uno (indovina quale) che non ha alcun valore di prezzo affidabile su cui poter basare una qualsivoglia relazione inversa.

Per tutti questi motivi, dal 2022 a oggi Londra ha tentato di riprendere il controllo, riportando in basso il prezzo dell’oro con le massicce vendite nette, visibili nel grafico precedente, che però, a sorpresa, non sono riuscite nel loro intento.

Infatti, come mostra la curva nera nel grafico, il metallo giallo, per la prima volta dopo quasi tre secoli, ha mantenuto il livello intorno a 1900 dollari (cerchiato nel grafico) “disobbedendo” agli ordini di Londra.

Com’è potuta accadere una cosa del genere?

Chi vuole approfondire le probabili cause della resilienza dell’oro, può leggere questo articolo di Gainesville Coins, nel quale vengono fatte diverse ipotesi: dagli gli acquisti di oro delle banche centrali non occidentali alla crescente domanda privata turca e cinese.

Particolarmente interessante per noi è l’ipotesi che riguarda le banche centrali non occidentali.

Gli autori dell’articolo hanno scoperto nel mercato di Hong Kong una possibile attività di acquisti nascosti di oro da parte delle banche centrali non occidentali, che potrebbero indicare una ben piu’ ampia attività analoga su altre piazze, completamente al di fuori dai radar doganali (visto che l’oro delle banche centrali non è soggetto a controlli).

I principali sospettati della “ribellione” dell’oro nei confronti di Londra sono quindi le banche centrali non occidentali.

Tuttavia, la perdita di controllo da parte di Londra non va vista in una logica di semplice contrapposizione tra oriente e occidente.

Come abbiamo dimostrato in questo articolo, le banche centrali di tutto il mondo si sono sempre coordinate sul prezzo dell’oro, senza alcuna competizione o divergenza di vedute. Il primato di Londra non è mai stato seriamente messo in discussione.

Quindi, questa insolita disparità fra oriente e occidente può avere i seguenti significati:

a) le banche centrali orientali e occidentali hanno semplicemente concordato un nuovo range di prezzo, tra 1800 e 1900 dollari, piu’ consono alla precaria situazione finanziaria globale, oppure…

b) dal momento che molti paesi non occidentali hanno iniziato a commerciare in valuta locale e non piu’ in dollari, e dal momento che, come abbiamo spiegato qui, in tali transazioni è l’oro, non il dollaro, la valuta “ponte” per i passaggi da una valuta locale all’altra, ciò sta creando un aumento di richiesta di oro.
La richiesta proviene sia da parte dei paesi che devono usare l’oro per questi scambi, sia da parte della Russia e della Cina, che hanno impegnato le loro valute nazionali in tali scambi e devono perciò mantenere un cambio fisso di rubli e yuan con l’oro. Infine…

c) da quando gli Stati Uniti hanno sequestrato le riserve ufficiali in dollari della Russia nel 2022, le banche centrali non occidentali stanno accumulando oro per proteggersi da possibili “eventi monetari avversi” che possono colpire i loro asset in dollari (dalla confisca da parte di paesi nemici, a eventuali crisi finanziarie americane, ecc.).

Come si vede, lo scenario è complesso e le cause di questa situazione sono molteplici e non tutte chiare.

Una cosa però è evidente: se il baricentro del prezzo dell’oro dovesse spostarsi fuori dall’occidente in modo permanente, questa sarebbe la spia di cambiamenti molto profondi nell’economia globale.

Al momento tuttavia non sappiamo se è davvero cosi’, oppure si tratta solo di una fase transitoria, dopo la quale Londra riprenderà il controllo dell’oro.

Per capire se ci sono profondi fattori economici fondamentali dietro a tutto questo è necessario monitorare e analizzare le cose per almeno un altro anno, o forse piu’…

Perché i futuri tagli ai tassi della Fed sono una certezza

Nonostante ciò che si dice nei media, la possibilità di una lunga serie di ribassi dei tassi d’interesse nei prossimi due anni da parte della Fed è un’opinione molto diffusa a Wall Street.

Ci sono svariati argomenti economici, finanziari e politici a sostegno di questa ipotesi, molti dei quali sono stati trattati anche da noi in molti articoli e diversi post su telegram.

In questo articolo presenterò uno dei meno noti fra tali argomenti, che tuttavia è tenuto in gran considerazione proprio dalla Federal Reserve: il “tasso d’interesse neutro”.

Infatti, anche nei recenti discorsi di Powell il tasso di interesse “neutro” è stato citato piu’ volte.

Cosa vuol dire in realtà?

Il tasso di interesse “neutro” è un valore teorico che rappresenta il tasso di interesse “ideale” che in un dato momento sarebbe necessario per portare l’economia alla piena occupazione mantenendo costante l’inflazione.

Quando la Fed eccede, come nel 2022, nella sua politica sui tassi, allontanandosi dal tasso neutro “ideale”, lo fa consapevolmente. E sa benissimo che a un certo punto non può tirare troppo la corda e dovrà prima o poi tornare vicino al tasso ideale, per non mettere a rischio l’economia e la capacità dello stato di sostenere il proprio debito pubblico.

Ecco perché Powell, nel suo ultimo discorso, di fronte agli ultimi dati che mostravano la possibilità di un raffreddamento dell’inflazione, ha subito affermato che se la disinflazione prenderà davvero piedie, l’obiettivo della Fed sarà quello di riportare i tassi al loro valore “neutro”.

Ma quale sarebbe questo valore neutro, in base ai dati economici attuali?

In questo articolo mostreremo che il tasso neutro oggi è molto vicino a quello degli anni 10 del XXI secolo, quindi molto vicini allo zero.

