martedì, Luglio 15, 2025

Lo yuan e il gettone telefonico: perché il dollaro è ancora importante

In un post su telegram del 4 aprile avevo mostrato questo grafico:

nel quale è evidente la relativa importanza delle diverse valute mondiali come valute di riserva.

Nel post dicevo anche che per sapere se e quando lo yuan (nel grafico RMB, la curva in verde in basso) starà davvero per sostituire o affiancare il dollaro come valuta mondiale dovremo attendere il momento in cui almeno una materia prima o un bene qualsiasi di largo consumo verrà prezzato ufficialmente in yuan.

Un particolare curioso è che i social complottisti, per i quali questo evento deve avvenire da un momento all’altro, si sono persi un pezzo importante di informazione che potrebbe alimentare meglio queste attese…e nel frattempo aumenterebbe certamente il numero dei loro lettori.

Ma a questo rimediamo subito …

La notizia clamorosa è che India e Russia, nei loro scambi di petrolio in valuta locale e non in dollari, hanno alzato l’asticella decidendo di non usare piu’ il prezzo ufficiale fissato in qualche borsa occidentale, ma quello fissato dalla piazza di Dubai…!

Fantastico! E’ dunque arrivato il momento tanto atteso?…

Ehm, purtroppo no, perché anche Dubai fissa il prezzo in dollari…e lo fa mediante la società americana S&P Platts, che appartiene alla ben nota S&P Global.

Certo, il prezzo di Dubai viene influenzato molto di piu’ dagli scambi asiatici che da quelli occidentali, ma qui non stiamo discutendo la quotazione del greggio, bensi’ il dominio globale di una valuta che non sia il dollaro.

E da questo punto di vista, nemmeno Dubai sembra intenzionata a fare il passo tanto atteso dai complottisti…

Nel frattempo, approfitto dell’occasione per spiegare meglio il motivo per cui lo yuan, il rublo o qualsiasi altra valuta non possono al momento diventare delle valute globali come il dollaro, pur essendo implicate in alcuni scambi transazionali.

E a questo scopo, userò come esempio i gettoni telefonici dell’immagine di copertina…

Chi ha un pò di anni ricorderà certamente che prima dell’invenzione dei cellulari c’erano le cabine telefoniche, nelle quali il pagamento delle chiamate non avveniva direttamente con le lire di metallo, ma con dei gettoni (quelli appunto in copertina).

In pratica, per chiamare qualcuno da una cabina dovevi prima comprare con le tue lire dei gettoni e poi dovevi introdurre quei gettoni nel telefono per avviare la chiamata.

Il punto è che, nonostante quei gettoni siano siano stati convertibili a prezzo fisso con le lire per due decenni, non hanno mai preso il posto delle lire stesse.

Allo stesso modo avviene con i rubli, le rupie, i yuan o qualsiasi altra valuta usata negli scambi internazionali.

Infatti, se la Russia vende qualcosa all’India pagandola in rupie, deve prima comprare queste rupie scambiandole in dollari.

E quando l’India compra qualcosa dalla Russia pagandola in rubli, deve prima comprare i rubli pagandoli in dollari.

Inoltre, le banche centrali russa e indiana che hanno incamerato, rispettivamente, rupie e rubli nelle loro rispettive vendite, come faranno a comprare qualcosa dalla Cina pagandola in yuan? Semplice: convertiranno le rupie e i rubli in dollari, e con quei dollari compreranno gli yuan.

Ora è piu’ chiaro il quadro?

In pratica, delle banche centrali russia indiana e cinese che abbiamo considerato, nessuna di queste ha messo in riserva rubli, yuan o rupie. Infatti, per passare da una valuta all’altra è stato necessario usare dollari.

Quindi, quale sarà la valuta che dovranno tenere in riserva per fare i loro commerci in valute nazionali? Ovviamente, i dollari!

In conclusione, in tutti questi scambi internazionali, le valute locali sono, rispetto al dollaro, come il vecchio gettone telefonico rispetto alla lira

Le varie valute possono passare infinte volte da una mano all’altra in tutti gli scambi commerciali del mondo, ma finché dovranno essere comprate a loro volta in dollari, al di fuori dei loro confini nazionali saranno sempre una merce e non una valuta

Capire il mercato immobiliare USA

Uno dei fattori indispensabili per capire l’andamento delle borse è il mercato immobiliare.

La correlazione tra il mercato immobiliare e le borse non viene mai sottolineata abbastanza.

In realtà, specialmente per il mercato americano, esiste una stretta relazione, non solo nel lungo termine, ma anche nei trend di medio termine, tra gli immobili e le borse.

Un chiaro esempio di questo è la situazione attuale del mercato azionario, che descriviamo ogni giorno sul nostro canale telegram.

Chi segue il nostro canale sa che le borse americane sono come “congelate”: ad aprile, dopo una breve salita delle quotazioni, tutti i trend si sono azzerati.

Ma la stessa cosa sta accadendo proprio ora nel mercato immobiliare americano. Anche questo è al momento “congelato”.

E’ quindi il caso di dare un’occhiata ravvicinata al settore immobiliare per capire meglio le borse.

La dinamica dei mutui e delle banche. Siamo davvero sull’orlo di un nuovo 2008?

Il primo passo per approfondire in modo scientifico e realistico questo tema, è sgombrare la mente dalla teoria strampalata, oggi molto in voga, secondo cui c’è il rischio di un default bancario e immobiliare in stile crisi del 2008.

Le condizioni di oggi sono del tutto diverse da quelle del 2008.

Oggi, tutto ciò che sta accadendo è un effetto indesiderato della politca della Federal Reserve, che ha aumentato i tassi troppo in fretta e con troppa forza.

Due anni fa, gli erogatori di mutui a tasso variabile sapevano che la Fed avrebbe presto aumentato i tassi d’interesse e avevano calcolato di poter beneficiare di questa nuova politica.
Infatti, secondo i loro calcoli, l’aumento dei tassi a breve termine avrebbe spinto verso l’alto i tassi variabili dei loro mutui, incrementando quindi i loro rendimento e proteggendo anche il valore del prestito.

Cosa è andato storto?

Questo calcolo sarebbe stato corretto se la Fed si fosse limitata ad aumentare i tassi al massimo di 200 punti base, per poi fare marcia indietro riabbassandoli di nuovo, come aveva fatto nel 2018.

Nessuno certo si aspettava che i tassi sarebbero aumentati di ben 475 punti base, creando quella recessione del 2022 (ignorata dai media, come abbiamo già detto altrove) che ha fatto svuotare gli uffici, rendendo inadempienti i mutuatari di questi immobili.

Quanto poi alle banche, bisogna considerare un’altra dinamica non sempre riportata con chiarezza dai media.

Molti analisti sono allarmati dall’esposizione delle banche di media grandezza americane su questi mutui legati agli uffici.

In realtà, come si apprende da questo articolo, le banche posseggono solo il 45% di questo debito.

Ben prima che i media capissero che la Fed aveva intenzione di schiantare l’economia con rialzi dei tassi piu’ alti di quanto ci si aspettava, le banche avevano saggiamente cartolarizzato questi mutui, vendendoli ad altre entità, come le assicurazioni sulla vita, i fondi pensione, isituti di credito non bancari come società di mutui, REIT ipotecari o società di PE.

In realtà i mutui sugli immobili commerciali sono ancora una bomba a orologeria e infatti stanno continuando a provocare dei default in America, ma negli istituti non bancari. Questi default fanno meno notizia, quindi molti investitori non ne sono al corrente e aspettano ancora il grande default di qualche banca sistemica che finalmente butti giu’ tutto.

Un’attesa che non si realizzerà mai…

Il cortocircuito tra domanda e offerta di immobili che congela il mercato

Dopo questa premessa, affrontiamo il mercato immobiliare dal punto di vista classico, ossia confrontando le dinamiche della domanda e dell’offerta e come queste si riflettono sui prezzi.

La scarsità di immobili in America è un trend che dura da anni:

La scarsità dell’offerta dovrebbe teoricamente far alzare i prezzi degli immobili.

Tuttavia, l’aumento dei mutui limita anche la domanda, controbilanciando l’effetto rialzista sui prezzi.

Questi, in poche parole, sono i due trend opposti che stanno congelando il mercato immobiliare.

Ma all’interno di questa situazione di stallo, delle dinamiche molto insolite  stanno facendo pendere leggermente il piatto della bilancia sulla discesa dei prezzi, piuttosto che su un loro congelamento.

Vediamo di cosa si tratta.

Perché negli USA i prezzi delle case scendono

Molti media dicono che l’aumento dei mutui rende piu’ difficile l’acquisto di un immobile.

Tuttavia questo fattore è controbilanciato dalla discesa dei prezzi degli immobili che al contrario favorisce l’acquisto.

Complessivamente, il prezzo medio degli immobili è infatti sceso del 9,2% rispetto al picco stagionale di giugno 2022.

La stranezza sta nel fatto che questa discesa dei prezzi avviene nonostante il fatto che, come abbiamo detto prima, l’offerta di immobili nel mercato americano sia in discesa da anni.

In realtà, però questa riduzione dell’offerta non è uniforme e le sue stranezze, oltre a far scendere i prezzi degli immobili, almeno nel medio periodo, stanno risvegliando i titoli di borsa legati all’immobiliare.

E qui veniamo alla parte piu’ interessante per chi investe…

L’offerta di immobili sul mercato si riduce, anzi no…

Questo articolo di Bloomberg ci spiega perché la normale dinamica di domanda e offerta nel mercato immobiliare USA sta deviando dai suoi prevedibili binari.

Tutto inizia, come spiega l’articolo, con i proprietari di case che godono di vecchi mutui a tasso fisso pagando rate molto basse rispetto a quelle attuali.

Questi proprietari non si sognano certo di vendere ora i loro immobili, perché in tal caso dovrebbero pagare molto di più per comprare una nuova casa e poi, ovviamente, il loro nuovo tasso ipotecario salirebbe alle stelle.

Ora, questa dinamica limita ulteriormente la disponibilità delle abitazioni e quindi dovrebbe far alzare i prezzi.

Invece no…

La scomparsa dal mercato degli immobili esistenti si sta traducendo in un enorme vantaggio per i costruttori di case che mettono in vendita nuovi immobili.

Il grafico a lungo termine della percentuale delle nuove case su tutte le case unifamiliari disponibili negli Stati Uniti mostra una crescita significativa delle nuove costruzioni: a febbraio 2020 erano il 20,3%, mentre a febbraio 2023 sono al 33,4%:

Questa percentuale di 1/3 di nuove case sul mercato è insolita, perché è più del doppio dei livelli normali.

Per questa ragione, nonostante il mercato complessivamente sia congelato, questa parziale salita dell’offerta di case, nel contesto di una domanda ancora bassa dovuta ai mutui, sta facendo scendere i prezzi:

Nel grafico, la curva rossa indica appunto la discesa dei prezzi, mentre la linea blu indica l’inflazione, con la freccia a destra che mostra di quanto dovrebbe scendere l’inflazione a causa della discesa dei prezzi immobiliari.

Nuovi immobili e nuovi acquisti in borsa: due fenomeni correlati

Esattamente come i costruttori, che continuano a edificare anticipando una domanda di immobili che ancora non c’è, anche gli investitori stanno entrando nei titoli di borsa immobiliari prima ancora che il settore inizi a rimettere in moto le vendite.

Una visione riassuntiva di questo fenomeno ce la fornisce l’Etf iShares Home Construction ETF (ITB), che comprende i maggiori titoli di borsa legati alle aziende di costruzioni:

Il grafico mostra all’estrema destra l’impennata parabolica del titolo ad aprile (curva nera), dovuta proprio a questa insolita dinamica.

Ma è interessante notare che in realtà l’Etf è in salita già dalla fine del 2022. Si tratta dunque di un trend di medio periodo, non di una singola fiammata di entusiasmo.

Infatti le borse, come i costruttori di case, scommettono sulla ripresa della domanda di immobili, che a sua volta può essere innescata solo da rate di mutui piu’ basse.

In sostanza, sia i costruttori che le borse stanno anticipando la discesa dei tassi dei mutui.

Questo gioco d’anticipo si basa sulle seguenti convinzioni:

…prima o poi la Fed invertirà la sua politica monetaria restrittiva

…la massa monetaria in attesa di rientrare sui mercati è ancora enorme

…il mercato immobiliare non è in crisi economica, ma è solo congelato

…il mercato immobiliare si avvantaggia prima e piu’ di altri da una inversione di politica monetaria della Fed

…ed è anche il meglio posizionato in borsa per approfittare del voltafaccia della Fed (nel senso che le quotazioni in borsa sono scese come se il mercato fosse in crisi, mentre in realtà è solo in standby: la classica situazione di basso rischio/alta probabilità di rendimento).

Queste convinzioni potranno o meno essere confermate dai fatti, ma per ora il punto principale è che, in base a tutti questi fenomeni che abbiamo descritto, è evidente che non siamo in una bolla immobiliare pronta a scoppiare. Tutt’altro…

Questo grafico illustra bene la situazione reale:

Come si vede, le vendite di immobili hanno raggiunto a gennaio un livello che coincide con i minimi storici precedenti.

Nei casi del passato, il trend ha raggiunto il minimo quando è sceso a un ritmo annuale di vendite di circa 3,5-4 milioni di immobili. Nel ciclo attuale, abbiamo raggiunto questo minimo a gennaio.

Da allora, abbiamo registrato un forte rimbalzo sulle vendite.

Infatti, come si vede dal grafico, anche se c’è stata una momentanea diminuzione a marzo, le vendite restano su una solida tendenza al rialzo rispetto ai minimi di gennaio.

Storicamente, questo rimbalzo sembra coerente con l’inizio di una nuova ripresa del mercato immobiliare, perché è esattamente ciò che avvenne alla fine della discesa del mercato immobiliare nel 2007/08 e dopo la pandemia.

Riassumendo quindi: negli USA i prezzi sono in discesa, l’offerta è bassa da decenni (in realtà, non si è mai ripresa dalla crisi del 2008) e non c’è alcuna frenesia negli acquisti di immobili, come ci si aspetterebbe in una bolla, ma al contrario abbiamo una timida ripresa delle vendite dopo una lunga e forte discesa.

Perciò, continuo a ribadire che chi si aspetta una crisi del tipo 2008 sta ignorando completamente la situazione e dovrebbe documentarsi, prima di fare delle analisi.

Come investire in questo contesto

Chi volesse investire nel mercato immobiliare USA in questo momento, dovrebbe tenere conto di un’unica cosa: il rischio di avere una lunga fase di lateralità.

Tornando infatti all’esempio del nostro Etf, guardiamo il suo RSI:

Un forte ipercomprato può anticipare una discesa del titolo (e dei titoli immobiliari in generale), anche se non necessariamente in tempi brevi.

Quindi se non si vogliono sopportare lunghe attese con le quotazioni in perdita, tanto vale entrare nei titoli immobiliari quando la discesa sarà già avvenuta.

A parte queste considerazioni di breve termine, il mercato immobiliare è senz’altro uno dei migliori investimenti a lungo termine nel mercato USA.

L’importanza del mercato immobiliare per chi investe in borsa

Tornando al nostro discorso generale, il mercato immobiliare è l’immagine emblematica di tutta l’economia americana. E ora lo è piu’ che mai.

Guardando da vicino le sue dinamiche, ci si rende conto che attualmente le politiche restrittive monetarie della Fed hanno innescato dei trend contraddittori nell’economia che si riflettono fedelmente anche nel mercato immobiliare.

Molti analisti semplicemente non sono abituati a queste insolite dinamiche e le interpretano con il metro del decennio precedente, che era basato su politiche monetarie opposte a quelle attuali.

Ciò che non si comprende viene etichettato come qualcosa di pericoloso, mentre invece è semplicemente diverso.

Infatti, se ci si attiene ai dati, senza lasciarsi influenzare dai media, si comprende che l’economia americana non sta andando in un’unica direzione, ossia quella della recessione in senso classico, ma è come presa da tanti trend diversi che aspettano di emergere dal rumore di fondo e di imporsi come protagonisti di una ripresa economica che proprio il mercato immobiliare indica come una concreta possibilità.

Banche: la fine di un’era

Negli anni ’80 in America esistevano più di 18.000 banche.

Oggi invece le banche sono appena 4.700 e continueranno a ridursi, in media, per i prossimi 37 anni.

Infatti, nonostante la drastica diminuzione, gli Stati Uniti hanno ancora 10 volte più banche rispetto ad altri paesi.

Il Canada, ad esempio, ha solo 35 banche…

La Francia 337…

Il Regno Unito 344…

C’è ancora spazio quindi in America per ulteriori fusioni e consolidamenti tra banche.

E se il ritmo di 117 fusioni in media all’anno proseguirà invariato, abbiamo ancora altri 37 anni prima di scendere a numeri piu’ simili a quelli degli altri paesi, ossia a un intervallo compreso tra 300-500 banche in tutti gli Stati Uniti.

La rete bancaria: un sistema ormai antieconomico

Il motivo principale per cui il sistema bancario tende a semplificarsi, tagliando gli istituti minori e aggregando gli istituti di media entità, è sostanzialmente uno solo: la tradizionale rete di banche che serve il territorio con servizi di credito e movimentazione del denaro è sempre piu’ costosa.

Ultimamente le politiche di inasprimento della banca centrale americana hanno peggiorato la situazione, come mostra questo grafico:

La grande banda rossa a destra mostra l’incredibile aumento di scambi “reverse repo” tra la Federal Reserve e le banche.

Il reverse repo è un servizio con cui la banca può chiedere in prestito alla Federal Reserve dei buoni del tesoro, con la promessa di restituirli a un prezzo maggiore.

I titoli presi in prestito possono aiutare la banca a gestire le proprie riserve di liquidità e soddisfare i requisiti normativi.

Ovviamente, però, per la Fed queste operazioni sono un costo, in quanto, alla data di scadenza del contratto di reverse repo, la banca centrale è obbligata a rimborsare la controparte con il tasso di interesse concordato e l’importo del capitale .

E quel grafico ci fa capire quanto enorme sia stato l’aumento di questo costo nell’ultimo anno.

A questo dobbiamo poi aggiungere il Bank Term Funding Program (BTFP), istituito subito dopo la recente crisi bancaria, con cui la Fed si impegna a soccorrere eventuali buchi di bilancio di una banca comprando dalla banca stessa un certo numero di buoni del tesoro, non a prezzo di mercato (sarebbe una perdita per la banca), ma a prezzo intero.

Perché la Fed ha deciso di sopportare questi costi?

Apparentemente, la Fed sembra volersi accollare questi costi crescenti per salvaguardare la capacità delle banche a fornire prestiti a cittadini e imprese.

La fuga dei correntisti dalle piccole banche verso le grandi banche e i fondi comuni monetari (un femomeno che promette di cronicizzarsi, come abbiamo spiegato qui) ha ridotto la liquidità necessaria a queste banche per concedere prestiti.

Se dunque i prestiti si contraggono, anche l’economia, poco alla volta, scivola verso la recessione.

Quindi avrebbe senso pensare che la Fed voglia preservare le linee di credito verso cittadini e imprese da cui viene creato nuovo denaro con cui far ripartire l’economia.

D’altra parte però la Fed ha appena compiuto il piu’ veloce e aggressivo programma di aumento dei tassi d’interesse e di riduzione dei titoli di stato della sua storia, proprio per lo scopo opposto, ossia quello di rallentare l’economia.

Quindi la Fed sarebbe afflitta da schizofrenia, abbattendo di giorno l’economia e poi risollevandola di notte, come la tela di Penelope?

Oppure va avanti per tentativi, dando un colpo al cerchio e uno alla botte, sperando di mantenere l’economia in un equilibrio precario?

E se invece la banca centrale avesse uno scopo diverso? Un disegno di cui ora scorgiamo solo contorni parziali, ma che diventerà molto piu’ chiaro in seguito?

Il vero scopo della Fed: creare una classe di buoni del tesoro priva di oscillazioni di mercato

Possiamo avvicinarci a capire il vero scopo della Fed osservando il suo nuovo servizio di prestito di buoni del tesoro a beneficio delle banche centrali degli altri paesi.

Con le nuove linee giornaliere di swap in dollari USA, anch’esse istituite dopo la crisi bancaria recente, la Fed ha iniziato a prestare buoni del tesoro – anche in questo caso, al valore nominale, non al prezzo di mercato – alle banche centrali estere, in modo che queste possano ricevere in prestito dollari USA dalle istituzioni finanziarie dei loro paesi in cambio di questi titoli (in pratica, un servizio analogo al reverse repo americano).

Anche se questo servizio è stato finora utilizzato solo una volta, per sostenere il default di Crédit Suisse, la sua semplice esistenza ci fa capire che il suo scopo non è tanto quello di sostenere i default delle banche straniere, ma di evitare che istituzioni finanziarie non statunitensi afflitte da crisi improvvise inizino a vendere in massa titoli del Tesoro statunitensi per realizzare liquidità.

Perché le banche centrali di tutto il mondo dovrebbero distribuire ai loro istituti in difficoltà titoli americani valutati a $ 1.000, anche se valgono solo $ 800? Semplice: per evitare che l’intero castello di carte crolli.

La Federal Reserve e le banche centrali dei paesi “amici” stanno semplicemente rimuovendo il rischio di duration e la crisi di liquidità dai buoni del tesoro USA.

In ultima analisi, ciò che sta facendo la Fed non è altro che una grande campagna di stabilizzazione dei titoli di stato americani.

Infatti, queste nuove linee di credito nazionali ed estere che hanno come collaterale dei buoni del tesoro privi di oscillazioni di mercato non subiscono gli effetti delle politiche monetarie della Fed.

Ma, ancora una volta, siamo di fronte a uno strano dilemma: perché la Fed, da una parte attua delle politiche monetarie, anche molto forti, per ottenere un effetto preciso sull’economia (inflattivo il QE, deflattivo il QT) e poi dall’altro lato crea delle linee di credito per le quali tali effetti sono nulli?

Se queste linee di credito venissero usate non solo dalle banche, ma in tutto il sistema creditizio, renderebbero vani tutti gli sforzi della Fed di creare effetti deflattivi o inflattivi con le sue politiche; in pratica, renderebbero inutile la Fed stessa…

Quindi tali linee di credito sono destinate ad essere usate solo in casi particolari all’interno di una cerchia ristretta di operatori?

Oppure c’è ancora dell’altro che non sappiamo?…

FedNow ha forse qualcosa a che fare con tutto questo?

Coloro che fanno parte della rete FedNow (all’inizio saranno soprattutto le banche) potranno inviare/ricevere denaro in pochi secondi con regolamento quasi istantaneo.

E’ tutto qui il nuovo servizio di pagamento che la Fed intende lanciare tra giugno e luglio.

Da un certo punto di vista, FedNow sembra fatto apposta per rendere ancora piu’ efficiente il controllo della Fed sui default bancari che lei stessa ha innescato con le sue politiche monetarie.

I pagamenti istantanei potrebbero infatti permettere massicce iniezioni di liquidità in tempo reale da parte della Fed.

Con FedNow, i due strumenti che la Fed ha già messo in campo per il salvataggio delle banche (il poco usato Discount Window e il già citato Bank Term Funding Program) potrebbero essere attuati molto piu’ velocemente, annullando in tempo reale gli effetti distruttivi di qualsiasi bank run, non importa di quali dimensioni.

FedNow potrebbe però essere usato anche per un altro scopo.

Lo scopo “segreto” di FedNow

Prima di vedere di cosa si tratta, stabiliamo una cosa.

FedNow NON è un CBDC (un dollaro digitale).

Non stiamo parlando di uno strumento che permette di effettuare pagamenti o transazioni di dollari digitali.

FedNow è semplicemente una piattaforma con cui è possibile comprare e vendere buoni del tesoro dalla Fed; punto e basta.

Questa piattaforma però, se condivisa con un numero sufficiente di operatori, istituti e società, potrebbe essere utilizzata per effettuare una “promozione” capillare dei buoni del tesoro, al fine di trasformare questi ultimi in asset da investimento in competizione con altri piu’ famosi, come le borse, l’oro o le cripto.

Gli sforzi per rendere piu’ stabili i prezzi e dunque i rendimenti dei buoni del tesoro potrebbero quindi essere per la Fed il prerequisito essenziale per rendere appetibile questa nuova classe di titoli da investimento.

La predilezione che oggi gli investitori sembrano avere per i buoni del tesoro (a causa dei buoni rendimenti, superiori a qualsiasi deposito bancario) e che sta spingendo sempre piu’ capitali fuori dalle banche, potrebbe diventare permanente, se si riuscisse a creare una classe separata di questi titoli che sia al riparo dalle fluttuazioni di mercato – una specie di stablecoin della Fed, insomma…-

E’ forse questo l’obiettivo inconfessato della Fed?

Non possiamo dirlo con certezza. Ma una cosa è certa: un titolo garantito dalla Fed con un prezzo e un rendimento fisso (o almeno oscillante in un range accettabile) sarebbe il collaterale perfetto per il CBDC, il dollaro digitale di cui tanto si parla, ma che ancora non riesce a vedere la luce.

In pratica, anche senza avere un “gold standard”, questo CBDC avrebbe un collaterale altrettanto forte e stabile, cioè i buoni del tesoro in versione “stablecoin” della Fed.

Ogni utopia, per realizzarsi ha bisogno di condizioni molto difficili da ottenere (altrimenti, non sarebbe un’utopia…)

Tutto questo può sembrare affascinante o inquietante, ma dobbiamo anche restare coi piedi per terra e capire che per realizzare questa utopia, ossia un CBDC con un “gold standard” di titoli di stato, dovrebbero esserci delle condizioni molto difficili da mantenere:

– i tassi d’interesse dovrebbero restare abbastanza alti per sempre

– dovrebbe esserci un controllo capillare nella diffusione dei titoli di stato americani (questi titoli dovrebbero essere disponibili solo per i paesi alleati e invece preclusi alle banche centrali di tutti gli altri paesi)

– le iniziative militari dovrebbero essere intensificate all’inverosimile, per evitare che il dollaro diventi una valuta totalmente screditata a livello internazionale

– le banche commerciali dovrebbero sparire, mentre le sole grandi banche sistemiche avrebbero il controllo di queste.

Tuttavia, siamo realmente alla fine di un’era…

Il tasso di sparizione delle banche regionali e il ritmo dei consolidamenti delle banche medie in grandi gruppi, cosi’ come il cronico abbandono dei servizi finanziari erogati dalle banche non sono qualcosa di occasionale, al contrario, compongono un trend strutturale che sta subendo una accelerazione grazie alle politiche della Fed.

Non c’è dubbio che siamo di fronte a una fase di transizione verso un sistema in cui le banche non avranno piu’ la stessa funzione di ora.

Non c’è dubbio che, in questo sistema del futuro, altri protagonisti sono destinati ad assumere le funzioni che finora erano state appannaggio delle banche.

Tanto per aprire la mente, basta guardare questo grafico:

Come si vede, negli ultimi 14 anni, mentre il sistema con al centro le banche è entrato in crisi, gli indirizzi di bitcoin sono aumentati costantemente, a dispetto dei cicli di rialzo e ribasso di questa valuta. Ciò indica una costante e inarrestabile adozione che presto diventerà un fenomeno di massa.

Le criptovalute e FedNow. Chi vincerà?

Tuttavia, anche qui dobbiamo stare coi piedi per terra e ammettere che, per quanti sforzi siano stati fatti dal lato tecnico nel mondo delle criptovalute, al momento questa classe di asset ha un solo grande vantaggio, rispetto a un CBDC (anche nella versione “ipercollateralizzata” che abbiamo ipotizzato), ed è la sua incredibile capacità di moltiplicare il suo valore per mille volte.

Per tutti gli altri usi, le cirpto non sono affatto competitive…

Al momento, i servizi blockchain che mimano i servizi finanziari tradizionali non sono ancora in grado di guadagnare il favore delle masse, anche se gli ultimi default bancari ne hanno fatto aumentare di molto l’adozione.

Persino come valuta di scambio, la piu’ veloce e scalabile fra le criptovalute è un pachiderma al confronto della piattaforma FedNow (che oltretutto non usa la blockchain).

La decentralizzazione riduce la velocità e la scalabilità (e anche la convenienza economica) delle transazioni. Questa è una “legge di natura” per la blockchain. Per questo non ci sarà mai una cripto capace di competere con il massimo della centralizzazione, cioè con FedNow. E se un giorno vi fosse, non sarebbe davvero una cripto, ma una sua imitazione.

Ecco quindi che per immaginare il futuro in modo realistico, per quanto possibile, dobbiamo abbandonare le nostre “fedi”, i dogmi, i pregiudizi e tutto ciò che ci impedisce di accogliere nella nostra ipotesi anche gli elementi che ci piacciono di meno, ma che hanno delle potenzialità pari o superiori ai nostri “oggetti di culto” preferiti.

Se la Fed fosse in grado di creare un asset da investimento in grado di dare un rendimento stabile tra il 4% e il 6%, facile da usare, agile e interscambiabile a velocità supersonica nella piattaforma FedNow, sarebbe in grado di insidiare le cripto nel loro regno finora incontrastato: quello del rendimento, appunto.

E’ vero infatti che il rendimento delle cripto è migliaia di volte superiore.

Ma è anche vero che le masse non conoscono la semplice ciclicità di questa classe di asset e pensano che investire in criptovalute comporti prima o poi la perdita di tutto il proprio patrimonio (anche se chi investe in cripto ha avuto il beneficio opposto: il patrimonio se l’è creato. E in pochissimi anni).

La maggior parte delle persone ritiene ancora accettabile e persino desiderabile un rendimento tra il 4% e il 6% che non implichi patemi d’animo e non richieda particolari conoscenze tecniche o cicliche.

Per questo ritengo che FedNow, se dovessere essere usato in competizione con le cripto, sarebbe un avversario formidabile…

In conclusione…le banche, il CBDC, i buoni del tesoro, FedNow, le cripto, le DeFi e la valuta fiat non si elimineranno a vicenda (almeno, non subito), ma procederanno per molto tempo fianco a fianco in una competizione senza esclusione di colpi.

Recessione o “soft landing”: su cosa scommettono le borse USA?

In un post del 3 aprile sul nostro canale Telegram ci eravamo chiesti come mai lo S&P500 ha una situazione tecnica molto favorevole (sia nel breve che nel lungo periodo) nonostante tutti gli indicatori di recessione stiano segnalando un “allarme rosso”.

Da un certo punto di vista, la situazione tecnica ottimale delle borse potrebbe essere la rappresentazione delle aspettative positive degli analisti sugli utili e sulla crescita economica. Aspettative che sembrano non tenere conto dei pericoli di recessione.

La tesi del “soft landing”

Molti analisti prevedono che la crescita del PIL americano, anche se al di sotto del trend, sarà accompagnata da un aumento di appena 1/2 punto del tasso di disoccupazione al 4,1% e che quindi l’economia statunitense eviterà la recessione nel 2023.

Ma se non ci sarà “nessuna recessione nel 2023”, allora il calo degli utili aziendali e dei margini di profitto che è avvenuto in questi mesi dovrebbe aver raggiunto il punto di minimo. E di conseguenza, i titoli di borsa sarebbero valutati equamente ai livelli attuali, supportando la possibilità del ritorno del trend rialzista.

Un esempio di questa opinione è questo grafico di S&P Global, pubblicato a metà marzo, nel quale si prevede che gli utili delle aziende abbiano toccato il minimo nel primo trimestre 2023 e debbano tornare a salire fino al picco raggiunto a gennaio 2022:

Ma se le previsioni sugli utili degli analisti sono corrette, allora il mercato dovrebbe salire anche oltre, verso il picco raggiunto nel 2021:

La tesi della recessione imminente

Secondo i sostenitori della prossima recessione invece, l’inasprimento monetario della Fed non ha ancora mostrato pienamente i suoi effetti e forse prenderà piede entro la fine dell’anno, sorprendendo i fautori del “soft landing”.

Alcuni importanti indicatori di recessione sembrano confermare questa ipotesi.

Inversione delle curve dei rendimenti

Attualmente, il 100% degli spread tra i rendimenti dei buoni del tesoro a varie scadenze di breve termine contro il rendimento a 10 anni sono invertiti. Storicamente, una recessione avviene ogni volta che più del 50% di questi spread si invertono:

Rialzo delle curve dei rendimenti

Mentre le inversioni della curva dei rendimenti anticipano una recessione, è il successivo rialzo delle curve che indica l’imminenza della recessione.

Non tutte le curve dei rendimenti si muovono all’unisono. Attualmente solo la curva 3m30y (rendimento dei buoni del tesoro a 3 mesi contro quello a 30 anni) si è rialzata. Nelle precedenti recessioni in effetti questa curva ha iniziato ad aumentare molto prima della maggior parte delle altre.

LEI

Il Leading Economic Index (LEI), in particolare la sua variante semestrale, in passato ha anticipato sempre imminenti recessioni:

Credit Crunch

L’aumento degli standard di prestito più severi è stato un indicatore storicamente affidabile delle recessioni:

EOCI

L’Economic Output Composite Index (EOCI), che comprende più di 100 voci di dati sulla produzione e sui servizi, è a livelli che hanno coinciso in precedenza con le recessioni. Nonostante misuri l’economia in modo diverso, l’EOCI mantiene un’elevata correlazione con il LEI:

Altri fattori discontinui

La situazione è di difficile interpretazione, perché se gli analisti del “soft landing”, per i quali non vi sarà recessione nel 2023, avessero ragione, vorrebbe dire che questi indicatori di recessione si stanno sbagliando per la prima volta dal 1974.

Ma ci sono anche fattori che possono determinare un esito misto.

Vediamo alcuni esempi.

Il fattore antirecessione di breve termine della Fed

Per i consumatori che (come detto qui) stanno investendo migliaia di miliardi di dollari in fondi del mercato monetario e buoni del tesoro e che, grazie ai rialzi dei tassi della Fed, iniziano a vedere da questi strumenti un vero flusso di rendimenti per la prima volta in 14 anni, potrebbe iniziare una nuova stagione di spese voluttuarie.

La possibile ripresa dei consumi potrebbe annullare (o ritardare) gli effetti recessivi (mai ammessi dalla Fed) delle politiche monetarie restritive sull’economia americana.

Un aiutino per Powell dall’OPEC

Inizio a chiedermi quanto della conflittualità economica tra gli USA e i BRICS, piu’ Arabia Saudita, piu’ Iran e cosi’ via, sia reale e quanto sia un gioco delle parti…

Sta di fatto che la recente decisione a sorpresa dell’OPEC di ridurre la produzione di petrolio arriva giusto in tempo per innescare una simil-inflazione di breve.

Se davvero i dati iniziassero a mostrare un apparente ritorno dell’inflazione (o simil-inflazione), la Fed potrebbe sentirsi autorizzata a proseguire con i rialzi dei tassi.