Ma andiamo con ordine…

Il grafico qui sopra mostra che il tasso di interesse neutro R* si è gradualmente abbassato negli anni ’60, ’70, ’80, ’90 e 2000 con il miglioramento della produttività economica e l’attenuazione delle pressioni inflazionistiche naturali.

R* è poi crollato dopo la Grande Crisi Finanziaria del 2008 e si è stabilizzato intorno a livelli estremamente bassi di ~0,7% per tutti gli anni 2010.

Ultimamente, dopo la pandemia, R* era salito sopra l’1%, mentre ora è tornato ai livelli pre-pandemia e addirittura al di sotto.
Infatti, la stima più recente, secondo il modello HLW, è di un tasso dello 0,58% nel primo trimestre del 2023.

Il tasso di interesse neutro è un tasso “puro” che non include l’inflazione. Quindi, il tasso di interesse nominale ideale, quello a cui Powell ha detto di voler tornare se la disinflazione persisterà, sarebbe il tasso naturale più il tasso di inflazione, cioè R* più CPI (prezzi al consumo).

In effetti, il grafico mostra che negli ultimi 50 anni, le misurazioni di R* più CPI (curva bianca) sono sempre state una buona approssimazione del tasso che è stato poi realmente stabilito dalla Federal Reserve (curva rossa).

Quindi, per capire a quale tasso Powell si riferisce realmente, quando parla di tornare a un tasso neutro, bisogna calcolare R* più CPI.

Attualmente, R* è circa 0,6%, mentre il CPI è del 3,2%. Pertanto, R* + CPI = 3,8%.

Se quindi i prezzi al consumo (CPI) restassero al livello attuale, il tasso a cui Powell aspira sarebbe 3,8%.

Tuttavia c’è un crescente consenso sul fatto che CPI dovrebbe scendere ancora, tornando al 2% nel 2024. In tal caso il tasso di cui parla Powell sarebbe R* + CPI = 0,6% + 2% = 2,6%.

Attualmente il tasso federale è del 5,25%. Quindi per arrivare a 2,6%, Powell dovrebbe attuare 10-11 riduzioni dei tassi nei prossimi due anni.

Come ho detto all’inizio, la possibilità che la Fed taglierà i tassi più volte nel 2024 e nel 2025 non è piu’ un’ipotesi isolata, ma è ormai un’idea molto diffusa a Wall Street. Meglio ancora, anche la stessa Fed, per bocca dei suoi rappresentanti, ha fatto capire di prevedere molte riduzioni dei tassi in futuro.

La figura sotto mostra, con le curve colorate, le previsioni di Wall Street e, con la curva bianca tratteggiata, la previsione della Federal Reserve su questi tagli.
Come si vede, il numero e la profondità dei tagli ipotizzati da Wall Street e da Powell sono molto simili.

Ma cosa succede alle borse quando la Fed riprende a tagliare i tassi?

Dipende dal contesto economico.

Quando la Fed taglia i tassi per combattere una profonda recessione, le borse ovviamente scendono.

Al contrario, quando la Fed taglia i tassi in assenza di una recessione, le borse salgono.

Il grafico sotto mostra casi di questo secondo tipo avvenuti a metà degli anni ’80, metà degli anni ’90, fine anni ’90 e nel 2019 (frecce verdi sulla curva rossa nella metà inferiore e aree verdi sulla metà superiore del grafico):

Ci sono diverse prove a sostegno dell’ipotesi che anche questa volta la Fed potrà abbassare i tassi in assenza di una recessione.

Nei nostri articoli e nei post del canale Telegram abbiamo fornito svariate di queste prove, soprattutto riguardo la possibilità di una ripresa economica americana, almeno fino al 2025.

Qui, a scopo riassuntivo, presentiamo una delle piu’ note fra queste prove, cioè il Leading Economic Indicators del Conference Board, o LEI.

Come mostra il grafico, LEI è crollato nel 2022, per poi stabilizzarsi in un territorio profondamente negativo nel 2023.

In genere, quando LEI raggiunge un punto di minimo importante come quello attuale, fa poi una brusca virata verso l’alto e rimbalza fortemente negli anni successivi.

In altri articoli e post abbiamo spiegato con tanti altri argomenti la stessa cosa, cioè che il peggio del rallentamento economico post pandemico negli USA sembra essere avvenuto nel 2022 e che nei prossimi due anni l’economia americana sarà in ripresa. Il LEI non fa altro che presentare in modo sintetico questa possibilità, combinando l’analisi di moltissimi fattori economici in un indice semplice ed elegante.

Quindi, per concludere, è ragionevole presumere che la Fed taglierà i tassi piu’ volte entro i prossimi 2 anni. La stessa Fed dice di volerlo fare, allo scopo di avvicinarsi al tasso di interesse neutro, entro il quale l’economia e il debito pubblico sono meno a rischio.

E in base ai ragionamenti appena fatti, è probabile che l’economia non sarà in recessione, quando avverrano questi tagli, e quindi l’azione della Fed provocherà un forte incremento delle borse.

Come sempre monitoreremo continuamente la situazione per verificare se le cose andranno realmente cosi’.

Il cambio di paradigma del trend dell’oro

Un grande cambiamento si è verificato nel mercato dell’oro da quando la Russia ha invaso l’Ucraina e l’Occidente ha sequestrato le attività denominate in euro e dollari dalla banca centrale russa.

Finora infatti il driver più importante per il prezzo dell’oro in dollari è stato il rendimento a 10 anni dei Treasury Inflation Protected Securities (TIPS), cioè su quel tipo particolare di buoni del tesoro che hanno un rendimento aggiustato all’inflazione.

Il rendimento dei TIPS viene considerato come il tasso di interesse “reale” dei buoni del tesoro, al di là di quello ufficiale, che non tiene conto dell’inflazione.