Al contrario, se il rischio dei default bancari si ripresentasse e/o i dati sull’inflazione mostrassero segnali di disinflazione troppo evidenti per poter essere negati, la Fed potrebbe prendersi una pausa dal rialzo dei tassi e sarebbe costretta a immettere liquidità a salvataggio delle banche.

Queste immissioni di liquidità sarebbero sostegni discontinui, di cui è difficile prevedere ora la capacità di attivare o meno fenomeni di crescita economica o di incrementi delle borse.

La verità sta nel mezzo?

A mio modo di vedere, uno dei limiti che ci impediscono di capire se siamo diretti o meno verso una recessione è il fatto che oggi l’economia americana viene vista ancora come un’entità monolitica, mentre è evidente che si sta frammentando in aree e settori perdenti e vincenti.

Un chiaro esempio di questo è ancora una volta il settore immobiliare.

La crisi immobiliare che sta trascinando giu’ le banche regionali riguarda un solo settore, quello degli immobili commerciali.

Al contrario, il settore residenziale mostra segni di resilienza, se non proprio di lenta ripresa.

Ancora piu’ drammatica è la polarizzazione di questo mercato riguardo alle zone:

La tabella sopra ad esempio mostra i flussi in entrata di inquilini e proprietari nelle aree vincenti (perlopiu’ a ovest e a sud del paese) determinati da un vero e proprio esodo (o Grande Migrazione, come viene chiamata) in uscita dalle aree perdenti (New York, California, Chicago, Seattle).

E’ ovvio che i fondi di investimento che coprivano solo le aree perdenti siano in perdita. Ma cio’ non vuol dire che il settore sia in crisi, in quanto gli stessi identici flussi che ora mandano in default le aree perdenti, stanno beneficiando in modo altrettanto forte le aree vincenti.

L’unica conclusione possibile: investire con un orizzonte di medio termine

Siamo a un punto di svolta in molti settori dell’economia americana ed è probabile che alcuni indicatori non siano tarati per analizzare in dettaglio le differenze all’interno di ciascun settore e mostrino perciò un’immagine falsata dei trend.

Inoltre, anche la borsa è estremamente diversificata e comprende settori, come quelli tecnologici, che possono avvantaggiarsi anche in una situazione recessiva, purché vi sia il sostegno monetario da parte della Fed.

Personalmente non mi azzarderei a fare previsioni di lungo termine, riguardo alla possibilità di una recessione.

Piuttosto, cercherei di seguire i trend che via via emergono nelle borse, cercando di cavalcarli in un’ottica di medio termine.

Non per niente, i trend rialzisti che sembrano prendere forza ora sono certamente determinati dalle previsioni positive di crescita di alcuni settori, come quello tecnologico, che si avvantaggiano proprio in uno scenario intermedio fatto di:

  • crescita moderata o recessione moderata
  • niente QE, ma immissioni di liquidità discontinue della Fed a salvataggio di banche o altri settori.

Il motivo per cui ora il Nasdaq è cosi’ vincente è forse proprio questo: si tratta di una scommessa di medio termine che non prende una posizione netta sulle direzioni a lungo termine dell’economia.

Ecco il secondo bank run che farà salire le borse USA

Il 30 marzo avevamo pubblicato sul nostro canale Telegram un post in cui commentavamo il fatto che, dopo i primi bank run avvenuti in America a seguito dei fallimenti bancari, il rendimento dei buoni del tesoro americano a 10 anni era crollato dal 4,07% al 3,37%, mentre il rendimento di quelli a due anni era crollato dal 5,06% al 3,76%.

Queste rapidi diminuzioni dei rendimenti si spiegavano facilmente col fatto che i correntisti, dopo aver tolto i soldi dai loro conti bancari, li avevano spostati sui buoni del tesoro o sui fondi monetari che investono in essi.

In tal modo, un aumento della domanda aveva incrementato i prezzi di questi titoli, facendone diminuire il rendimento, che è sempre inverso al prezzo.

Tuttavia nel post notavamo che, dopo questo brusco calo, i rendimenti erano di nuovo aumentati (moderatamente) verso la fine di marzo. Infatti, nel momento in cui scrivevamo il post, il rendimento a 10 anni era salito al 3,59% e quello a due anni era al 4,10%.

In una nota riservata ai clienti della Barclays, Joseph Abate, uno dei maggiori esperti del sistema bancario, ha fornito una spiegazione di questa momentanea risalita dei rendimenti.

Secondo Abate infatti in tutte le restrizioni monetarie effettuate dalla banca centrale americana nel 1984, 1995, 2004 e 2015, i bank run hanno sempre avuto due fasi distinte:

1. Una fase acuta in cui i correntisti corrono a svuotare i depositi a seguito di qualche default bancario

2. E una fase “cronica”, in cui i correntisti, anche senza la spinta dei default bancari, iniziano a spostare ugualmente i propri risparmi nei fondi monetari o nei buoni del tesoro a breve termine, perché questi ultimi offrono rendimenti maggiori di quelli elargiti dai depositi delle banche.

Anche se il gap di rendimento tra i depositi bancari e il mercato monetario esisteva già nel corso della fase 1, la fase 2 avviene sempre in ritardo, in quanto esiste una soglia di “disattenzione” al di sotto della quale gli investitori non danno importanza a questa differenza dei rendimenti delle loro disponibilità liquide in banche o fondi monetari.

Sulla base dei cicli passati, possiamo notare che solo quando lo spread tra i tassi di deposito e quelli del mercato monetario si avvicina a 200 punti base, il denaro inizia a muoversi verso i fondi monetari e i buoni del tesoro a un ritmo sempre più veloce, con grande angoscia esistenziale delle banche più piccole che non possono eguagliare i tassi del mercato monetario.

Questi flussi “ritardati”, una volta iniziati, acquistano rapidamente slancio, portando rapidi aumenti nei saldi dei fondi monetari del valore di diverse centinaia di miliardi di dollari.

Abate conclude la nota dicendo che nel ciclo restrittivo attuale: “la soglia di disattenzione è stata raggiunta ed è già iniziata la seconda ondata di deflussi di depositi.”

Per tale ragione, la ripresa di acquisti di questi titoli ne farà nuovamente incrementare il prezzo, con conseguente nuova discesa dei rendimenti.

Grazie quindi a questo “bank run cronico” di medio lungo periodo, il trend in discesa dei rendimenti dei buoni del tesoro, iniziato nella “fase acuta”, avrà un nuovo slancio e confermerà i segnali dell’analisi tecnica, da noi spesso commentati su Telegram, che mostravano già la probabilità che questo trend sarebbe stato appunto di medio-lungo termine.

Nel corso di questo bank run cronico, molto piu’ lungo del bank run “acuto”, la Fed forse dovrà fornire ulteriore liquidità nei suoi programmi di salvataggio, per proteggere i correntisti delle banche regionali americane, che certamente inizieranno a soffrire nuovamente.

Questa è una delle ragioni per cui il trend delle borse azionarie è sempre inverso a quello dei rendimenti dei buoni del tesoro.

Man mano che i rendimenti dei titoli di stato scendono e la Fed immette nuova liquidità nel mercato, il rialzo del mercato azionario (soprattutto nel Nasdaq e nello S&P500) riprende il suo ciclo di medio termine.

Ma anche nel lungo termine il mercato azionario avrà una spinta in piu’, in quanto il ciclo dei buoni del tesoro a un certo punto inizia a “mordersi la coda”: man mano infatti che gli investitori entrano in questi titoli, ne fanno scendere i rendimenti fino al punto da renderli meno attraenti rispetto ai rendimenti offerti dai i titoli azionari ad alta crescita.

La fase in cui gli investitori sono attratti dai buoni del tesoro è quindi sempre di corto respiro, perché è soggetta a una sorta di auto-riduzione programmata, dovuta all’impossibilità di mantenere alti i rendimenti di fronte a un aumento dei flussi di capitale in questi titoli.

Al contrario il mercato azionario per definizione incrementa i rendimenti proprio grazie all’aumento dei flussi di capitali.

Il vero incubo della SEC si manifesterà il 12 aprile…

C’è un enorme catalizzatore all’orizzonte per Ethereum. E potrebbe iniziare entro il 12 aprile.

L’aggiornamento di Ethereum chiamato “Shanghai” ha il potenziale di sbloccare un’opportunità di guadagno di $ 40 miliardi per i possessori del token eth.

Tutto ha a che fare con lo “staking” di eth.

Lo staking è un modo per guadagnare interessi per il possesso di criptovalute.

Da dicembre 2020, chi voleva partecipare al mining della nuova versione di Ethereum basata sulla “proof of stake”, poteva già depositare una quantità minima di token che avrebbero iniziato a generare rendimenti, una volta che la proof of stake sarebbe iniziata.

Questi token depositati, però, non si potevano prelevare… fino al 12 aprile di quest’anno.

L’aggiornamento di Shanghai consentirà appunto agli staker di Ethereum di ritirare i propri token quando lo desiderano.

Un deposito che rende dal 4% al 10% e che può essere svincolato quando si vuole, non si è mai visto nel mondo finanziario; per questo incoraggerà molti indecisi a partecipare e aprirà forse le porte anche ai capitali istituzionali.

In questo momento, ci sono circa 16 milioni di ETH in staking che rendono circa il 4-6%.

Attualmente, nel bel mezzo di un mercato laterale – ribassista, con l’attività di rete estremamente bassa, le rendite totali pagate agli stakers ammontano a circa $ 1 miliardo.

Durante i periodi di alta attività di rete, come abbiamo visto nei giorni successivi al crollo dell’exchange FTX, questo rendimento è salito a oltre il 10%.

Quando riprenderà il mercato rialzista, possiamo aspettarci che l’attività della rete esploda.

Se l’attività raggiungerà la stessa intensità del periodo 2020-2021, avremmo diversi scenari possibili, in base al prezzo che ETH raggiungerà in quella fase.

Se ad esempio Ethereum rimanesse per assurdo a $ 1.800 (è ovvio che con un bull market simile al 2021, il prezzo sarebbe molto piu’ alto), ciò si tradurrebbe in circa 1,6 milioni di ETH pagati annualmente agli staker, pari a $ 2,8 miliardi.

Se invece Ethereum arrivasse a, diciamo, $ 25.000, potremmo vedere circa 40 miliardi di dollari all’anno pagati agli staker di Ethereum.

Lo staking di ETH quindi si trasformerebbe in uno dei fenomeni finanziari piu’ rilevanti degli ultimi anni.

Per questo, da quando l’ultima ondata di crisi bancaria americana ha messo in cattiva luce la finanza tradizionale, si percepisce un inasprimento delle istituzioni, come la SEC, legate alle banche centrali e alle banche sistemiche nei loro sforzi di ostacolare la ripresa di fiducia nelle cripto da parte degli investitori.

Di tutti gli strumenti mai offerti dal mondo cripto per avere rendite sicure lontane dalla finanza tradizionale, lo staking di Ethereum sarà di gran lunga quello che offrirà maggiori attrattive, per le sue dimensioni e per l’affidabilità che l’ecosistema Ethereum è ormai in grado di offrire.

Per questo Gensler, il capo della SEC, ha messo le mani avanti dichiarando ETH come una “security” (titolo di borsa), indicandolo implicitamente come il suo prossimo obiettivo, una volta che questo fatto epocale dello staking inizierà a prendere piede.

Tuttavia, come giustamente osserva questo articolo, l’approccio della SEC non può essere che frammentario.

La SEC non è un organo legislativo, quindi non ha il potere di cambiare le carte in tavola con un singolo provvedimento, come fa il legislatore.

La SEC puo’ solo attaccare un pò qui e un pò là, moltiplicando i contenziosi che però, per loro natura, restano confinati ai casi specifici.

Prevedo che la portata dello staking di Ethereum sarà talmente universale da rendere difficile poterla contrastare con questo approccio, caso per caso.

E’ al contrario probabile che questo evento mostrerà tutta la debolezza di Gensler.

Se l’affermazione dello staking di ETH diventasse un fenomeno inarrestabile, impossibile da fermare nonostante gli sforzi di Gensler, esso sarebbe il muro contro cui la corsa della SEC è destinata a schiantarsi.

Inoltre, dal punto di vista ciclico, questo evento potrebbe eguagliare gli effetti dell’ormai noto “halving” di Bitcoin.

Una diffusione capillare di ETH messi in staking potrebbe avere la forza di creare un suo proprio effetto ciclico, in sovrapposizione con quello di BTC.

Lo staking di ETH potrebbe diventare anche uno degli oggetti del desiderio degli istituti bancari che riusciranno a prevalere nella resa dei conti che oggi hanno ingaggiato in America (e che noi chiamiamo un pò troppo genericamente “crisi bancaria”).

La natura ambivalente di minaccia di opportunità che le cripto hanno sempre rappresentato per le banche, con lo staking di ETH raggiungerà la sua forma finale che forse innescherà un conflitto lacerante tra questi istituti.

Tutto questo, a partire dal 12 aprile, data di inizio di questo fenomeno epocale.

Ne vedremo delle belle…

L’imbroglio della garanzia sui depositi bancari USA

Il Financial Times in questo articolo ci fa sapere che è in atto “il più grande trasferimento di depositi dell’ultimo decennio”.

Infatti, dice l’articolo: “I clienti delle banche medie e piccole, soprattutto se hanno depositi che superano la soglia di $ 250.000 garantita dall’assicurazione federale, stanno spostando i loro fondi in istituti più grandi, come JPMorgan, Citi e Bank of America”.

In un nostro recente articolo avevamo colto questo aspetto, secondo noi centrale, della odierna crisi bancaria americana; cioè il fatto che con essa non viene messo in discussione tutto il sistema (come avvenne nella crisi del 2008).

Al contrario, questa crisi, molto particolare e ancora poco compresa dai media, non è che l’affermazione cruenta di un monopolio delle grandi banche sistemiche a danno delle banche commerciali che assicurano servizi essenziali alla società.

Col passare dei giorni, nuovi aspetti sembrano confermare questa lettura della crisi.

Come, ad esempio, lo scontro politico che oggi si svolge in America sulle garanzie federali sui depositi.

Attualmente, in caso di default di una banca, la FDIC garantisce i depositi fino a una cifra di 250.000.

Quindi, per tamponare l’esodo di correntisti dalle banche commerciali americane, la Mid-Size Bank Coalition of America sta spingendo le autorità di regolamentazione a estendere per due anni l’assicurazione della FDIC oltre quella cifra.

Altri politici e vari gruppi di pressione stanno chiedendo al governo di dare priorità a questa urgente misura.

Tuttavia proprio ieri, testimoniando davanti al Senato, Janet Yellen, presidente del Tesoro americano, alla domanda se i suoi funzionari stanno appunto studiando modi per espandere la copertura FDIC a tutti i depositi bancari, ha risposto testualmente:

“Non è qualcosa che stiamo prendendo in considerazione”.

Questa posizione intransigente viene comunemente giustificata dai media sostenendo che, se si aumentasse oltre i 250.000 dollari l’ammontare dei depositi garantito dallo stato, si abbasserebbe la soglia di vigilanza delle banche. 

Le banche cioè si sentirebbero autorizzate a fare operazioni spericolate, come ad esempio concedere prestiti a chi non fornisce abbastanza garanzie di restituzione del debito, perché tanto c’è lo stato a coprire eventuali perdite.

Questo argomento è purtroppo molto giusto. Effettivamente le banche in questi anni sono state di manica troppo larga e ora si ritrovano spesso con troppi crediti deteriorati.

Ma è anche vero che, in questo frangente, la rigidità del governo su questo aspetto aumenta il rischio di default delle banche commerciali medio-piccole americane.

Non credo che aumentare per due anni la soglia di garanzia dei depositi possa fare piu’ danni di quanti ne siano stati fatti in decenni di mancata vigilanza dello stato sulla qualità dei crediti che venivano concessi dalle banche.

Inoltre, le banche eventualmente oggetto di questa misura sarebbero proprio quelle piu’ sane, molto meno propense a concendere crediti rischiosi, rispetto alle grandi banche sistemiche, che al contrario sono note per avere pochi scrupoli in questo senso, soprattutto se devono favorire gruppi politici, multinazionali o governi stranieri.

Se poi consideriamo il valore della soglia attuale di garanzia, i famosi 250.000 dollari, alla luce della perdita di potere d’acquisto del dollaro negli anni, la rigidità della Yellen è ancora meno giustificata.

Vediamo perché…

Il governo creo’ la Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC) nel 1933 sulla scia del crollo del mercato azionario del 1929 e dei successivi primi anni della Grande Depressione.

L’importo iniziale del deposito protetto dalla FDIC era di $ 2.500.

La dimensione dell’assicurazione sui depositi è aumentata nel corso dei decenni, adeguandosi alla perdita di valore del dollaro, raggiungendo ad esempio la soglia di $ 100.000 nel 1980.

L’importo attuale, pari a $ 250.000, fu deciso, come si puo’ immaginare, sulla scia del crollo del 2008/2009.

Ora, come termine di paragone, pensiamo che quando il Tesoro americano salvo’ le banche nel 1980, il valore della soglia di garanzia di allora, pari a 100.000 dollari, riportato al valore attuale del dollaro, corrisponderebbe a circa 365.097 dollari!!

Se volessimo adeguare la soglia di garanzia alla perdita di valore del dollaro occorsa dal 2008 a oggi, i 250.000 dollari attuali dovrebbero diventare almeno 400.000!

Siamo tuttavia consapevoli che questi calcoli hanno un valore puramente accademico e che la vera posta in gioco oggi è la competizione che la politica federale di incremento dei tassi ha innescato tra le banche americane.

Non possiamo fare altro che stare a guardare e aspettare di capire quali saranno gli istituti bancari superstiti alla fine di questo gioco al massacro.

Il default Crédit Suisse: un delitto in pieno giorno

Nel panico creato dai default bancari di questi giorni, si tende ad accomunare il crack di Crédit Suisse e quello delle banche americane in una stessa narrativa, ossia quella di una possibile riedizione della grande crisi finanziaria del 2008.

Se pero’ ci si ferma a riflettere, risulta evidente che i default americani e quello svizzero sono del tutto diversi.

Ad esempio:

US: Gli istituti di credito americani falliti, o fatti fallire, sono di medie dimensioni e appartengono alla categoria delle banche commerciali.

CH: Crédit Suisse è invece una grande banca sistemica globale.

US: Il fattore principale che ha permesso i default americani è stata la crisi dei buoni del tesoro USA, innescata dai rialzi dei tassi della Federal Reserve.

CH: Crédit Suisse non aveva una particolare esposizione a questa classe di titoli.

US: I bank run che hanno fatto precipitare le cose sono avvenuti nell’arco di pochi giorni e sono stati in buona parte pilotati dall’esterno con la complicità di banche rivali (come spiegato qui).

CH: I bank run in Crédit Suisse erano già in corso da settimane e sono tuttora “misteriosi”, nel senso che nessuno ne ha mai fatto una analisi specifica.

Ma al di là di queste differenze puntuali, anche il principio di fondo su cui si basa questa lettura superficiale dei fatti non è sostenibile dal punto di vista logico

Spiego meglio…

La “crisi di fiducia” nel sistema bancario è davvero un problema anche svizzero?

E’ opinione comunemente accettata che il quadro generale in cui stanno avvenendo questi default bancari si basi sui seguenti fattori:

1 crisi di fiducia in un sistema bancario dominato dal sistema fiat (denaro come credito)

2 crisi di fiducia nella gestione della liquidità delle banche centrali,

Ma cosa c’entra la Svizzera in tutto questo?

Perché dei bank run sarebbero dovuti avvenire proprio in uno dei pochi paesi occidentali in cui i due fattori sopra citati hanno sempre avuto un impatto minimo sul suo sistema finanziario?

Infatti, guarda questi due grafici di seguito…

In un arco di tempo pluriennale, il franco svizzero funziona ancora come un’ottima riserva di valore nei confronti del dollaro e dell’euro.

Dopo l’oro e bitcoin, il franco è la terza riserva di valore piu’ usata, ed è anche molto meno volatile delle prime due.

I due grafici qui sopra non sarebbero possibili se vi fosse una crisi di fiducia nel franco e nella banca centrale svizzera.

Guardando poi la parte piu’ recente dei due grafici, vediamo che il franco negli ultimi mesi, si è apprezzato sia sul dollaro che sull’euro. E questo vuol dire una cosa sola: in questi mesi c’è stato un afflusso di capitali in Svizzera; altro che bank run..!

Ma allora, cosa ha provocato l’uscita di capitali fuori da Crédit Suisse? Perché è di questo che dobbiamo parlare, se vogliamo capire la ragione del default di questa grande banca. Il “punto cieco” della crisi bancaria svizzera è sempre quello che abbiamo detto all’inizio: i bank run.

Nessuno si è mai preoccupato di analizzare le ragioni del bank run di Crédit Suisse. Come se in questo periodo i bank run fossero un fenomeno naturale, che puo’ succedere ovunque, tipo la pioggia in autunno o la neve in inverno.

Al contrario, l’uscita di capitali da questa banca è dovuta a una causa ben precisa, completamente differente da quella che ha provocato i bank run in America.

Per capire di cosa si tratta, arriviamoci per gradi…

Parliamo anzitutto delle riserve straniere depositate nelle banche svizzere.

La Svizzera come rifugio dei capitali cinesi

La Svizzera è ancora il centro numero uno per la raccolta di capitali provenienti da tutto il mondo ed è responsabile di un quarto del totale globale dei capitali offshore.

Qui pero’ ci focalizziamo su uno specifico paese di provenienza di questi capitali: la Cina.

Pochi sanno che la borsa svizzera sta quotando un numero crescente di società cinesi che non vogliono piu’ sottostare alle “regole di ingaggio” della borsa americana.

Pochi sanno che questo non è un fenomeno passeggero, ma un processo di integrazione a lungo termine che ha implicato la determinazione di uno standard comune di auditing e supervisione da parte dei regolatori svizzeri e cinesi, con cui i capitali delle società possono essere riconosciuti e fatti transitare tra le borse di entrambi i paesi.

La Svizzera è uno dei pochi paesi occidentali che sta incamerando a piene mani capitali cinesi, e continua a farlo anche nel clima di diffidenza tra oriente e occidente instauratosi tra il 2022 e il 2023.

Ma a quanto ammontano i capitali cinesi depositati nelle banche svizzere?

E’ uno dei misteri di questo secolo su cui pochi media, come il Financial Times, hanno tentato di fare luce.

In questo articolo, il FT dice cose davvero interessanti, come ad esempio:

  • I beni russi domiciliati in Svizzera ammontano a un valore di 46,1 miliardi di franchi
  • Nell’ultimo decennio, tuttavia, la Cina è diventata una fonte di entrate molto più importante della Russia.
  • Possiamo dunque indovinare che i beni cinesi in Svizzera superino i 50, forse i 100 miliardi di franchi… o forse sono molto di piu’, se consideriamo il punto seguente…
  • Infatti, secondo Anke Reingen, analista della RBC Royal Bank intervistata dal FT, la Cina è ormai al centro della redditività delle maggiori banche svizzere, al punto che (cito): “Se guardi ai prezzi delle banche svizzere in borsa, ti accorgi che sono strettamente correlati agli indici asiatici, perché una parte ampia degli utili di queste banche proviene da quella regione”.

Quindi, da tutto questo e dal paragrafo precedente possiamo desumere che

…se vi è una crisi di fiducia nel sistema finanziario occidentale, la Svizzera viene vista dal continente piu’ popoloso al mondo: l’Asia, come una fortunata eccezione, anzi come un’opportunità in questa crisi, non come parte del problema. Non ti pare?

Ora, stablito questo concetto di base, passiamo al lato meno piacevole dell’articolo…

…se infatti lo abbiamo intitolato: “un delitto in pieno giorno”, dobbiamo a un certo punto spiegare di quale delitto parliamo…

La Svizzera presa al laccio delle sanzioni

Le notizie che riporto qui di seguito sono ormai note a tutti.

Le riassumo solo per mettere tutti i lettori sullo stesso binario…

Sappiamo tutti che l’ambasciatore Usa a Berna, Scott Miller, si è detto poco soddisfatto della Segreteria di Stato dell’economia svizzera, deputata a sorvegliare l’applicazione delle sanzioni alla Russia e si è anche irritato per alcuni commenti della direttrice Helene Budliger Artieda, che “rimettono in discussione l’utilità delle sanzioni”.

Secondo Miller, a fronte dei 7,75 miliardi di franchi di beni russi congelati in Svizzera, ci sono altri 50-100 miliardi che non sono stati congelati.

L’ambasciatore Usa a Berna ha inoltre esortato la Confederazione elvetica a prendere parte alla task force “Russian Elites, Proxies and Oligarchs” e a partecipare alla discussione su come confiscare questi fondi nel quadro del diritto internazionale e nazionale degli Stati.

La Svizzera non ha mostrato finora alcuna disponibilità in tal senso. E per l’ambasciatore Usa (questo passo è molto importante), i paesi che non si impegnano nella confisca dei fondi russi devono aspettarsi delle conseguenze.

Questo duro braccio di ferro non ha tranquillizzato i Cinesi.

Gli Americani possono parlare apertamente di confisca dei beni russi, per la ben nota situazione in atto, ma non possono certo dichiarare apertamente che anche la progressiva integrazione delle finanze cinesi e svizzere sia un incubo per loro; anzi, probabilmente è il loro incubo peggiore…

I Cinesi questo lo sanno bene e percio’, da quando le relazioni USA-Svizzera hanno iniziato a peggiorare, stanno riportando in patria una parte dei capitali che, come abbiamo visto, formano il core business di molte banche svizzere.

A quanto ammontano i capitali in fuga, rispetto al capitale totale cinese che si trova in Svizzera? Quali banche stanno subendo questi bank run? Nessuno lo sa, data la completa impenetrabilità del governo e degli enti regolatori svizzeri su questi argomenti.

Possiamo pero’ iniziare a tirare le fila del discorso e ipotizzare che la causa dei bank run di Crédit Suisse sia fortemente correlata alla fuga dei capitali cinesi o asiatici in generale dalla Svizzera…

…E che percio’ questa tendenza al bank run non ha nulla a che fare con la crisi di fiducia nelle valute fiat o nelle politiche monetarie delle banche centrali occidentali, ma piuttosto con la possibilità che la Svizzera prima o poi venga obbligata ad allinearsi con il resto dell’occidente nel mandare all’aria l’affidabilità della custodia dei depositi nelle sue banche.

Conclusione: ancora una volta, non siamo nel 2008

Il quadro che abbiamo delineato finora rende piuttosto evidente la diversità incommensurabile tra le crisi bancarie americane e quella svizzera.

In America abbiamo un sistema finanziario sempre piu’ difficile da gestire e una banca centrale che sembra impegnata a distruggere, piu’ che a trovare soluzioni, lasciando campo libero alla legge della jungla nella quale le banche piu’ grandi iniziano a divorare le piu’ piccole.

In Svizzera abbiamo una realtà immune dalla deriva finanziaria occidentale, che pero’ proprio per questo è caduta sotto il mirino degli Stati Uniti e rischia di soccombere.

Dal punto di vista dell’investitore, la conclusione piu’ importante che possiamo trarre è che questa diversità di scenari esclude la possibilità di poter inserire sotto lo stesso calderone (crisi del 2008) le banche americane e Crédit Suisse.

I fautori dell’ipotesi di una “riedizione del 2008” avevano bisogno del crollo di una grande banca sistemica, in modo da far dimenticare le specificità delle banche americane in default, lontane anni luce dalla situazione del 2008.

Ma Crédit Suisse non puo’ assumere questo ruolo, perché le condizioni che hanno portato al suo default non sono legate ad alcun fattore finanziario tipicamente occidentale, come il denaro fiat, la svalutazione, l’inflazione, le banche centrali e chi piu’ ne ha piu’ ne metta.

Crédit Suisse è caduta a causa della guerra, non dell’economia corrotta occidentale. Dopo questo articolo, ci sono pochi dubbi su questo, spero…

Il sistema bancario USA non sta fallendo, ma va verso il monopolio

Questa crisi finanziaria è molto diversa da quella del 2008 in tanti aspetti, uno dei quali sarà l’argomento di questo articolo.

Diversamente dal 2008, questa crisi non riguarda il sistema finanziario USA nel suo insieme, ma un suo settore specifico: quello delle banche di medie e piccole dimensioni.

Riassumeremo qui di seguito cosa ha portato al default queste banche che dovrebbero essere la parte sana del sistema bancario americano. E perché al contrario le banche “cattive”, quelle che investono in derivati e assicurano pochi servizi ai cittadini e alle imprese, sono per ora immuni da questo default .

Alla fine di questo racconto, risulterà evidente come, grazie a questa crisi, le grandi banche sistemiche americane, tipo J.P. Morgan, Citi, Bank of America e altre, stiano creando un vero monopolio finanziario in America.

Che la nascita di questo monopolio sia un disegno intenzionale o un semplice processo di adeguamento alle mutate condizioni finanziarie, lo scopriranno forse gli storici del futuro.

Per adesso possiamo solo constatare l’esistenza di questo trend.

Basilea III e la trappola della Fed verso le banche commerciali americane

Dopo la crisi del 2008, le banche di tutto il mondo si accordarono per una riforma del sistema (chiamata Basilea III) che introdusse misure di protezione da possibili rischi futuri.

Queste misure includono obblighi per le banche di copertura della liquidità, di mantenimento di riserve di emergenza presso la Fed e di limiti all’entità dei prestiti concessi ai clienti.

In molti paesi questi obblighi sono stati estesi a tutte le banche. Negli USA invece solo alle grandi banche sistemiche.

Ecco il motivo per cui oggi in America sono proprio le banche medio-piccole, prive del sistema di protezione di Basilea III, ad andare in crisi, mentre al contrario le grandi banche sono quasi del tutto immuni dal contagio e per giunta sembrano anche voler approfittare di questo vantaggio.

Quando Basilea III fu introdotta in America nel 2020, l’esenzione per le banche commerciali fu vista come una concessione alle lobby bancarie, molto potenti in America.

Oggi pero’ questa esenzione è diventata un boomerang che si ritorce contro queste banche.

E viene da pensare se non sia stata fin dall’inizio una trappola tesa dalla Fed…

Vediamo perché…

La crisi del 2023 è stata provocata dai buoni del tesoro USA che la Fed ha trasformato in “titoli tossici”

Come abbiamo detto in questo articolo, la “miccia” che sta scatenando i recenti default bancari in America sono in sostanza i bank run dei clienti.

Abbiamo appena detto che le banche medio piccole americane, esenti da Basilea III, non sono obbligate a mantenere soldi in riserva presso la Federal Reserve.

Quindi in casi di forti bank run queste banche non hanno liquidità di riserva per fare fronte ai flussi in uscita dai loro depositi.

In molti casi, l’unico modo per queste banche per fare cassa è liquidare la tipologia prevalente di asset da loro detenuti, ossia i buoni del tesoro che, grazie ai continui aumenti dei tassi decisi dalla Fed, sono arrivati a prezzi ridicoli e quindi comportano forti perdite per la banca che cerca di venderli.

Percio’ tra i protagonisti di questa crisi non ritroviamo i famosi derivati che portarono al default la Lehman Brothers, ma piuttosto i buoni del tesoro, resi “tossici” dalla Fed con le sue dissennate politiche di inasprimento monetario.

Anche questa è una notevole differenza tra oggi e il 2008…

Ad ogni modo, il meccanismo di default che ti ho appena descritto è un fatto assodato e lo puoi ritrovare ormai in tutti i media finanziari.

In questo articolo pero’ desidero cercare le cause piu’ profonde di questo default.

Per capire questo default non guardare solo agli asset della banca, ma al suo modus operandi

Man mano che le banche sono andate in default in queste settimane, eravamo tutti concentrati sul tipo di asset prevalente della banca o sulla sua clientela.

Quando è andata in default Silvergate, abbiamo dato la colpa alle criptovalute.

Quando è toccato alla Silicon Valley Bank e alla Signature, abbiamo pensato che vi fosse una crisi anche nel mercato degli immobili commerciali o nelle startup.

Nel meccanismo di default descritto nel paragrafo precedente è evidente che i buoni del tesoro abbiano avuto un ruolo.

Ma fin qui stiamo solo guardando il dito e non la luna…

Il vero meccanismo di questi default è molto piu’ generico e puo’ colpire qualsiasi banca commerciale, non importa il suo tipo di clientela o gli asset che detiene.

Uno studio della J.P. Morgan di cui non abbiamo il link, perché destinato ai clienti della banca, rivela i parametri di rischio per questo particolare genere di default del 2023.

La tabella qui di seguito ne fa una sintesi:

In sostanza, qualsiasi banca che faccia un servizio a cittadini e imprese è attualmente a rischio.

Questo tipo di banche infatti, che definiamo “banche commerciali”, hanno un tipo di bilancio molto diverso dalle grandi banche sistemiche.

In queste banche, i soldi e gli asset depositati dai clienti (cittadini e imprese) sono in percentuale molto superiore rispetto agli asset della banca (e agli asset di riserva, che come abbiamo detto, sono scarsi grazie all’esenzione da Basilea III).

Inoltre, anche la percentuale di prestiti e di servizi di custodia per i clienti è superiore rispetto alle banche sistemiche.

Lo studio di J.P. Morgan è chiaro: il problema non è il campo di attività della banca, ma proprio il fatto che la banca fornisca dei servizi ai propri clienti, invece di giocare coi derivati usando i grassi interessi sulle riserve che la Fed regala alle grandi banche sistemiche per non fare nulla.

Quindi è proprio una concezione del servizio bancario che sta andando in crisi.

Le banche che assicurano servizi concreti a persone e imprese, sono penalizzate, mentre sono premiate le banche sistemiche, che assistono invece la Fed e gli altri organismi regolatori nella modulazione (spesso nella manipolazione) generale del sistema finanziario.

Stiamo andando verso un regime di monopolio delle grandi banche?

In questo recente articolo abbiamo descritto i tentativi della J.P. Morgan e di altre banche per assicurarsi il monopolio delle criptovalute.

A questo punto pero’, la serie di default della scorsa settimana ci invitano ad allargare la visuale e a comprendere che forse è in atto un processo di centralizzazione e monopolio su piu’ vasta scala.

Come nel caso delle criptovalute, anche qui ci sono stati dei colpi bassi portati alle istituzioni piu’ deboli per innescare i default.

Tutto è iniziato, nel mondo cripto, con i default di Terra-Luna e della piattaforma FTX.

Nella nostra newsletter gratuita abbiamo spiegato ampiamente come questi due default sono stati innescati provocando intenzionalmente dei bank run.

Ora la moda di questi default pilotati si è spostata al sistema bancario, almeno secondo questo articolo (a pagamento) di The Informer, che rivela le manovre della J.P. Morgan per spingere al bank run i clienti della Silicon Valley Bank.