Ora, per circa 15 anni oro e TIPS sono stati strettamente e inversamente correlati.

La logica alla base di questa correlazione inversa era che l’oro è stato sempre considerato una protezione sui titoli di stato statunitensi, dal momento che non è legato a eventuali, anche se improbabili, default dello stato.

Ma vediamo nel grafico qui sotto come sta cambiando questa correlazione finora considerata “tradizionale” per l’oro…

Premetto che nel grafico l’andamento dei tassi dei TIPS è stato invertito, per evidenziare ancora meglio la correlazione con l’oro.

Possiamo notare che, se appunto dal 2011 al 2021 le due curve sono andate di pari passo, all’inizio del 2022 il rendimento dei TIPS (curva azzurra) ha avuto un’impennata, che nel grafico invertito viene mostrata come una forte discesa:

In base alla tradizionale correlazione, anche la curva rossa dell’oro avrebbe dovuto seguire la discesa di quella azzurra; ma ciò non è avvenuto.

Infatti, se il rendimento dei TIPS è salito da -1% a febbraio a +1,7% a novembre 2022, l’oro sarebbe dovuto scendere da $1.900 l’oncia a $1.000, mentre invece si assestato a $1.700.

Il grafico seguente, piu’ ravvicinato, evidenzia ancora meglio la divergenza tra i due trend, con la curva azzurra (TIPS) in caduta libera, mentre quella rossa (oro) che resta in trend positivo, anche se con una certa correzione finale a ribasso:

Nel secondo grafico si nota meglio anche il fatto che, da novembre 2022, il rendimento dei TIPS, dopo l’impennata iniziale, è leggermente diminuito, ma il prezzo dell’oro, che secondo la “vecchia” correlazione inversa sarebbe dovuto salire leggermente, ha invece continuato a salire fortemente.

In altre parole, l’oro, quando dovrebbe scendere, scende poco rispetto alla salita del rendimento dei TIPS, e quando dovrebbe salire, sale sempre molto piu’ di quanto il rendimento dei TIPS scenda.

Insomma, che il rendimento dei TIPS salga o scenda, l’esito è sempre lo stesso: c’è ancora una correlazione inversa con l’oro, ma le due curve non corrono piu’ una vicino all’altra; al contrario, ogni movimento dei TIPS, in alto o in basso, non fa che aumentare il divario fra le due curve.

Ciò indica che l’oro, al netto delle salite e discese, si è rafforzato rispetto al rendimento dei TIPS, indicando una persistente sfiducia del mercato nei confronti del sistema monetario americano, non solo a causa della guerra ucraina, ma anche di fronte alle insolite politiche monetarie della Fed, al possibile avvento di un CBDC con possibili effetti socialmente distruttivi, alle politiche monetarie alternative dell’oriente del mondo, e cosi’ via: le ragioni di una forte incertezza certo non mancano…

E poi c’è anche una spiegazione banalmente “matematica” a questo cambio di paradigma.

Ogni anno, infatti, il valore totale dei titoli di stato statunitensi cresce molto più velocemente del valore totale della disponibilità di oro sul pianeta.

Il deficit fiscale degli Stati Uniti (la crescita del valore delle obbligazioni in circolazione) nel 2022 è stato di 1,38 trilioni di dollari, mentre il valore dell’oro estratto nello stesso anno è stato di appena 200 miliardi di dollari.

Prima o poi la correlazione tra TIPS e oro doveva tenere conto di questa enorme divergenza.

Dal 2011 al 2021 il debito federale degli Stati Uniti è raddoppiato, ma lo stock di oro estratto è cresciuto di appena il 17%.

Se torniamo al primo grafico, quindi, ci rendiamo conto che, alla luce di questa sproporzione di valore tra buoni del tesoro e oro estratto, la stretta, anche se inversa, vicinanza tra TIPS e oro dal 2011 al 2021 è sempre stata del tutto fuori dalla realtà.

Secondo il “vecchio” paradigma, l’oro avrebbe dovuto essere una copertura all’emissione dei buoni del tesoro. Ma, realisticamente parlando, come potrebbe un asset (l’oro) aumentato solo del 17%, a coprire correttamente i buoni del tesoro che nello stesso lasso di tempo sono aumentati del 50%?

Si ha l’impressione quindi che dal 2011 al 2021 la correlazione tra TIPS e oro abbia viaggiato secondo una metrica non realistica, ma convenzionale, basata su un vecchio pregiudizio (o una vecchia manipolazione delle quotazioni), piuttosto che spinta dalle reali esigenze del mercato.

Il fatto che ora questa correlazione poco realistica sia diventata una cosa del passato suggerisce quindi, non solo che la sfiducia nel dollaro è aumentata, come abbiamo detto, ma anche a mio avviso che il prezzo dell’oro non viene piu’ strettamente manipolato a ribasso come in passato e che quindi i suoi trend si avvicinano sempre piu’ ai movimenti reali del mercato.

Che l’oro non sia piu’ controllabile come prima è evidente anche dalla sempre piu’ scarsa correlazione col prezzo dell’argento (altro elemento nuovo nel panorama dei metalli preziosi).

L’argento infatti, piu’ facilmente manipolabile dell’oro, deve essere ancora selvaggiamente tenuto sotto pressione dalle élites perché c’è una cronica e drammatica mancanza di metallo fisico a copertura degli Etf legati a questo asset. Una scarsità che non riesce piu’ ad essere compensata e che quindi rischia ogni mese di far saltare le coperture dei titoli di borsa legati all’argento.

Per tale motivo, mentre l’oro ha ormai raggiunto stabilmente una quotazione media molto piu’ alta, rispetto ai suoi standard degli ultimi dieci anni, l’argento resta invece inchiodato alle vecchie quotazioni “minimaliste”.