Non possiamo non notare che la J.P. Morgan non ha nemmeno mobilitato fondi di salvataggio per soccorrere questa banca, mentre lo ha fatto per la First Republic Bank, che infatti ha evitato il default subito dopo il crollo della Silicon Valley Bank.

L’idea poi che la Federal Reserve, con le sue politiche monetarie e la gestione di Basilea III, abbia in qualche modo creato le condizioni adatte per questo tipo tutto speciale di default non è nostra, ma viene espressa nientemeno che da Bloomberg (articolo a pagamento anche questo).

Cosi’ come l’idea che sia in atto un processo di centralizzazione e monopolio delle grandi banche non ce la siamo inventata, ma è condivisa da molti, come ad esempio il cofondatore di Paypal David Sacks.

Insomma, anche se per ora non ci sono dati sufficienti per dire che questi default siano stati pianificati a tavolino come quelli avvenuti nel mondo cripto, certo le analogie di queste crisi con i default di FTX e Terra Luna sono sospette. Cosi’ come lo sono anche le convergenze molto suggestive tra le politiche della Fed e gli interessi della J.P. Morgan e delle altre banche sistemiche americane.

Lontani anni luce sono le circostanze di questa crisi rispetto a quella del 2008, nella quale le élites finanziarie furono colte di sopresa dalla crisi e corsero ai ripari per salvare tutto il sistema, non solo una parte di esso.

Diversamente che nel 2008, ora il ruolo dei media e della banca centrale nel “preparare” questa crisi, diffondendo da tre anni a questa parte un clima di sfiducia, paura e diffidenza nelle masse è stato un elemento basilare.

Senza questa adeguata “peparazione”, le masse non sarebbero state cosi’ pronte a effettuare i bank run con cui stanno distruggendo le banche “sane”, praticamente tagliandosi i rami su cui sono sedute (cioè eliminando i pochi servizi seri su cui potevano contare) e aprendo la strada al monopolio delle banche sistemiche, molto meno user friendly nei confronti della società.

E se fossimo vicini all’avvento del CBDC?

Di fronte a questi avvenimenti, non possiamo non pensare che questo monopolio in prospettiva possa condurre all’avvento del “dollaro digitale” della Fed (CBDC).

L’accentramento e la semplificazione del sistema, l’eliminazione dei servizi piu’ vicini alla società, ma antieconomici in un’ottica di accentramento governativo, sono senz’altro delle condizioni che chi volesse instaurare una CBDC dovrebbe realizzare in anticipo.

Quindi, se questo processo di monopolio bancario verrà completato con “successo” (cioè senza la contemporanea e imprevista distruzione di tutto il sistema), certamente sarà piu’ facile in futuro impostare una CBDC governativa.

Non ci sono le prove per sostenere che questo monopolio sia stato concepito fin dall’inizio con questa finalità, ma certamente le due cose, centralizzazione finanziaria e CBDC, sono strettamente collegate.

Tuttavia l’impostazione di una CBDC è un processo molto complesso, che non include solo aspetti tecnici, ma anche politici, sociali, economici, giuridici, geopolitici, militari, ecc.

Non c’è lo spazio qui per descrivere tutti questi aspetti, ma negli ultimi anni ne abbiamo parlato ampiamente nella nostra newsletter gratuita e nel nostro canale Telegram.

La nostra opinione, in due parole, è che i test sui CBDC effettuati dai Cinesi e da altre entità governative in vari paesi hanno finora evidenziato molti piu’ problemi che soluzioni, soprattutto nell’integrazione dei CBDC di vari paesi in un sistema di scambio internazionale.

L’idea poi di un CBDC universale, comune a tutti i paesi del mondo, è del tutto irrealistica, sopratutto ora che siamo giunti alla fine della globalizzazione.

Tuttavia è innegabile che vi sia un processo di centralizzazione e iperdigitalizzazione finanziaria (nei singoli paesi, non a livello universale) che potrebbe arrivare ad esiti ora difficili da prevedere.

Il CBDC è un sistema molto complesso e non va confuso con i progetti di digitalizzazione annunciati da alcuni paesi e dalla BCE. Tali progetti sono una preparazione ai CBDC, ma la loro attuazione potrebbe evidenziare dei problemi che a un certo punto costringerebbero a rallentare, invece che accelerare l’avvento del CBDC.

Non bisogna considerare le èlites come delle divinità onnipotenti. Anche loro, come tutti noi, vanno avanti per tentativi…

Un suggerimento…

Data la complessità di questo processo, e il fatto che si stia affermando a colpi di crisi e di traumi sociali, ti suggerisco di tenerti informato costantemente, facendo pero’ attenzione a scegliere con cura le tue fonti di informazione.

Sono assolutamente da evitare i media mainstream, i social complottisti e quelli che vendono metalli preziosi (siamo appassionati di preziosi e ci sono ottimi siti su questo argomento, ma vanno evitati gli opportunisti).

Nei momenti di crisi, sia l’informazione mainstream che quella catastrofista rischiano di mandarti fuori strada, perché si muove al di fuori di una seria analisi dei dati e di una adeguata preparazione scientifica.

Nel fine settimana della crisi bancaria americana ho osservato soprattutto i social complottisti: non ce n’è stato uno che abbia detto ai lettori esattamente cosa fare.

Mi ha molto colpito questo fatto.

Per anni questi social infondono paura e incertezza per attirare un maggior numero di lettori, ma poi quando c’è davvero una crisi in atto, diventano uccel di bosco e ti lasciano a piedi.

Tutto il contrario del nostro canale Telegram, dove normalmente pubblichiamo informazioni oggettive, utili e prive di interferenze “emotive” che confondono i lettori.

Guarda tu stesso pero’ sul canale, andando a ritroso fino ai nostri post del famigerato “fine settimana dei default”: vedrai che in quelle ore abbiamo abbandonato la nostra abituale compostezza e ci siamo rimboccati le maniche, dando immediatamente (e gratuitamente) informazioni precise su cosa fare e quali servizi usare…

Non ho visto altri canali di informazione fare altrettanto…

Cosa sta succedendo alle banche americane?

In questi giorni abbiamo avuto due importanti default bancari in America.

Il primo ha interessato Silvergate, una banca che gestiva le transazioni di valuta fiat del mercato cripto.

Il secondo ha interessato la Silicon Valley Bank (SVB), esposta sul mercato immobiliare commerciale e sul settore del “venture capital”, cioè il finanziamento delle startup.

Se ci fermiamo a questi singoli episodi, potremmo erroneamente credere che la causa dei default siano state volta per volta le criptovalute, o il mercato immobiliare, o qualsiasi altro settore nel quale la prossima banca in default sarà coinvolta.

In realtà il problema non sono i singoli settori in cui una banca è coinvolta. Il problema è il sistema bancario in se stesso.

Le vere cause del default

Nel 2020/2021 ogni banca americana ha dovuto incamerare una gran quantità di titoli di stato come collaterale dei pagamenti degli stimoli COVID devoluti dal governo ai settori economici e sociali in difficoltà.

Per tale ragione, la maggior parte delle banche americane ha lo stesso problema di fondo di SVB: hanno tutte enormi portafogli obbligazionari con enormi perdite non realizzate (le enormi bande sulla destra del grafico):

Tuttavia, La Silicon Valley Bank non è crollata a causa di questo grande portafoglio obbligazionario “sommerso”.

Infatti, se le banche detengono questi portafogli obbligazionari fino alla scadenza, non c’è alcuna perdita – e in piu’ si incassano anche gli interessi.

Questi portafogli obbligazionari diventano un problema solo se le banche sono costretti a “incassare” in anticipo.

E quando le banche sono costrette a incassare in anticipo? Ad esempio, quando i loro clienti ritirano in massa i soldi dai loro depositi.

E qui arriviamo al vero problema delle banche americane oggi.

Non le obbligazioni, non il mercato immobiliare nei settori turistico e commerciale, non le criptovalute.

Il problema oggi in America (ma forse anche in Europa, se si diffonderà il contagio – “psicologico”, piu’ che reale – fra i rispettivi sistemi economici) è lo sport preferito delle persone oggi: il bank run.

Il bank run: un gioco che si sta ritorcendo contro le élites finanziarie

Tutto è iniziato nel mercato delle criptovalute, con crisi di liquidità innescate apposta da settori anti cripto della finanza per creare dei bank run dalle piattaforme.

Poi il bank run si è presto trasferito alle banche che servono il mercato cripto (l’esempio di Silvergate).

Ora il gioco si è ritorto contro le élites finanziarie e il contagio è finalmente passato alle banche tradizionali.

La causa di questi default e di altri eventuali in programma su questi schermi è, come abbiamo detto, generalizzata e puo’ essere suddivisa in tre aspetti:

– politiche della Fed (aumenti dei tassi)

– mercato obbligazionario

– bank run dei clienti

Vediamo in pratica cosa vuol dire.

Il dilemma bancario americano spiegato semplice

1 Tassi d’interesse troppo bassi sui depositi

Tutto inizia dal fatto che, grazie alle politiche restrittive della Fed e la conseguente distruzione degli asset finanziari e da investimento, le persone non hanno la possibilità di difendere il potere d’acquisto dei loro soldi mediante investimenti che diano dei rendimenti.

In questo scenario, le banche, pur potendolo fare, non offrono ai clienti tassi di interesse competitivi sui loro depositi. Percio’ i correntisti prima o poi trasferiscono i loro contanti da conti di risparmio che offrono appena lo 0,2% verso CD intermediati e buoni del tesoro che offrono oltre il 5%, oppure verso fondi del mercato monetario che offrono tra il 4,5% e il 5%.

Per trattenere questi capitali in uscita, le banche dovrebbero aumentare i loro tassi sui depositi al 4% o al 4,5%, ma ciò comprimerebbe i loro margini di profitto. Quindi non lo fanno, alimentando l’emorragia dai loro depositi.

2 Le riserve delle banche presso la Fed: denaro “gratis” ma non sempre liquidabile

Per coprire questo flusso di soldi in uscita, le banche potrebbero utilizzare eventuale cash che hanno a disposizione e anche il denaro che hanno in deposito presso la Fed (ciò che la Fed chiama “riserve”).

I 3 trilioni di dollari di “riserve” presso la Fed, che attualmente rendono alle banche anche il 4,65% di interessi “gratis”, è una liquidità immediatamente disponibile in caso di necessità e quindi possono subito essere utilizzati per coprire lo svuotamento dei depositi.

Tuttavia alcune banche piccole o medie potrebbero non avere molto denaro in deposito presso la Fed, o potrebbero volerlo tenere lì perché hanno bisogno di guadagnare la rendita del 4,65%.

3 Altre 5 soluzioni per evitare il bank run

In tal caso, per compensare i bank run dei loro clienti, le alternative per queste banche sono:

– aumentare il tasso di interesse da offrire ai loro correntisti, ma abbiamo detto che questa misura è troppo costosa,

– potrebbero attrarre i correntisti proponendo, tramite brokers, dei CD che rendano almeno il 5%. Ma anche in questo caso, dover pagare ogni volta il 5% agli investitori comporta troppi costi per le banche.

– una terza possibilità sarebbe chiedere prestiti a breve termine alle banche federali che gestiscono i mutui per la casa, oppure alla Fed, sfruttando la cosiddetta “finestra di sconto” della Fed a tassi fino al 4,75%. Ma anche questo è costoso, perché comporta dover reperire e restituire a breve termine questa liquidità.

– una quarta opzione è chiedere prestiti a tassi simili ad altre banche, oppure immettere sul mercato obbligazioni, ma a tassi più alti (e quindi a prezzi inferiori) rispetto ai titoli emessi in precedenza.

– una quinta possibilità è fare come la SVB Financial, proprietaria della Silicon Valley Bank. Costretta a un massiccio aumento di capitale per sostenere il bilancio e la liquidità, è stata costretta a vendere $ 21 miliardi di obbligazioni con una perdita enorme di $ 1,8 miliardi.

4 La quarta e la quinta soluzione sono quelle piu’ comunemente utilizzate

Come detto all’inizio, altre banche dotate, come la SVB, di enormi quantità di titoli di stato si trovano potenzialmente con lo stesso dilemma: se vendono queste obbligazioni ora, perderanno un sacco di soldi, perché i rendimenti sono aumentati e quindi i prezzi sono diminuiti.

Spesso percio’ le banche alternano la quarta opzione con la quinta: comprimere i loro margini di profitto trimestre dopo trimestre prendendo a prestito a tassi più alti da altre banche.

5 Il bank run puo’ essere fermato?

In conclusione, le banche, per compensare la liquidità persa con la fuga dei correntisti sono davanti a un dilemma:

– o si rassegnano a pagare i costi di finanziamento di nuovi prestiti,

– oppure si rassegnano ad affrontare una tantum grosse perdite vendendo titoli, come azioni od obbligazioni.

Ma queste sono solo “toppe” per arginare l’emorragia. Non servono a fermare la tendenza al bank run innescata in modo irresponsabile proprio dalle élites finanziarie.

Una volta che azzeri la fiducia in qualsiasi istituzione e in qualsiasi asset, da quelli piu’ innovativi, come le cripto e le statrup, a quelli piu’ tradizionali, come le banche e la Fed, è difficile fermare questa psicosi di massa.

Ecco perché probabilmente siamo arrivati a un punto di svolta nel quale le élites devono investarsi qualcosa, e presto, per restituire credibilità al sistema.

In questa fase cruciale, è importante essere informati di tutto cio’ che succede, in modo da prendere in tempo eventuali contromisure.

Questa crisi inaspettata costringerà le élites ad annunciare provvedimenti negli ambiti piu’ disparati dell’economia e della finanza, accelerando molti cambiamenti che erano già in atto e che potranno avere un impatto su tutti noi, anche se non siamo Americani…

Consiglio quindi di iscriversi gratis alla nostra newsletter e di seguire il nostro canale Telegram per avere notizie e suggerimenti in tempo reale man mano che gli eventi si svilupperanno.

La SEC sta scatenando una resa dei conti in America

Le azioni legali della SEC americana nei confronti di Kraken e Binance vanno ben al di là delle ingenue narrative dei media mainstream e dei complottisti, ancora una volta uniti nel travisare la realtà.

Non c’è alcun assalto del sistema contro le cripto, non è in atto una lotta fra angeli e demoni, e nessun Robin Hood sta per essere perseguitato da avidi e cattivi sovrani.

L’aumento della pressione esercitata dalla SEC nei confronti degli exchanges pro cripto indica semplicemente che è in corso una resa dei conti negli equilibri di potere del mondo finanziario americano.

In questo articolo cercheremo di comporre per quanto possibile un quadro completo della vicenda.

 

Il quadro macroeconomico di fondo

Bisogna dire anzitutto che le azioni della SEC si svolgono in un momento storico preciso, cioè quello in cui la Federal Reserve ha invertito le sue politiche monetarie abituali creando una riduzione di liquidità in tutto il sistema, e quindi anche nei bilanci degli istituti finanziari.

Questa situazione ha creato una spaccatura nel mondo finanziario, suddividendolo in istituti finanziari di serie A e di serie B.

Gli istituti di serie A sono le banche tradizionali, alle quali la Fed, prima di iniziare questa macelleria economica, si è preoccupata di assicurare ben due rendite passive:

– gli interessi sulle riserve che le banche per legge devono depositare presso la Fed,

– gli interessi sui depositi repo

Con l’aumentare dei tassi d’interesse USA, l’entità di queste rendite è ora ben al di sopra del 3% e assicura alle banche americane una comoda fonte di liquidità praticamente gratis.

Per non dire che, il fatto stesso di poter ricavare da mutui, carte di credito e altre forme di credito dei proventi da interessi enormemente superiori a quelli di pochi anni fa, basterebbe da solo ad arricchire i bilanci delle banche e delle assicurazioni in questo nuovo scenario.

Tale situazione si riflette fedelmente nelle borse, dove le pubblicazioni dei pingui bilanci delle banche sta facendo volare le loro quotazioni, mentre gli istituti di serie B sono afflitti da mesi di ribassi.

Ma chi sono questi istituti di serie B?

Gli istituti di serie B sono quelli compresi nella categoria del Fintech, come ad esempio Paypal, Stripe e anche tutti quelli coinvolti nel mercato cripto.

Per queste società non è prevista alcuna forma di compensazione per le perdite di liquidità e quindi si prospetta un lungo periodo di sofferenze, almeno finché la banca centrale non sarà costretta dagli eventi a interrompere la sua macelleria economica e monetaria.

E’ abbastanza ovvio quindi che le élites finanziarie che stanno dietro a questa offensiva della SEC stanno cercando di approfittare di questo momento di debolezza economica per far cadere quanti piu’ avversari possibili.

 

Ma qual è la materia del contendere?

Definire la cordata che sta guidando dietro le quinte i movimenti della SEC è semplice. Basta ricordare alcuni passaggi cruciali avvenuti nel 2020 -2021, quando i servizi Fintech spadroneggiavano, anche grazie all’aumento di quotazioni delle cripto che ne aumentavano i bilanci.

1. Commissioni

Un settore specifico delle banche tradizionali USA, ossia le banche di investimento, osservavano con stupore i miliardi di ricavi derivanti dalle commissioni che Coinbase e altre piattaforme stavano generando in pieno bull market cripto e volevano una fetta di quella torta…

Le commissioni sono la linfa vitale di Wall Street.

Le società finanziarie raccolgono circa 439 miliardi di dollari all’anno dalle sole commissioni di gestione dei fondi.

Ma nell’ultimo decennio in America i profitti dei fondi gestiti e delle gestioni patrimoniali sono diminuiti di circa un quarto.

In piu’, in quel periodo sono nate quelle distorsioni inaccettabili che vengono tuttora tollerate e che fanno imbestialire i settori tradizionali. Come ad esempio il “vantaggio sleale” di cui gode Paypal, che da ottobre 2020 ha iniziato a offrire il trading su bitcoin facendo pagare ai clienti commissioni al 6%, incluso un tipo di commissione nascosta chiamata “spread”.

Si tratta di una commissione semplicemente folle, se paragonata a quelle di una qualsiasi banca tradizionale.

Un’azienda bancaria o assicurativa che addebitasse commissioni del 6% finirebbe subito sotto la lente degli enti regolatori, oltre che subire un esodo in massa da parte dei clienti.

Ma stranamente, questo non succede, perché gli utenti, certo grazie a un pregiudizio negativo nei confronti delle banche, non confrontano le commissioni di questi istituti e quelle di Paypal.

Per gli istituti finanziari tradizionali invece l’impunità di Paypal viene percepita come il prodotto di una azione lobbistica che effettivamente viene condotta dagli istituti Fintech nelle istituzioni governative (ad esempio con la Crypto Council for Innovation, fondata da società come Fidelity, Coinbase e Square proprio per fare pressione sui legislatori).

Altrimenti non si spiega perché una semplice piattaforma come Coinbase (leggiamo qui) possa ricevere ben due commesse da altrettanti enti governativi:

– Una commessa da 1,36 milioni da parte della Homeland Security per implementare un servizio di monitoraggio dell’immigrazione.

– Una commessa dal valore imprecisato da parte dell’U.S. Secret Service e dell’Internal Revenue Service (IRS, l’agenzia delle entrate americana) per la fornitura di software che tracciano le transazioni nella blockchain.

E non si spiega perché un’azienda blockchain come Ripple possa fornire la sua tecnologia di trasferimento di denaro a oltre 300 istituzioni finanziarie in 40 paesi nel mondo.

O perché Circle, la società che con Coinbase ha creato il consorzio che gestisce USDC, ossia il dollaro digitale privato americano per eccellenza, abbia ricevuto piu’ di 135 milioni, da vari istituti finanziari, tra cui 50 milioni dalla Goldman Sachs.

Ma basterebbe l’esistenza stessa di USDC, una valuta privata interamente collateralizzata da titoli di stato americani e tutelata dal Tesoro USA, per capire che molti istituti Fintech sono entrati nei piani alti del sistema e farli cadere ormai non è cosi’ facile.

2. Stablecoin

Ed è proprio attorno al “sistema” USDC, quel consorzio paragovernativo sul quale hanno investito le celebri firme del mondo finanziario, come BlackRock, che convergono altri attriti fra le élites, nella guerra ormai intrapresa sulle stablecoin.

Questo gioco altamente politico parte dal fatto che i volumi di scambio di USDC – la stablecoin preferita dalle istituzioni americane che, con il suo bilancio di $ 10 trilioni, potrebbe creare o distruggere qualsiasi economia  – stanno diminuendo in confronto a USDT e BUSD.

Sebbene USDC abbia un’elevata capitalizzazione di mercato di $ 41 miliardi, in termini di volume non è così rilevante come USDT e BUSD.

Ciò, ovviamente, è stato aggravato dal fatto che Binance ha “osato” bloccare USDC dalla sua piattaforma a settembre, consentendo a BUSD di crescere significativamente in volume a scapito di USDC.

Stefan Rust, CEO of Truflation ed ex CEO di Bitcoin.com, ritiene percio’ che i colossi che hanno investito in USDC potrebbero voler calmierare il progresso di BUSD.

Questi sono solo pochi esempi di quanti contenziosi stanno sorgendo nel mondo finanziario da quando l’America ha deciso di ospitare l’industria delle criptovalute.

Per descrivere tutte le contese ora in corso non basterebbe lo spazio di questo articolo…

 

Chi c’è dietro la SEC?

Ad ogni modo, possiamo semplificare il campo degli avversari del Fintech e delle cripto parlando dell’istituto che piu’ di tutti li rappresenta: J.P. Morgan.

Già alla vigilia dell’entrata in borsa di Coinbase, Jamie Dimon, Presidente e CEO di JPMorgan Chase, sfogo’ tutto il suo nervosismo in una lettera agli azionisti che lanciava un appello alle agenzie regolatorie per fermare l’affermazione del Fintech.

Questo estratto rende bene il modo in cui le banche tradizionali vedono il Fintech (purtroppo non ci sono link pubblici per visualizzare la lettera):

Le banche competono già contro un ampio e potente sistema bancario ombra. E stanno affrontando una vasta concorrenza da parte della Silicon Valley, sia sotto forma di società Fintech che Big Tech. Man mano che l’importanza del cloud, dell’intelligenza artificiale e delle piattaforme digitali cresce, questa competizione diventerà ancora più forte. Di conseguenza, le banche svolgeranno un ruolo sempre più limitato nel sistema finanziario “.

Per adesso tuttavia, J.P. Morgan non è stata affatto confinata ai limiti del sistema, ma anzi è ancora la piu’ grande banca d’America ed è l’ago della bilancia di molti equilibri.

È la banca che rischia maggiormente facendo il lavoro sporco nei metalli preziosi (e ogni tanto deve beccarsi le condanne dei giudici per la manipolazione a ribasso dell’oro, quando in realtà il vero mandante dei suoi crimini è la Federal Reserve).

È la maggiore istituzione su cui si regge il mercato repo, in cui vengono scambiati titoli di stato con cash per riequilibrare i bilanci giornalieri delle banche e da cui dipende la tenuta dei tassi d’interesse stabiliti dalla Fed.

Data la sua posizione dominante, non stupisce che non si sia preoccupata, diversamente dalla Goldman Sachs, di aggiornarsi per affrontare la competizione con il Fintech e la blockchain.

La J.P. Morgan anzi, come abbiamo visto, ostenta ostilità verso questo settore innovativo, a costo di sembrare arretrata e perdente rispetto all’avanzare del nuovo, perché sa di avere un enorme potere di contrattazione sulle istituzioni finanziarie americane.

Inoltre, a partire dall’aprile 2021, J.P. Morgan puo’ contare su un alleato di prima grandezza: l’allora neo nominato Presidente della SEC Gary Gensler.

 

Il ruolo chiave di Gary Gensler, Presidente della SEC

Gensler, per diversi anni, è stato a capo della Commodity Futures Trading Commission (CFTC), l’organo di controllo del mercato dei futures.

Il mandato di Gensler ha coinciso con le lunghe investigazioni fatte proprio dalla CFTC sulle manipolazioni dell’oro attraverso il mercato dei futures, perpetrate dalle grandi banche americane, J.P. Morgan in testa.

Fu proprio la presidenza di Gensler a garantire, nel 2013, che queste indagini sfociassero in un nulla di fatto, dopo ben 5 anni di lavoro a spese dei contribuenti e una mole di dati insabbiati che nessuno finora ha mai potuto visionare.

Si trattava della seconda delle 3 investigazioni fatte dal CFTC, di cui la prima, nel 2004, aveva assolto tutti, come al solito, mentre l’ultima, del 2018, ha avuto invece un esito diverso…

In quell’anno infatti un’indagine parallela del Dipartimento di Giustizia e dell’FBI si era conclusa con una condanna stragiudiziale contro la J.P. Morgan e altre banche proprio per quei crimini su cui la CFTC aveva indagato negli ultimi 6 anni senza trovare nulla.

La CFTC quella volta non ha potuto voltarsi dall’altra parte e ha dovuto ammettere la rilevanza dei fatti, condannando le banche sotto inchiesta, ma incassando, come “parte lesa”, la multa salata pagata dalla J.P.Morgan…

…insomma: quando si dice che i panni sporchi si lavano in famiglia…

Come possiamo immaginare, questa importante vicenda ha contribuito a rafforzare un legame molto stretto, fatto di connivenze e complicità incrociate tra Gensler e Jamie Dimon della J.P. Morgan.

Non stupisce quindi che ora sia proprio Gensler il “braccio secolare” che porta avanti la battaglia della J.P. Morgan e di altre grandi banche contro il Fintech.

Già nel 2020 Gensler fece il suo primo tentativo, aprendo un procedimento contro Ripple.

Il contenzioso legale ha avuto un’importanza sistemica e si è protratto fino all’anno scorso, generando una serie di controversie nel mondo finanziario (anche a causa della palese illegalità del procedimento, come abbiamo spiegato in questo articolo).

L’asprezza e la dubbia legittimità del procedimento spinse persino il Congresso a moderare l’ardore di Gensler nella celebre audizione del 17 marzo 2022.

In questa audizione fuorono fissati dei “paletti” attorno alle iniziative legali della SEC contro i servizi di blockchain e criptovalute.

In particolare, il Congresso fece capire a Gensler che durante le indagini contro una determinata società o azienda, l’autorità deve restare nei limiti del Paperwork Reduction Act, un regolamento che in America protegge gli inquisiti da possibili richieste multiple e ripetitive di documentazione che hanno lo scopo di “fiaccare la resistenza” dell’imputato e di terrorizzare altre società ed entità piu’ o meno ad esse correlate.

L’audizione al Congresso segno’ la tappa finale del completamento della annosa controversia della SEC contro Ripple, che si concluse a favore di quest’ultima in quella stessa settimana.

L’iniziativa del Congresso fu anche la prima misura presa da una istituzione governativa in ottemperanza del famoso ordine esecutivo di Biden che, sempre in quell’anno, chiedeva a tutte le autorità regolatorie americane di agire nel campo cripto e blockchain in modo da non ostacolare l’innovazione in questo campo.

Nonostante questo ordine esecutivo sia ancora in vigore, nel 2023, Gensler è tornato all’attacco, approfittando della palese confusione in cui la guerra ucraina sta portando il governo e della progressiva debolezza di Biden che, a un anno dalla scadenza del suo mandato, è sempre piu’ ricattato da indagini federali che limitano i suoi movimenti e forse cercano di persuaderlo a non ricandidarsi.

Lo scopo non dichiarato dell’attuale procedimento della SEC contro il token BUSD di Binance e il servizio di staking di Kraken è lo stesso che abbiamo visto nel procedimento contro Ripple, cioè creare dei precedenti legali che possano supportare in futuro una legge che definisca quasi tutti i token e le criptovalute come “securities” (“titoli di borsa”).

Se le cripto fossero definitie “securities”, qualsiasi altra società del settore potrebbe essere colpita legalmente con l’accusa di aver quotato il suo token senza il permesso della SEC. Percio’ Gensler avrebbe campo libero nel completare lo scempio del Fintech americano a beneficio del suo “compagno di merende” della J.P. Morgan.

Al momento in cui scrivo, l’iniziativa di Gensler è partita da poco tempo e quindi siamo in attesa di vedere se ci saranno controiniziative da parte degli operatori piu’ importanti del settore, come Coinbase, e se le forze governative che supportano il Fintech agiranno con la stessa determinazione mostrata nel caso Ripple.

 

Come andrà a finire?

Certo, con lo scoppio della guerra ucraina e l’inizio delle politiche monetarie della Fed, lo scenario sembra mutato, per certi versi, rispetto all’anno scorso.

La sensazione è che tutto l’establishment americano sia ora focalizzato su alcuni obiettivi “emergenziali” di breve termine:

  • ridurre al minimo le capacità di spesa degli Americani per ridurne le capacità di iniziativa, e quindi, tra l’altro:
  • ridurre al minimo le possibilità di avere interessi e rendimenti di qualche tipo dal mondo finanziario
  • rafforzare le istituzioni che sappiano esercitare un controllo sui clienti (banche e istituti finanziari tradizionali) a discapito di quelle in cui tale controllo è ancora debole (il Fintech)
  • minimizzare il piu’ possibile le controversie istituzionali, le notizie (reali) che possano creare allarmi (vedi l’olocausto in Ohio), le occasioni di dibattito o di discussione fra parti opposte della società, allo scopo di mantenere una certa uniformità di intenti e di sforzi fra governo, istituzioni e società, in modo da poter dirigere questi ultimi nelle direzioni uniche e imprescindibili richieste, nel momento del bisogno, dall’emergenza militare.

Se questo è davvero lo scenario nel quale si dovrebbe svolgere l’iniziativa della SEC, potremmo assistere a sviluppi diversi da quelli che avevano portato a risoluzione la controversia contro Ripple.

Tuttavia la forza divisiva di questi argomenti è ancora molto forte. Basti pensare che persino all’interno della SEC è sorta già una voce contraria, impersonata dalla commissaria Hester Peirce, che in una dichiarazione pubblica sconfessa il suo Presidente affermando che una regolamentazione delle cripto come “securities” è tecnicamente impraticabile, se non dannosa per il sistema.

E’ ancora presto quindi, per dire quali saranno gli esiti di questa vicenda…

 

C’è davvero una volontà comune del “sistema” di annientare le cripto?

Ogni volta che qualche agenzia governativa prende dei provvedimenti contro società Fintech o pro cripto, questa domanda, ovviamente, sorge nella mente di tutti noi.

Se dovessi basarmi solo sui documenti e le notizie ufficiali, la mia opinione è che la finanza tradizionale cerchi piuttosto di accaparrarsi il mercato cripto prima che inizi un nuovo bull market capace di portare enormi guadagni alle aziende che saranno in grado di gestirlo.

A supporto di questa ipotesi, basta fare un confronto fra due iniziative opposte, una nata in Europa e l’altra in America.

Partiamo dalla proposta di legge del parlamento europeo che vorrebbe imporre alle banche l’obbligo di una copertura di liquidità su eventuali somme in criptovalute detenute.

La copertura richiesta sarebbe del 1,250% delle somme detenute, quindi palesemente fuori misura…

E’ evidente che lo scopo implicito di questa legge è di scoraggiare le banche europee a trattare le cripto.

Al contrario negli USA, durante il boom cripto del 2021, un folto gruppo di banche americane (compresa J.P. Morgan) chiese alla BIS (la Banca che governa le banche centrali mondiali) di rivedere una regola di Basilea III (il nuovo regolamento bancario che abbiamo già discusso a proposito dei derivati e dell’oro) che impone alle banche di depositare collaterale in valuta fiat per coprire i depositi in criptovalute.

Come si vede, dall’altra parte dell’oceano lo scopo è completamente opposto, cioè si tende a facilitare l’entrata delle banche nel mondo cripto, non il contrario.

Nel solco di questa peculiarità americana rispetto all’Europa, le iniziative della SEC sembrerebbero (il condizionale è d’obbligo) andare nella direzione di creare addirittura un monopolio della finanza tradizionale sulle cripto, non di azzerare questa possibile fonte di guadagni.

Ripeto, la situazione in cui ci troviamo è molto complicata per via della guerra, che rende tutto imprevedibile e niente piu’ scontato.

Per il momento pero’ sono propenso a vedere l’attivismo della SEC per quello che è sempre stato negli ultimi anni: un tassello nelle lotte di potere tra poli opposti del mondo finanziario americano.

2023: l’anno della disinflazione

Il ritmo dell’inflazione ci ha sorpresi nel 2022. Il ritmo della disinflazione potrebbe sorprenderci nel 2023.

Dopo aver raggiunto un picco più alto delle attese e persistendo più a lungo del previsto, l’inflazione si sta ora ribaltando rapidamente.

In questo articolo ho raccolto l’essenziale che c’è da sapere su questo trend.

Ma, anzitutto, stabiliamo se sta accadendo davvero…

Siamo davvero sicuri che c’è una disinflazione in atto?

In effetti, la spinta inflazionistica su base annua dei prezzi globali delle materie prime si è attenuata e questo ha iniziato ad alimentare la disinflazione globale. Non c’è altro modo per dirlo…

I segnali di allentamento dell’inflazione sembrano oggi più chiari, rispetto ai primi segni iniziali che avevamo indicato sul nostro canale Telegram e sulla nostra newsletter. Sono in calo sia i prezzi alla produzione (PPI) che i costi dei mutui (PMI):

Allo stesso tempo, crollano i costi per spedire le merci, mentre le scorte delle aziende stanno aumentando al ritmo più rapido degli ultimi 25 anni:

Il processo di disinflazione è appena iniziato, ma ha ancora molta strada da fare (curva tratteggiata):

Nonostrante questi chiari segnali, i mercati azionari scommettono solo al 20% che l’inflazione si riduca, avvicinandosi agli obiettivi delle banche centrali entro il 23 dicembre:

Il motivo di questo scetticismo? E’ come al solito il grafico qui sotto, che abbiamo discusso altre volte su Telegram.

I fautori dell'”inflazione eterna” lo pubblicano su tutti i media possibili e fanno notare che la curva bianca dell’inflazione in passato si è mossa con sensibili discese alternate a sensibili risalite.
Quindi il nostro potrebbe non essere un trend in discesa definitivo, ma potremmo avere un’altra “sorpresa” a rialzo dell’inflazione:

Ora, prima di discutere sul fatto che l’inflazione possa tornare o meno, desidero condividere con te la corretta lettura di questo grafico secondo le leggi della statistica.

Bisogna tenere presente che la curva bianca non è l’andamento medio di una serie di eventi inflazionistici avvicendatisi nella storia. E’ l’andamento di un solo evento avvenuto fra gli anni ’70 e gli ’80 del XX secolo.

In termini statistici, la forza predittiva di un solo evento è molto inferiore a quella che si avrebbe se si potessero unire i dati di molti eventi inflazionistici, estraendone dei valori medi.

Confrontare un singolo evento, l’inflazione del 2022, con un altro singolo evento, l’inflazione degli anni ’70-’80, ci espone a una serie di possibili fraintendimenti che derivano dalle troppe differenze economiche fra i due eventi (crisi del dollaro e crisi petrolifera nel XX secolo, dollaro forte, crisi della distribuzione, crisi energetica e guerra nel XXI secolo).