Difficile dire se questa mancanza di controllo sul prezzo dell’oro da parte delle élites finanziarie sia un fatto intenzionale o un incidente di percorso (oppure qualcosa a metà tra le due opzioni).

Sta di fatto che il divario tra oro e tassi reali è il segnale evidente del ritorno di questo asset tra i protagonisti dell’economia globale, a fronte di un sistema finanziario che sta perdendo fiducia in se stesso.

Un gold standard per lo yuan? Forse fra cento anni…

Longsheng (Longji or Dragon's backbone) rice terraces near Guilin, Guanxi, China

Uno dei temi piu’ divertenti dei social complottisti è l’idea che Russia e Cina stiano creando delle valute interamente collateralizzate con l’oro. Una specie di gold standard del rublo e dello yuan.

E’ bene chiarire però che, per emettere una valuta gold standard, una banca centrale dovrebbe avere riserve di oro fisico di valore pari ad almeno il 50%-70% di tutta la valuta che intende emettere.

Vogliamo vedere se nel caso di Cina e Russia è davvero cosi’?

In Cina puoi convertire lo yuan in oro fisico, se fai trading di future sul petrolio greggio.

La Cina infatti nel marzo 2018 ha lanciato un contratto future in yuan sul petrolio, dando la possibilità a qualsiasi produttore di petrolio del mondo di vendere il proprio prodotto in yuan.

Ma, dato che la maggior parte dei produttori di petrolio non vuole accumulare grandi riserve di yuan, la Cina dà anche la possibilità di convertire immediatamente lo yuan in oro fisico.

Queste vendite di yuan in cambio di oro avvengono attraverso le borse dell’oro a Shanghai (il più grande mercato dell’oro fisico del mondo) e Hong Kong senza toccare le riserve ufficiali della Cina.

Quindi questa convertibilità dello yuan con l’oro è limitata ai proventi della vendita del petrolio effettuata in Cina e coinvolge le riserve di oro dei mercati liberi, non quelle della banca centrale cinese.

Al momento dunque, non ci risulta che chiunque possa andare in banca e scambiare yuan con oro.

Con le riserve auree attualmente pari al solo 3,5% delle disponibilità della banca centrale, semplicemente non ci sarebbe abbastanza oro per permettere una cosa del genere…

E la Russia?

Dopotutto, è il paese che vanta una delle maggiori quote di riserve auree detenute da una banca centrale, pari a circa il 20% delle riserve globali di oro.

Al momento, questi scambi riguardano beni di provenienza straniera che i Russi pagano direttamente in rubli (proprio come i Cinesi pagano in yuan il petrolio).

Anche qui, gli stranieri che vengono pagati in rubli non hanno interesse a mantenere questa valuta nelle loro riserve, perciò la cambiano subito in oro.

Ovviamente anche questi questi scambi avvengono sul mercato libero dell’oro e non riguardano le riserve auree della banca centrale russa.

La Russia infatti non è in grado di produrre beni e servizi competitivi o particolarmente ricercati nei mercati globali. Quindi, se convertisse rubli con le riserve auree della banca centrale, si ritroverebbe ad aver scambiato le sue scorte d’oro con un paniere di beni e servizi occidentali…. e il rublo sostenuto dall’oro non ci sarebbe più.

Ora, niente di tutto questo vuol dire che non valga la pena prestare attenzione agli sforzi della Cina e della Russia per minare lo status del dollaro USA come valuta di riserva globale.

Ma la possibilità che la creazione di un gold standard sia una componente importante di questo piano di detronizzazione del dollaro non ha alcuna base economica.

La corsa al credito: un’altra tappa dello spietato reset bancario americano

Six athletes running race

Le recenti crisi bancarie americane NON sono causate dal credito, come quelle del 2008.

In articoli precedenti (ad esempio qui) abbiamo spiegato le cause di questi default, perciò non ci dilunghiamo su questo. L’importante è capire che il credito non c’entra nulla.

Se si vuole davvero avere il polso della situazione e capire cosa sta succedendo nell’economia, la prima cosa da fare è abbandonare lo schema proposto sia dai media mainstream che dai media complottisti.

Chi ragiona con questo schema si aspetta che le politiche restrittive della Federal Reserve inneschino sofferenze tali nelle banche da costringerle a una stretta creditizia che alla fine strangolerà l’economia e porterà a una forte recessione.

Niente di piu’ sbagliato.

Al contrario, grazie agli aumenti dei tassi d’interesse, il credito è tornato a essere il business piu’ appetibile per una banca. Lo dimostrano gli ultimi bilanci trimestrali delle grandi banche (J.P. Morgan. Citigroup, Bank of America, Wells Fargo).

Gli interessi che queste grandi banche hanno guadagnato sui loro prestiti ha superato di gran lunga i costi sostenuti sui depositi dei loro clienti.

J.P. Morgan ad esempio ha riportato un reddito netto da interessi record di oltre $ 20 miliardi.

I ricavi delle quattro mega-banche USA sono tutti aumentati, mentre i loro profitti sono stati cosi’ incredibili da controbilanciare ampiamente gli accantonamenti per perdite su prestiti.

Del resto, una delle migliori prove che il credito (assieme ad altri servizi bancari) è diventato cosi’ appetibile è la corsa all’oro che si sta svolgendo tra banche e giganti high tech.

Giganti High Tech e grandi banche: iniziano le danze…

Tutti sappiamo che Amazon, Meta, Google, Apple e Microsoft hanno già creato propri sistemi di pagamento virtuale.

Il passo successivo è quello di offrire anche credito, attraverso carte di credito (finora ci sono arrivate Amazon e Apple) e poi offrire l’altro lato del sistema, cioè depositi a interessi (lo sta facendo Apple, che offrirà interessi al 4,15%, superiori a quelli di qualsiasi banca).

La differenza tra le grandi banche e i giganti high tech è che questi ultimi hanno il vantaggio di non avere in gestione dei depositi. La loro fonte di ricchezza infatti è la montagna di cash accantonato, non i depositi dei clienti (questi ultimi, poi, possono anche ritirare i loro risparmi da un giorno all’altro, come abbiamo visto).

In questa corsa all’oro, le banche e le società high tech sono impegnate in qualcosa che è a metà tra la rivalità senza esclusione di colpi e la collaborazione.

I servizi finanziari di Apple, ad esempio, sono in realtà creati e gestiti operativamente da Goldman-Sachs, mentre la carta di credito di Amazon è rilasciata in partnership con J.P.Morgan.

Quando possono, però, le grandi banche non esitano a fare fuori gli avversari, come nel caso emblematico della First Republic Bank.

Attenzione a questa vicenda, perché rivela molte cose…

La lotta all’ultimo sangue tra i servizi finanziari non è certo finita…

Nel primo trimestre di quest’anno, i depositanti hanno ritirato dalla First Republic Bank 102 miliardi di dollari. E questo nonostante la banca avesse in precedenza preso in prestito $ 92 miliardi dalla Federal Reserve e altri $ 30 miliardi da 11 banche più grandi.

La Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC) si è affrettata a trovare un acquirente durante il fine settimana nella speranza di non dover costringere la Fed a un ennesimo costoso salvataggio.

J.P. Morgan, “coraggiosamente” (si fa per dire) si è fatta avanti per acquisire i $ 173 miliardi di prestiti, $ 30 miliardi di titoli e $ 92 miliardi di depositi della First Republic con la modica spesa di soli $ 10,6 miliardi. L’accordo ha come ulteriore vantaggio che la FDIC coprirà l’80% di tutte le perdite su crediti che JP Morgan potrebbe soffrire a causa dei crediti inesigibili della First Republic nei primi sette anni di mutui e nei primi cinque anni di prestiti commerciali.

Insomma, quello della J.P. Morgan non è stato proprio un “sacrificarsi per la causa”…

Ma c’è di piu’…

Si, perché in condizioni di mercato “normali”, J.P. Morgan, per evidenti motivi di antitrust, non sarebbe mai stata autorizzata ad acquisire First Republic. Il solo motivo per cui la Federal Trade Commission ha permesso “a malincuore” questa acquisizione (e anche i ricchi e sfacciati bonus concessi) è che siamo in tempi di “emergenza” (ormai abbiamo imparato quanto sono preziose queste “emergenze” per aggirare la legge).

Parliamo della stessa Federal Deposit Insurance Corporation che proprio in questi giorni ha inviato un ordine di consenso (una notifica) alla Cross River Bank (la banca che osa fornire assistenza alle transazioni cripto-fiat per VISA e Coinbase) sostenendo che la banca è impegnata in pratiche di prestito “non sicure e non solide” che andranno sanate, pena la confisca, come avvenuto per la Silvergate Bank.

Due pesi e due misure…che fanno capire da che parte propenda il favore della FDIC in questa lotta senza quartiere….

Una lotta nella quale la J.P. Morgan sembra agire nella massima impunità.

Ricordiamo, come detto in un articolo precedente, che secondo alcuni media (ad esempio The Information) i bank run che hanno portato al fallimento una banca solida come Silicon Valley Bank sono stati probabilmente pilotati dalla stessa J.P. Morgan.

Bisogna capire che l’innesco di questi bank run non avvengono a causa di utenti retail (semplici cittadini) che per qualche ragione iniziano a ripulire i loro depositi dalle banche. In realtà sono i principali clienti di queste banche (soprattutto grandi aziende o singole personalità multimilionarie) a iniziare queste fughe dai depositi, che solo in seguito vengono imitati dai clienti retail.

Le banche colpite da questi fallimenti pilotati, hanno tutte le stesse caratteristiche: gestiscono principalmente le società, non i semplici cittadini.

E sono proprio queste società l’oggetto del desiderio delle grandi banche sistemiche, J.P.Morgan in testa, che probabilmente ne riescono a contattare le alte dirigenze, alle quali promettono condizioni migliori, oppure le fanno credere che la loro banca stia per fallire, o comunque le convincono in qualche modo a spostare i loro capitali fuori dalla banca.

Come dice questo articolo, questa “concorrenza del credito” e degli altri servizi bancari tra banche, fintech e high tech raggiungerà livelli ancora piu’ frenetici nei prossimi mesi e anni.

Tutto per la conquista del predominio nei servizi bancari offerti alle grandi società e ai clienti multimilionari.

E fra i servizi bancari, come abbiamo detto, il credito è il piu’ appetibile, perché permette di avere enormi profitti sotto forma di interessi.

In un contesto del genere, come si può pensare che a un certo punto le banche si ritirino dalla lotta e non vogliano piu’ fornire servizi di credito all’economia?

Del resto, basta uno sguardo al mondo dei mutui per capire la situazione…

Il mercato dei mutui dimostra che in America il credito si espanderà e non ci sarà alcun “credit crunch”

Il mercato dei prestiti ipotecari non è legato direttamente ai tassi di interesse decisi dalla Fed. Ci sono altre forze in gioco, tra cui l’offerta di nuovi immobili e la domanda da parte dei potenziali acquirenti.

Ecco perché, anche se i tassi di interesse rimangono ancora elevati, la disponibilità dei mutui sta migliorando.

In altre parole, in America sta diventando un po’ più facile per aziende e cittadini ottenerne uno…

Secondo l’ultimo Mortgage Credit Availability Index, un rapporto della Mortgage Bankers Association che analizza i dati di ICE Mortgage Technology, la disponibilità di credito ipotecario negli Stati Uniti è aumentata nel marzo 2023.