Le differenze tra i due singoli eventi sono troppe per costruire un ragionamento scientifico fondato.

Il confronto fra i due grafici quindi fornisce solo una suggestione d’immagine, per cosi’ dire.

Percio’, non possiamo escludere, né confermare che la disinflazione possa rallentare in futuro. I dati che abbiamo a disposizione oggi possono solo suggerire con una buona approssimazione che nel 2023 avremo un drastico calo dell’inflazione.

Questo è l’unico ragionamento corretto che dovremmo fare, volendo seguire le regole della scienza e non quelle dei media sensazionalistici.

Di conseguenza, come investitori l’approccio corretto è quello di mantenersi entro un range temporale di medio termine, senza tentare investimenti che presuppongano previsioni che vadano oltre il 2024.

Un modo per restare in questo “range di sicurezza” è quello di preferire i settori e i titoli che hanno una crescita dei profitti aziendali ben fondata.

Il motivo è che, come mostra il grafico seguente, i periodi di disinflazione di solito portano un calo degli utili. L’EPS finale per l’S&P 500 ha avuto un drawdown medio del 19% durante il precedente ciclo di disinflazione:

Per tale ragione, i settori con una crescita di qualità hanno sovraperformato i settori ciclici durante il periodo di disinflazione degli anni ’80 e certamente lo faranno anche stavolta, per un semplice motivo: le aziende di questi settori riescono a mantere alti gli utili anche di fronte a fluttuazioni dei prezzi.

Gli utili di queste aziende sono abbastanza costanti, e quindi permettono a chi investe di poter avere dei rendimenti anche in un range temporale di medio termine (oltre a darne nel lungo termine, ovviamente).

Inoltre, bisogna tenere presente la forza propulsiva creata dal probabile ritorno di politiche monetarie accomodanti da parte della Federal Reserve, che spingerà a sua volta un altro tipo di titoli: quelli che appartengono ai settori a rapida crescita.

Ecco perché, raggruppando queste due categorie di titoli e settori, possiamo dire che nei periodi di disinflazione i vincitori sono:

Health Care, Tech, Immobiliare, Aziende commerciali, Beni di consumo essenziali e discrezionali,

mentre i perdenti sono:

Servizi alle utenze, Energia, Industria e Finanza.

Il grafico sotto si riferisce alle performance di questi settori nella disinflazione degli anni ’80, che nel nostro caso è una buona predizione anche per il presente, in quanto il rapporto degli utili coi prezzi è sempre lo stesso, a prescindere dalle cause che determinano il processo deflazionario:

Una stategia di investimento di medio termine è dunque la migliore ricetta per il 2023, come lo è stata già nel 2022… lo mostra la tabella qui sotto:

Nonostante il lungo bear market del 2022, nel nostro servizio di trading Strategie Portfolio siamo riusciti a chiudere un buon numero di titoli con segno positivo, sfruttando il miniciclo a rialzo avvenuto nei mesi estivi.

Nel 2023 le opportunità di guadagno saranno molto superiori e non saremo piu’ costretti ad accontentarci dei brevi momenti rialzisti che sempre sorgono nei bear market.

Sarà infatti l’anno nel quale tutti i trend ora “dormienti” si sveglieranno, permettendoci di sfruttare cicli a rialzo molto piu’ lunghi, oppure cicli brevi, ma molto piu’ frequenti, rispetto al 2022.

Certo, la rapidità con cui stiamo passando dall’inflazione alla deflazione ci impone di restare ancora in una mentalità di medio termine, perché la mancanza di gradualità porta sempre volatilità nei trend.

Tuttavia non c’è alcun dubbio che siamo alle porte di un nuovo bull market a cui, come abbiamo visto, i mercati – ancora troppo orientati sull’inflazione – non sono del tutto preparati.

Questa “sorpresa” porterà cicli molto rapidi e molto remunerativi da sfruttare, come dicevo, in un’ottica di medio termine.

In Strategie Portfolio, sfrutteremo la stagionalità per accumulare le nuove posizioni che ci porteranno i forti rendimenti del 2023:

Come si vede, fine gennaio e tutto febbraio, essendo molto ribassisti, sono i mesi piu’ adatti per iniziare a costruire un portafoglio per l’anno nuovo, o per aggiungere titoli a un portafoglio già esistente.

Abbiamo diversi titoli in watch list che non vediamo l’ora di inserire in portafoglio per sfruttare tutta la forza di questo bull market “a sorpresa”. Percio’ se non vuoi perderti gli “alert” che invieremo già nelle prossime settimane, ti consiglio di iscriverti subito a Strategie Portfolio!

Bitcoin: è iniziato il nuovo ciclo?

Non è passato molto tempo da quando, il 2 gennaio scorso, avevamo inviato via email il primo articolo che ventilava la possibilità dell’inizio del nuovo ciclo quadriennale di bitcoin.

Oggi, con il primo rialzo dell’anno avvenuto la settimana scorsa, abbiamo ancora piu’ dati a disposizione che ci confermano questa ipotesi, rivelando importanti cambiamenti nel mercato cripto.

I grafici pubblicati da Glassnode nel fine settimana, che commenteremo qui di seguito, ci forniscono i dati necessari per comprendere quanto sta succedendo.

Grazie a questo prezioso strumento di analisi, nella nostra newsletter gratuita Segnali di Borsa siamo riusciti ad anticipare con precisione quasi millimetrica sia l’inizio e la fine del bull market del 2021, sia l’esaurimento del bear market successivo. E ci sembra di poter inaugurare anche questa volta una nuova serie di previsioni molto accurate…

Finora l’indicatore di Glassnode che si è rivelato il piu’ utile in assoluto per noi è stato senz’altro il “Realized Price” (RP), che rappresenta il prezzo medio dei coin venduti in una data fase del mercato.

Primo indicatore: Realized Price

Banalmente, quando il prezzo di btc è sotto il RP, siamo in bear market, quando invece si porta al di sopra del RP siamo in bull market.

Percio’, tutti i momenti in cui la quotazione di btc effettua decisivi spostamenti rispetto al RP vanno valutati con molta attenzione.

Inizieremo quindi la nostra analisi proprio con questo indicatore…

Prima pero’, facciamo un breve riepilogo, per dare a chi legge la possibilità di stare al passo con le nostre ultime osservazioni sul RP fatte su Telegram (se volete, andate a rivedere i post che sto per citare):

– in un post Telegram del 15 giugno 2022 avevamo annunciato che btc era sceso sotto il RP, decretando cosi’ la fine del bull market precedente.

– in un post molto piu’ recente, del 29 novembre scorso, abbiamo notato per la prima volta un segnale di esaurimento del bear market del 2022, sempre legato all’RP (rimando alla lettura del post per i dettagli).

– oggi, ricollegandomi a questo monitoraggio continuo del nostro indicatore, pubblico qui sotto un nuovo grafico di Glassnode, dove appare che il prezzo di btc per la prima volta si è riportato sopra il RP:

Questo evento, atteso da mesi, ha certamente un valore ciclico non effimero, ma Glassnode vuole approfondirlo per capire se si tratta solo del segnale, certo, ma iniziale, di un bull market ancora di là da venire, oppure è la prima fase di un trend che potrà definirsi già nelle prossime settimane.

 

Secondo indicatore: il RP suddiviso per anzianità dei coin

Per fare questo, Glassnode suddivide il RP in tre categorie, in base alla “anzianità” di breve, medio e lungo termine dei coin movimentati:

Sulla destra del grafico, vediamo che le tre curve, corrispondenti alle tre classi di “anzianità” dei coin, si avvicinano e si dispongono una sull’altra.

In particolare, la curva blu dei coin piu’ “anziani” sale sopra le altre due, mentre anche la curva gialla dei coin di “mezza età” si dispone sopra quella rossa dei coin piu’ “giovani”.

Questa nuova disposizione delle curve è avvenuto dopo l’ultimo crollo delle cripto a seguito dello scandalo FTX.

Il fatto che, nei trade successivi alla crisi FTX, il prezzo realizzato da chi ha venduto coin “giovani” sia stato inferiore rispetto alle altre due categorie, è ritenuto un evento di “capitolazione” del bear market.

L’evento infatti denota che, dopo il crollo di FTX, vi sia stato un volume significativo di coin passate dalle mani “deboli” a quelle piu’ forti che detengono sia i coin di mezza età che quelli anziani.

In sostanza, per la prima volta le “mani forti”, o se vuoi i traders “esperti”, sono riusciti a sfruttare un momento di grande crisi per realizzare dei profitti superiori a quelli, molto scarsi, che avevano ottenuto durante tutto il bear market.

Questo evento è molto simile a quello avvenuto nell’aprile 2019 (fine del bear market precedente), indicato a sinistra del grafico da un cerchio tratteggiato viola, con la sola differenza che allora btc aveva superato il RP di tutte e tre le classi di coin, mentre oggi btc ha superato solo il RP dei coin giovani e di mezza età, ma non ancora quello dei coin anziani.

Una prima conferma che questo rialzo del mercato si sta trasformando in un trend piu’ definito la avremo quindi quando la quotazione di btc supererà in modo stabile anche il RP dei coin anziani, pari alla quotazione di 22.400 dollari.

L’altro fatto importante segnalato da questo grafico è proprio il fatto che le tre curve colorate si sono avvicinate.

Cio’ indica che il mercato sta ricostruendo una base di traders omogenea (dove cioè il trader medio ha una base di costo approssimativamente equivalente, indipendentemente da quanto tempo detiene i suoi coin).

Una base di traders omogenea indica che il mercato riesce a soddisfare le esigenze di profitto di una piu’ ampia platea di traders e quindi ha la possibilità di attirare un numero crescente di investitori in futuro.

 

Ultimi due indicatori: aSOPR e Realized P/L Ratio

Altri due indicatori da tenere d’occhio sono il aSOPR (ovvero, le transazioni in profitto rispetto al prezzo attuale) e il Realized Profit/Loss Ratio (la differenza tra le transazioni in perdita e in profitto).

Per brevità, qui di seguito pubblico solo il primo, in quanto il grafico del secondo è praticamente identico:

Come si vede, questi indicatori hanno un valore di pareggio pari a 0,1 (retta orizzontale nel grafico) che viene testato varie volte durante i rialzi effimeri dei bear market (cerchi tratteggiati sulla retta).

A un certo punto poi, dopo numerosi tentativi andati a vuoto, la curva gialla riesce a superare stabilmente il punto di pareggio. E da li’ inizia il vero e proprio bull market.

Anche qui abbiamo dunque la possibilità di valutare la vera natura di questi primi movimenti a rialzo di btc: quando infatti il aSOPR e il Realized P/L Ratio si porteranno stabilmente sopra il valore 0,1, avremo la prova che si sta definendo con precisione un trend a rialzo.

Quindi, riassumendo, i prossimi segni che un vero bull market è in via di formazione saranno:

– btc che supera stabilmente il Realized Profit dei coin “anziani”, pari alla quotazione di 22.400 dollari.

– aSOPR e Realized P/L Ratio che si portano stabilmente sopra la linea di pareggio, pari al valore di 0,1.

Inutile dire che terremo d’occhio tutti i giorni i grafici che abbiamo citato e riporteremo, soprattutto su Telegram, qualsiasi importante cambiamento in questi e molti altri indicatori forniti da Glassnode.

Perché da oggi ripartono molti trend nelle borse

Ieri è stato uno di quei rari momenti in cui i dati economici hanno iniziato a mostrare un punto di inversione totale nell’economia… completamente ignorato dai media.

Per l’investitore, poter anticipare un trend prima che la massa se ne accorga è vitale, perché in tal modo è possibile entrare negli asset ai prezzi piu’ bassi possibili, in una prospettiva di rialzo fenomenale.

Percio’, quando si manifesta un punto di inversione importante, come quello di ieri, ma i media non se ne accorgono, si produce appunto uno di questi “momenti magici” per l’investitore.

Quando poi il giro di boa riguarda non un solo trend, ma un intero assetto economico, in particolare quello americano, allora le possibilità di sfruttare il ritardo dei mercati nel prezzare i nuovi trend si moltiplicano, producendo un numero elevato di opportunità che raramente si ha occasione di vedere.

Di cosa si tratta nello specifico?

La tanto attesa uscita dei dati del CPI (prezzi al consumo) ha rivelato ieri una serie di numeri che, messi insieme, compongono la ricetta perfetta per un vero rovesciamento di fronte nell’economia americana.

Stranamente pero’ i media hanno liquidato la questione dicendo che i dati erano del tutto in linea con le attese, quindi non c’era nulla di interessante da vedere.

Se pero’ analizziamo bene i dati, capiamo perché nelle settimane precedenti Wall Street aveva iniziato a “sfidare” la Federal Reserve, ignorando la sua narrativa pessimista sull’inflazione e scommettendo su un ammorbidimento delle restrizioni monetarie già a partire da giugno (lo abbiamo accennato su Telegram l’11 gennaio).

Wall Street infatti aveva iniziato a capire che qualcosa nell’economia sta cambiando.

E i dati di ieri lo confermano.

Vediamo come…

Il Dipartimento del lavoro americano ha rilasciato ieri i dati CPI per dicembre 2022. E come previsto, i numeri hanno mostrato che l’inflazione continua a raffreddarsi.

Il CPI è aumentato del 6,5% a dicembre, anno su anno, in linea con le aspettative e in calo rispetto al 7,1% di novembre. Si tratta del dato più basso da ottobre 2021 ed il sesto calo consecutivo degli ultimi sei mesi.

Il core CPI, che esclude i prezzi dell’energia e dei generi alimentari, è a sua volta aumentato del 5,7%, anch’esso in linea con le aspettative degli economisti.

Ma cio’ che davvero conta è il ritmo di questa discesa. I tassi del CPI infatti sono calati di 60 punti base a novembre, per poi scendere di 70 punti base a dicembre. Cio’ vuol dire che il tasso di disinflazione sta accelerando.

Ed ecco perché Wall Street si è “fissata” con giugno. Il motivo è che al tasso attuale di 70 punti base al mese, entro giugno potremo forse arrivare al famoso obiettivo della Fed di un ridimensionamento al 2% dell’inflazione. Molto prima di quanto ci si poteva aspettare qualche settimana fa:

Fin qui abbiamo parlato della discesa annuale del CPI. Ma il dato davvero sorprendente è la discesa mensile.

Secondo il rapporto di ieri, infatti, i prezzi al consumo sono scesi dello 0,1% da novembre a dicembre.
Perché è importante? Perché i cali mensili del CPI sono molto rari; e ogni volta che avvengono (cerchi nel grafico sotto), l’inflazione intraprende un forte trend discendente nei mesi successivi:

Un altro dato interessante di ieri è la voce “Owners’ Equivalent Rent” (OER), che rappresenta le spese per la manutenzione degli alloggi e gli affitti e rappresenta oltre la metà dell’intero ammontare del core CPI.

A dicembre 2022, le OER sono aumentate del 7,5% su base annua, rispetto all’aumento del 7,1% di novembre. L’aumento è dovuto principalmente al costo degli affitti, salito dello 0,8% a dicembre, dallo 0,6% di novembre.

Ora, questo dato è completamente falsato, perché viene ottenuto in modo indiretto (attraverso dei sondaggi sottoposti ai proprietari di case) e non tiene conto della discesa reale degli affitti avvenuta proprio il mese scorso.

Secondo l’ultimo rapporto “Rental Market Tracker” di Redfin ad esempio, gli affitti in America, diminuiti dell’1,4% a dicembre 2022, sono in costante calo già da agosto. E molti analisti del settore si aspettano che la deflazione degli affitti continui nel 2023; il che è un dato insolito, perché gli affitti sono notoriamente la componente più lenta dell’inflazione e scendono molto raramente:

A questo dobbiamo aggiungere il fatto che le vendite di case negli USA sono diminuite del 37,8% negli ultimi 12 mesi, scendendo cosi’ al livello più basso, dopo il crollo che vi fu all’inizio della pandemia. E purtroppo, come abbiamo detto altre volte, il crollo delle vendite (e quindi il crollo dei prezzi) delle abitazioni, pur essendo un fattore importante dell’inflazione non viene incluso nel CPI, falsando di fatto qualsiasi analisi realistica sui prezzi al consumo.

Infine, sempre restando nel settore immobiliare americano, i dati mostrano che l’aumento dei tassi dei mutui, provocati dall’aumento dei tassi da parte della Fed, ha provocato certamente una flessione nella richiesta di nuovi mutui, come mostrato nel grafico sotto:

Ma (finora) non ha provocato la tanto temuta ondata di insolvenze sui mutui esistenti, mostrando cosi’ un ritratto molto piu’ salutare dell’economia americana di quanto paventato dai media:

Riassumendo quindi: i dati CPI di dicembre pubblicati ieri hanno confermato che l’inflazione sta crollando più velocemente che mai, mentre i dati settimanali sulle richieste di disoccupazione (pubblicati la settimana scorsa) hanno mostrato che l’economia è ancora in buone condizioni. E la conferma di cio’ ci viene anche dal fatto che i consumatori non stanno soffrendo, per ora, dell’aumento dei tassi sui mutui.

L’attuale ritmo di disinflazione implica che un ritorno al 2% di inflazione entro giugno è possibile.

Percio’, se da qui a giugno la Federal Reserve non tenterà di rovinare il delicato equilibrio su cui per ora l’economia americana si sta bilanciando per restare ancora in salute, è estremamente improbabile che cadremo in una profonda recessione nel 2023.