Siamo ancora ai primi, timidi segnali che le banche stanno diventando più disposte a prestare.

Pungolate dalla concorrenza delle società high tech con la loro quasi illimitata liquidità, le banche non possono starsene in disparte ancora per molto, col rischio di perdere la corsa all’oro del credito e degli altri servizi finanziari.

E come abbiamo visto, per vincere questa corsa, le banche, quando possono schiacciare un concorrente, lo fanno, oppure, al contrario, stipulano accordi e joint ventures con gli avversari che non hanno la forza di eliminare…

Risultato: piu’ credito all’economia = piu’ liquidità = aumento dei consumi = espansione economica

Dal punto di vista macroeconomico, l’aspetto piu’ importante di tutto questo discorso è che i giganti high tech inizieranno a prestare denaro anche contro una frazione delle loro folli riserve di liquidità, aggiungendo decine, se non centinaia di miliardi di dollari di credito al consumo.

E le banche, dal canto loro, continueranno ad abbassare i loro standard di prestito, rendendo nuovamente accessibile il credito e quindi aumentando ulteriormente la quantità di credito nel sistema.

Tutti i default e i bank run, che accadono e continueranno forse a verificarsi nel corso di questo processo, sono solo gli effetti di questa competizione selvaggia, non sono il sintomo di una qualche mancanza di liquidità nel sistema che inizia a far saltare gli ingranaggi.

Alla fine di questa lotta ci saranno molti caduti: diverse banche di medie dimensioni, alcuni settori economici già oggi divenuti marginali, come i department stores e gli immobili commerciali, diversi milioni di semplici cittadini, professionisti e dipendenti impiegati in questi settori, ne lasceranno le penne.

Ma ciò non toglie che il risultato finale sarà un’economia con molti settori “superstiti” in ottima salute, che sapranno sfruttare la liquidità che, sotto forma di credito, sarà entrata nel sistema.

Del resto, già adesso basta consultare i risultati delle pubblicazioni dei bilanci trimestrali di aprile per capire quali saranno i settori vincenti:

American Express ha affermato che la spesa dei consumatori rimane resiliente, Taiwan Semiconductor e Lam Research si aspettano che il mercato dei semiconduttori rimbalzerà nella seconda metà del 2023, mentre Genuine Parts Company e AutoNation hanno riportato che la domanda di ricambi auto rimane forte…e cosi’ via…

Per una volta, sono d’accordo con un’esponente della Federal Reserve, per la precisione, il presidente della Federal Reserve di St. Louis James Bullard , il quale ha dichiarato a Reuters che “Wall Street è molto convinta che ci sarà una recessione tra sei mesi o qualcosa del genere, ma non è proprio il modo in cui si legge un’espansione come questa.”

Che dire dei soldi della pandemia ancora da spendere, sia a livello statale e locale che a livello di singola famiglia?” continua Bullard.

I trilioni di dollari che il governo ha distribuito direttamente ai consumatori, alle imprese e ai governi statali e locali sono ancora nel sistema. Stati come la California stanno accumulando grandi deficit su base contabile, ma sono ancora seduti su pile di contanti della pandemia, e li stanno spendendo“.

I consumatori sono inondati di contanti.“, riprende Bullard, “Puoi vederlo nei depositi presso le banche, che avevano raggiunto i $ 18 trilioni alla fine del 2021 e ora sono scesi appena a $ 17,4 trilioni, che è ancora una somma enorme. Puoi vederlo nei capitali dei fondi del mercato monetario: tutti aumentati vertiginosamente. I consumatori hanno anche parcheggiato molto denaro in buoni del tesoro. Molti di questi strumenti pagano dal 4% al 5% di interessi.(…)”.

Insomma, non proprio la crisi di credito e di liquidità che molti ancora si aspettano…

Il piano segreto della Fed sul mercato monetario. Parte seconda

Dopo una fase di sviluppo durata quasi un decennio, mancano pochi mesi all’implementazione da parte della Federal Reserve di una nuova infrastruttura di transazioni in tempo reale nota come FedNow.

L’ultima notizia è che vedremo l’impiego di questo nuovo sistema tra maggio-luglio.

Il sistema e i suoi vantaggi sono semplici.

Le banche che faranno parte della rete FedNow potranno inviare/ricevere denaro in cambio di buoni del tesoro in pochi secondi con regolamento quasi istantaneo.

La maggior parte dei media sta trattando questo argomento nella prospettiva di un possibile dollaro digitale (CBDC).

In realtà, questo nuovo sistema potrebbe avere degli usi molto piu’ concreti e immediati di un CBDC.

Ad esempio, in caso di bank run bancari, FedNow potrebbe permettere istantanee iniezioni di liquidità da parte della Fed a favore delle banche in difficoltà, annullando in tempo reale gli effetti distruttivi di qualsiasi bank run, non importa di quali dimensioni.

Piu’ importanti però sono alcuni effetti a lungo termine di FedNow.

Per capire di cosa si tratta, dobbiamo tornare a parlare dei buoni del tesoro USA, strettamente correlati con questa possibile implementazione, continuando il discorso della Parte prima di questo articolo.

Nell’articolo precedente infatti avevamo scoperto uno strano afflusso di enormi somme istituzionali dagli anni ’70 a oggi nel mercato monetario (buoni del tesoro, in pratica), che sta creando, soprattutto negli ultimi 5 anni, una capitalizzazione crescente e stabile in questi titoli, senza alcun evidente scopo di protezione dai rischi o di investimento.

Non sappiamo con certezza lo scopo di questa operazione a lungo termine, ma in questo articolo cercheremo di fornire un contesto in cui questo fenomeno potrebbe avere senso.

La creazione di buoni del tesoro a tasso fisso

Uno dei due strumenti di salvataggio che la Fed ha messo in campo ultimamente è il Bank Term Funding Program, che prevede prestiti di liquidità alle banche in difficoltà in cambio di buoni del tesoro (Treasury) valutati alla pari, non al valore di mercato.

Dal momento che in America diverse banche di media entità continuano a marciare sull’orlo della bancarotta, la Fed sta utilizzando a pieno regime questo strumento di salvataggio, che la costringe a incamerare nel proprio bilancio centinaia di miliardi ogni mese in buoni del tesoro usati come collaterale dei prestiti di salvataggio.

In pratica, la Fed è impegnata in un nuovo QE, anche se in modo non ufficiale.

Tuttavia, a differenza dei QE precedenti, che avvenivano in un contesto di tassi d’interesse quasi a zero, ora queste cifre colossali vengono prestate mentre i tassi d’interesse sono molto alti.

Ecco il motivo per cui i prestiti avvengono con uno scambio di Treasury alla pari, cioè non al prezzo (e al tasso d’interesse) di mercato, ma a un prezzo e tasso nominali.

In pratica, la Fed sta essenzialmente fissando il prezzo (e il tasso d’interesse) del debito sovrano per evitare che queste operazioni di salvataggio portino alle stelle i rendimenti di questi titoli, mandando in bancarotta il governo che deve pagare gli interessi su questi titoli.

Lo scopo piu’ evidente di questi insoliti buoni del tesoro a tasso fisso è perciò proteggere il governo dalla bancarotta.

Tuttavia la Fed potrebbe anche usare questi buoni a tasso fisso per altri scopi.

Vediamone un paio nei prossimi paragrafi…

Come FedNow potrebbe promuovere lo “staking” dei buoni del tesoro

FedNow potrebbe essere utilizzato dalla banca centrale per trasformare i buoni del tesoro a tasso fisso in un asset da investimento in competizione con altri piu’ famosi, come le borse, l’oro o le cripto.

Come?

La Fed potrebbe instaurare degli scambi regolari e permanenti di denaro contro buoni del tesoro a prezzo e tasso fisso, questa volta non con le banche di media grandezza, ma con le grandi banche sistemiche, sempre pronte ad affiancare la banca centrale nelle sue manovre piu’ ardite.

In questo modo incamererebbe nel suo bilancio questo genere di titoli “garantiti” che a sua volta potrebbe offrire sul mercato attraverso FedNow.

I buoni del tesoro verrebbero cosi’ trasformati nell’investimento ideale: costanti nella performance, con rendimenti sempre adeguati all’inflazione e garantiti dallo stato.

Molti investitori, soprattutto se scoraggiati con opportune campagne mediatiche e giudiziarie dall’uso di altre forme di investimento dipinte come rischiose o inaffidabili, potrebbero trovare appetibile questa nuova forma di asset “garantito”.

Si tratta comunque di una semplice ipotesi, come quest’altra che descrivero’ nel paragrafo seguente…

La Fed sta creando a tavolino un’economia a inflazione controllata?

Nel 2018, la Fed tento’ una politica monetaria restrittiva simile a quella attuale, ma in scala molto piu’ ridotta, con la quale riusci’ ad aumentare i rendimenti dei fondi del mercato monetario e dei buoni del Tesoro di appena il 2%.

Ora è del tutto diverso: non possiamo negare infatti che stavolta l’impegno della Fed e del governo nel portare l’inasprimento monetario alle sue estreme conseguenze sembra inarrestabile.

Se l’inasprimento monetario del 2018 era chiaramente una breve parentesi nel lungo ciclo espansivo del dollaro, qui potremmo essere di fronte a un programma a lungo termine con obiettivi del tutto diversi da quelli di allora.

Se la Fed volesse al tempo stesso trasformare il dollaro in una valuta dotata di valore intrinseco (o almeno, con un rendimento implicito garantito) come abbiamo ipotizzato nel precedente paragrafo, potrebbe farlo senza alzare troppo i tassi d’interesse e senza innescare una recessione?

A mio parere la Fed potrebbe tentare questo esperimento.

E per farlo dovrebbe:

-concludere l’attuale ciclo di rialzo dei tassi, senza però iniziare un ciclo opposto di ritorno a tassi a zero

-continuare l’immissione di liquidità mirata in cambio di buoni del tesoro a tasso fisso

-aspettare e vedere cosa succede…

E’ possibile che queste semplici mosse riescano a sostenere i consumi e quindi a scongiurare una recessione.

Come?

Per i consumatori con migliaia di miliardi di dollari investiti in risparmi, conti del mercato monetario e buoni del tesoro che ora offrono rendimenti piu’ alti, l’attuale politica monetaria della Fed inizia a generare un vero flusso di cassa per la prima volta in 14 anni.

Avendo nuovamente dei soldi freschi generati dai rendimenti, queste persone potrebbero essere spinte a riprendere una nuova ondata di consumi (e per la verità, finora i consumi in America non si sono mai indeboliti, anche se nessuno sa spiegarsi perché…).

Certo, sarebbe una ripresa dei consumi piu’ moderata da quella che verrebbe generata da un QE “tradizionale”, ma sarebbe sufficiente a confondere le acque nei dati trimestrali sulla recessione, giustificando un eventuale mantenimento dei tassi dei buoni del tesoro in una soglia media piu’ alta rispetto al passato.

In questo modo, la Fed avrebbe creato un nuovo standard economico basato su tassi d’interesse non piu’ a zero, ma nemmeno troppo alti, mantenuti entro un range costante che sostenga l’economia e i consumi.

E al centro di questo sistema ci sarebbero i buoni del tesoro…

Quei buoni del tesoro che, come abbiamo visto nell’articolo precedente, istituzioni e multinazionali stanno accumulando da 5 anni a questa parte

Quei buoni del tesoro che con gli ultimi strumenti di salvataggio per le banche hanno cambiato pelle e sono diventati asset a rendimento fisso “garantito”.

Solo il tempo ci dirà se una o entrambe le nostre ipotesi (staking dei buoni del tesoro e inflazione perpetua) si avvereranno; anche perché l’introduzione di buoni del tesoro a tasso fisso è un compito molto complesso.

Non dobbiamo dimenticare che i buoni del tesoro sono il collaterale privilegiato delle transazioni fra banche centrali, fra banche private e fra aziende, in una rete capillare costruita pazientemente nei decenni che serve a mantenere la supremazia del dollaro a dispetto delle fluttuazioni della bilancia commerciale americana.

FedNow non è uno strumento capace di integrarsi in questo complesso sistema.

Inoltre, gli Stati Uniti non possono certo costringere altri paesi a comprare buoni del tesoro a un prezzo e a un interesse fisso deciso dalla banca centrale.

Per non parlare del fatto che oggi i buoni del tesoro sono detenuti anche nelle banche centrali dei paesi “nemici”, come la Cina.

La nostra ipotesi quindi implicherebbe la risoluzione di tutti questi aspetti, non certo semplici da affrontare.

D’altro canto però, vi sono segni sempre piu’ evidenti che questo ciclo di rialzo dei tassi della Fed sia diverso da quelli del passato.

Sembra che la Fed voglia superare la tradizionale alternanza di QT-QE e che quindi in futuro potrebbe non esserci un QE o un “pivot” come si dice in gergo, ma piuttosto una nuova normalità basata su parametri inediti.

Staremo a vedere….

Il piano segreto della Fed sul mercato monetario. Parte prima

Ormai lo sappiamo tutti: in questo periodo molti capitali stanno entrando nei fondi monetari o direttamente nei buoni del tesoro, specialmente quelli a breve scadenza.

Ma questo fenomeno è molto diverso da come lo immaginiamo.

Siamo abituati a pensare che, quando le cose vanno male, gli investitori scappano dagli asset piu’ rischiosi per rifugiarsi in questi titoli, che sono praticamente quasi simili a denaro e quindi poco problematici.

Al contrario, quando le cose vanno bene (ad esempio, quando la Fed riprende un QE) gli investitori lasciano i buoni del tesoro per tornare nuovamente nei mercati piu’ rischiosi.

Tutti siamo convinti che il mercato monetario funziona cosi’, vero?

Anch’io ne ero convinto. Per questo sono letteralmente saltato sulla sedia davanti a questo grafico:

Come si vede, anche se ci sono effettivamente dei picchi nei momenti in cui c’è una crisi o un cambio di politica monetaria (i picchi sono evidenziati dalle scritte in rosso), in realtà l’aumento di capitalizzazione in questo mercato è costante.

In altre parole, non è vero che i capitali entrano solo nei momenti di crisi per poi uscirne quando il peggio è passato. Se cosi’ fosse, avremmo un grafico piatto con dei grandi picchi, non certo questa curva in continuo aumento dagli anni ’70 a oggi

Il grafico mostra chiaramente che c’è un flusso costante di capitali in questo mercato.

In altre parole, c’è una parte consistente di capitali che quando entra nel mercato monetario non ne esce piu’ per molti anni!

Esiste quindi un bull trend di lungo termine che nessuno finora aveva notato.

E questo bull trend non si è arrestato nemmeno in corrispondenza dei forti cambiamenti di politica monetaria della Federal Reserve.

Tutti noi ci immaginiamo che se la Fed ad esempio iniziasse un QE domani, subito gli investitori uscirebbero dal mercato monetario per entrare in altri mercati piu’ rischiosi.

Il nostro grafico invece ci dice che questi flussi in uscita sarebbero molto inferiori di quanto pensiamo, perché una larga parte di capitali resterebbe in quel mercato.

E il motivo di ciò è che gran parte di questi capitali non proviene piu’ da investitori, fondi comuni, fondi pensione “normali” che disinvestono quando passa la crisi.

Da dove vengono allora questi soldi?

Il mistero inizia a svelarsi guardando questo grafico:

Qui si vede chiaramente che dal 2017 in poi c’è stato un cambiamento radicale degli strumenti che consentono l’entrata in questi titoli (si vede dal cambio di colore: la tonalità azzurra inizia a dominare nel grafico a partire da quella data).

Ed è cosi’ che quindi negli ultimi 5 anni la maggior parte del denaro che entra nel mercato monetario non passa piu’ in gran parte attraverso i canali piu’ ovvi, cioè attraverso le banche, i fondi pensione, Moneyfarm o qualsiasi altra modalità a cui siamo abituati.

Ormai il grosso dei capitali entra attraverso uno strumento specifico, ossia particolari fondi governativi (le bande azzurre e quelle grigie, appunto), che generalmente hanno soglie minime di ingresso molto alte (da $ 100.000 a $ 1 milione) difficilmente affrontabili da parte degli investitori “normali”.

Questi fondi infatti vengono usati dalle grandi multinazionali e dalle istituzioni, la cui sovraesposizione verso il mercato monetario non può essere un semplice investimento fatto in risposta a determinate condizioni di mercato.

Se cosi’ fosse, non avremmo quel grafico che avviamo visto all’inizio, dove appare chiaramente che i capitali istituzionali e delle multinazionali entrano stabilmente nel mercato monetario e non ne escono piu’ a prescindere dai mercati e dai trend economici.

Allora, qual è lo scopo di questo continuo afflusso di capitali?

Proveremo a fare qualche ipotesi nella Seconda Parte….

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