Alla fine dunque, queste due componenti: inflazione in discesa ed economia resiliente, innescherebbero nel 2023 una quantità di trend per ora “dormienti” nella borsa USA, risvegliando diversi settori, da quello immobiliare ai veicoli elettrici, dall’energia pulita ai semiconduttori, dalle materie prime all’energia fossile, per non parlare dei settori piu’ spinti, come quello tecnologico e le criptovalute.

Sugli NFT mi ero sbagliato: ecco perché…

Mentre i media e i social cosiddetti “specializzati” continuano a pubblicare le infinite (e inutili) sfaccettature del caso FTX, noi iniziamo quasi a sentirci “obbligati” a coprire il vuoto di notizie sui fondamentali del settore, lasciato scoperto da questi media a danno dei lettori e degli investitori cripto.

Pur non essendo “specializzati” in criptovalute, trattiamo spesso argomenti cripto, perché siamo convinti che per prendere corrette decisioni di investimento nell’azionario, nostro campo di interesse, si debba sempre avere una visione complessiva dell’economia in tutti i suoi settori, quindi anche delle cripto.

Se poi i nostri articoli riempiono anche il vuoto lasciato dai cosiddetti “esperti” e quindi siano di aiuto agli investitori del mondo cripto, tanto meglio.

In questo articolo affrontero’ un tema che fino a poco tempo fa molti analisti, me compreso, non avrebbero considerato degno di far parte delle analisi di economia fondamentale nel mondo della blockchain, ossia gli NFT.

Per prima cosa quindi devo ammettere che gli ultimi sviluppi degli NFT sembrano suggerire che, al contrario di quanto pensavo (e quanto pensano tuttora diversi esperti del settore), siamo forse di fronte ai primi passi di una nuova importante frontiera della blockchain.

Spesso gli inizi di importanti sviluppi macroeconomici sembrano delle semplici manie o mode passeggere. Basti pensare ai primi anni di bitcoin.

All’epoca c’era molto scetticismo nei confronti di bitcoin e, naturalmente, il prezzo di questa valuta era estremamente volatile.

Nei suoi primi anni di vita, bitcoin raggiunse un picco di circa $ 1.000 alla fine del 2013 per poi scendere a $ 200 nel 2015, dando cosi’ lo spunto ai vari “esperti” dell’epoca di diffondere affermazioni drastiche, del tipo: “bitcoin è finito”.

Gli NFT si trovano ora in una situazione simile, soprattutto perché è solo negli ultimi due anni che l’industria ha iniziato a pensare seriamente a come applicare questa tecnologia.

Fondamentalmente, gli NFT sono certificati digitali di proprietà. Mostrano che una risorsa unica, che si tratti di un’opera d’arte digitale, un oggetto in un videogioco, un biglietto per un evento o una risorsa del mondo reale, appartiene a una sola persona specifica.

Gli NFT sono versioni intelligenti, sicure e trasferibili di cose che usiamo e di cui abbiamo bisogno.

E finora l’industria della blockchain ha solo scalfito la superficie della quantità di “cose” che gli NFT possono gestire.

Qui pero’ mi concentrero’ su un aspetto “sociologico” finora poco considerato, ma suscettibile di sviluppi imprevedibili (sviluppi, secondo me, squisitamente “macroeconomici”, come si vedrà qui di seguito…).

All’inizio di questo mese, il Wall Street Journal ha pubblicato un pezzo dal titolo: “I ragazzini sono stufi dei contanti”, nel quale si raccontava che, secondo le ultime rilevazioni, i giovani apprezzano e usano sempre meno le valute tradizionali, in quanto sono sempre piu’ coinvolti in ambienti e situazioni virtuali, come ad esempio i giochi del tipo Roblox o V-Bucks, dove l’uso di monete digitali per acquistare oggetti virtuali da utilizzare nei videogiochi è massiccio.

Per i più giovani, i beni fisici che si trovano sullo scaffale di un supermercato hanno ormai lo stesso valore di un oggetto virtuale di qualsiasi tipo. Anzi, sempre più spesso le giovani generazioni apprezzano gli oggetti virtuali quanto o più degli oggetti fisici.

Per loro, un capo di abbigliamento virtuale è tanto desiderabile quanto quello reale. L’aspetto che hanno online o in un gioco, quello che possono fare con i loro personaggi/avatar è spesso molto più importante di come appaiono nella vita reale (IRL).

Questa tendenza socio-generazionale ha naturalmente una importanza decisiva per i possibili campi di applicazione degli NFT, che servono appunto a far diventare “virtuale” e scambiabile digitalmente qualsiasi oggetto o bene esistente sul pianeta.

Un cambiamento cosi’ drastico del comportamento sociale, se è legato a una determinata industria o tecnologia, non puo’ che aprire nuovi aspetti macroeconomici nel quadro complessivo della società. Aspetti che dovremo tenere sempre piu’ in considerazione in futuro.

Finisco poi con una nota piu’ a breve termine…

Non tutti si sono accorti che Uniswap ha aperto una nuova finestra sulla sua piattaforma, da dove si ha accesso al mercato degli NFT listati su OpenSea.

L’esperienza utente offerta da Uniswap per comprare e scambiare NFT è molto semplice e abbastanza simile a quella di OpenSea.

Ma utilizzando Uniswap come router, gli utenti ottengono vantaggi che non hanno con Opensea, cioè:

• Accesso al 35% in più di inserzioni rispetto a quelle presenti su Opensea.

• Risparmio di $ 572 sui prezzi iniziali medi per i migliori progetti.

• Tariffe del gas fino al 15% più convenienti.

• Codice front-end di origine che può essere ispezionato dal pubblico.

Tutto questo potrebbe porre Uniswap al centro di questa nuova tendenza, almeno per un po’.

Gli NFT sono stati la più grande fonte di nuovi coin nell’ultimo anno. E ora, Uniswap è pronto a fare la parte del leone in questo nuovo business.

A sua volta, mi aspetto che questo nuovo motore di ricerca NFT offerto da Uniswap faciliti ulteriormente l’uso di questi asset, provocando un sensibile cambiamento nel modo e nella frequenza con cui gli NFT vengono acquistati e scambiati; e, in ultima analisi, nella diffusione sempre piu’ capillare degli NFT fra la popolazione globale (e quindi, nella trasformazione delle valute digitali in una abitudine di massa).

Ricordiamocene, quando il nuovo ciclo rialzista delle criptovalute farà nuovamente focalizzare l’attenzione su questa industria.

Una clamorosa rivelazione sulle decisioni della Fed di mercoledi

In un articolo precedente, relativo all’ultima riunione della Federal Reserve di mercoledi, avevamo spiegato che le conclusioni finali della banca centrale avevano del tutto ignorato le prove, ormai sempre piu’ evidenti, del raffreddamento dell’inflazione e del rallentamento economico in corso negli Stati Uniti.

Al contrario, mercoledi la Fed ha deciso di continuare ad alzare i tassi come se quei dati non esistessero. E ha avuto due pretesti per farlo:

1.I salari nel settore dei servizi non sono ancora scesi.

2.Il calcolo dell’inflazione ufficiale non tiene conto della crisi immobiliare in corso e quindi fa sembrare che l’economia americana “va ancora troppo bene”.

Ora pero’, in questo articolo di ZeroHedge apprendiamo un terzo, incredibile pretesto con cui la Fed si permette di agire contro la realtà economica dei fatti.

E questo pretesto, per la verità, sembra molto piu’ vicino a una vera e propria truffa sui dati…

Di cosa si tratta?

In pratica, nei dati sull’occupazione di settembre ZeroHedge aveva colto una incredibile contraddizione nel calcolo dei nuovi posti di lavoro.

In America questo calcolo viene fatto mettendo insieme due rilevazioni:

l’“Establishment Survey”, cioè i nuovi posti di lavoro che risultano nelle aziende,

e l’“Household Survey”, cioè i nuovi posti di lavoro che risultano nei componenti delle famiglie.

Il buon senso ci suggerisce che le due rilevazioni dovrebbero dare risultati simili, visto che le persone che compongono una famiglia dovrebbero essere perlopiu’ assunte proprio nelle aziende….

Quindi, X nuovi posti disponibili nelle aziende portano a circa X nuovi posti disponibili per i componenti delle famiglie. Giusto?

Invece no. A settembre ZeroHedge aveva notato che l’Establishment Survey dava circa un milione di nuovi posti di lavoro, mentre l’Household Survey ne dava appena diecimila o poco piu’.

Questa evidente assurdità si è ripetuta anche nelle rilevazioni di dicembre, ma stavolta la Federal Reserve di Philadelphia si è accorta dell’inghippo, ha effettuato delle rilevazioni per conto suo e ha trovato, come già rilevato da ZeroHedge, che i nuovi posti di lavoro sono stati effettivamente sovrastimati di circa un milione

Lascio alla lettura dell’articolo di ZeroHedge la spiegazione di come si sia potuti arrivare a questa clamorosa imprecisione (o truffa?).

Quello che ci importa notare è che, guardacaso, i dati di cui la Fed tiene conto sono proprio quelli dell’Establishment Survey, cioè quelli che la stessa Fed di Philadelphia ha confermato essere del tutto campati in aria

Quindi, tirando le somme, mercoledi la Fed ha avviato una stretta monetaria senza precedenti, mai fatta nella sua storia, sulla base di:

– un dato ancora incerto sui salari nei servizi

– il trucco che permette di non inserire la crisi immobiliare nel calcolo dell’inflazione

E…

– la falsa rilevazione di un milione di nuovi posti di lavoro che non esistono…

Lo abbiamo detto nell’altro articolo e lo ripetiamo ora: se davvero la Fed farà quello che ha detto di fare, le conseguenze sono ignote, perché è qualcosa che la banca centrale non ha mai fatto prima…

Gli USA quindi hanno appena imbroccato un percorso che, per quanto ne sappiamo, potrebbe portare anche a una grave crisi. E lo ha fatto in base a dati che non esistono…

…Non ci resta che sperare ancora piu’ fortemente nell’altra possibilità ipotizzata nel nostro articolo, cioè che mercoledi la Fed abbia bluffato e in realtà non abbia davvero intenzione di proseguire la stretta monetaria nel 2023…

Speriamo che sia cosi’…

Inversione della curva rendimenti: un assillo senza fondamento

L’inversione della curva dei rendimenti, la più estrema mai vista dalla fine del 1981, viene sempre interpretata come un segnale di prossima recessione.

Per intenderci, la “curva dei rendimenti” è formata dal rapporto tra i tassi di interesse USA di breve e di medio termine. La piu’ famosa deriva dal rapporto tra i tassi a 2 e a 10 anni.

Se in tempi normali i titoli di stato a scadenza piu’ lunga dovrebbero rendere di piu’ per compensare la maggiore esposizione temporale al rischio, in tempi di recessione questo rapporto si inverte e i titoli a breve scadenza finiscono col rendere di piu’, per compensare il rischio sempre piu’ prossimo di una recessione.

Quando cio’ accade, la curva che esprime il rapporto tra i tassi si abbassa, percio’ si parla di inversione o discesa della curva dei rendimenti.

Da piu’ di un anno i media specializzati stanno segnalando un progressivo abbassamento di questa curva, prevedendo una recessione che ormai si sta facendo sempre piu’ palese.

Tuttavia questo dato non puo’ essere letto in modo univoco, perché ci sono due modi in cui questa curva puo’ abbassarsi:

1. un conto infatti è quando la curva inverte, perché il tasso USA a 2 anni aumenta piu’ velocemente del tasso a 10 anni,

2. un altro è quando la curva, che ha già invertito da tempo, inverte ancora di piu’ fino al limite estremo, perché il tasso a 10 anni inizia a scendere, mentre quello a 2 anni resta uguale.

I due casi sono molto diversi e vanno interpretati in modo specifico.

Nel primo caso (il tasso a 2 anni aumenta piu’ velocemente), i due tassi fanno a gara a chi prevede la recessione piu’ forte, sia a breve che a lungo termine. Quindi è lecito leggere il dato come un segnale di prossima recessione.

Nel secondo caso invece il tasso a 10 anni anticipa già la fine della recessione (per questo inizia a scendere), mentre il tasso a 2 anni dice che nel breve termine la recessione è ancora presente. Quindi non possiamo continuare a dire che ci sarà una recessione, o che ci sarà una recessione piu’ forte. La lettura corretta è quella opposta: i tassi ci stanno dicendo che la recessione sta per finire (o che il mercato obbligazionario si aspetta la fine della recessione; cosi’ come all’inizio dell’inversione si aspettava l’arrivo della recessione)

Se il mercato obbligazionario si aspettasse che l’inflazione ci accompagnerà per molto tempo, vedremmo rendimenti più elevati per il Tesoro a 10 anni. Non è così. Mentre scrivo, il rendimento del Tesoro decennale è sceso al 3,78%.

Volendo quindi attenerci a questo solo dato, dovremmo ipotizzare che la recessione (negli USA) non sarà cosi’ lunga e che, di conseguenza, potrebbe non avere il tempo di peggiorare troppo.

La corretta interpretazione dell’inversione della curva dei rendimenti andrebbe infine abbinata alla lettura corretta della relazione tra utili delle aziende e quotazioni in borsa che abbiamo trattato in un articolo precedente.

In entrambi i casi i media ci forniscono una lettura semplicistica e scorretta dei dati, ipotizzando che negli USA la situazione dovrà andare per forza verso un peggioramento generalizzato, sia dei margini di profitto che dell’economia.

Al contrario, una lettura piu’ attenta dei dati dovrebbe far ipotizzare una situazione molto piu’ variegata. Inoltre si dovrebbe tenere conto di altri fattori molto meno prevedibili, come le riserve di petrolio globali, le sfide valutarie e le politiche delle banche centrali, per citarne solo alcuni.

Di sicuro il prossimo futuro (negli USA) non sarà una corsa verso il baratro, ma al contrario ci riserverà dei momenti di miglioramento economico che possiamo sfruttare per dei trade di medio termine.

Perché la causa della SEC contro Ripple è decisiva

Ci sono vari modi per tentare di distruggere il mercato cripto.

Il piu’ facile è colpire la reputazione delle stablecoin o dei token di un’azienda azzerandone la capitalizzazione, come nel caso di Terra-Luna.

Dal momento che il mercato cripto è ancora una piccola frazione degli asset globali, attaccare un token o una stablecoin come Terra con una montagna di vendite simultanee costa tuttora relativamente poco.

Non ci vuole nulla, per le piattaforme implicate nel crimine, a reperire i pochi milioni necessari a innescare il sell-off.

Al contrario, un’altra modalità fra le piu’ utilizzate per colpire le cripto, ossia la battaglia legale, ultimamente si sta dimostrando piu’ difficile da applicare, grazie alla preveggenza e al senso di responsabilità del team di Ripple.

Faccio una parentesi…

Nel nostro canale telegram abbiamo commentato il teatrino messo in scena in questi giorni dai due exchange Binance e FLX, che ha provocato un’ondata di vendite in tutto il mercato cripto.

Avevamo detto che personaggi come il CEO di Binance, ma anche lo stesso CEO di FLX, fanno parte di quel mondo torbido e volgare che rimonta ai primordi di questo settore e che evidentemente è duro a morire.

Cito questo evento, perché ci fa capire meglio, a contrasto, la natura totalmente differente del “caso” Ripple.

Nel “caso” Binance-FLX abbiamo due filibustieri che antepongono i propri interessi a tutto il resto e per un piatto di lenticchie mettono a repentaglio il loro stesso settore.

Nel “caso” Ripple invece abbiamo appunto Ripple, attaccata dalla SEC, che decide di non piegarsi al suo destino, ma anzi di intraprendere a proprio rischio una battaglia legale le cui implicazioni, nel caso di vittoria, porterebbe benefici incalcolabili a tutto il settore, non solo alla società stessa e ai suoi asset.

Cio’ è talmente vero che la disputa ha finito per coalizzare contro la SEC un po’ tutto il mondo che conta del mercato cripto: inizialmente la sola Coinbase, ma poi ben altre 12 società del settore.

Tutte queste società hanno compreso che la posta in gioco è la sopravvivenza in America di tutto il settore, percio’ hanno deciso di sostenere Ripple nella sua causa legale, dimostrando di avere una visione lungimirante del proprio ruolo e delle proprie finalità.

…Tutto il contrario della furbizia priva di intelligenza che regnano in Binance e in FLX!

Anche nel “caso” Ripple tuttavia è implicato un personaggio che ricorda molto il CEO di Binance.

Gary Gensler, l’attuale capo della SEC, è in effetti la versione “istituzionale” di Changpeng Zhao, il CEO di Binance.

Come il suo cugino cinese, Gensler non riesce a dismettere i panni, indossati molti anni fa, dell’uomo corrotto e privo di scrupoli che non si ferma davanti a nulla.

Nei primi 19 anni del duemila, fino al suo trasferimento alla SEC, Gensler, nella veste di controllore del CFTC, permise l’illegale manipolazione a ribasso dell’oro perpetrata per anni dalle bullion bank, nonostante le molteplici condanne del Dipartimento di Giustizia americano.

Ora, divenuto capo della SEC in un momento di feroci discussioni su quale entità regolatoria debba avere competenze sul mercato cripto, tenta in tutti i modi di tirare acqua al proprio mulino diffondendo la visione antiquata di un settore privo di regole che solo gli austeri censori della SEC possono tenere sotto controllo.

Ma come nel caso dell’oro, anche qui stanno venendo fuori le irregolarità del modo di procedere di Gensler.

Vediamo perché…

Nella notte di Natale 2020, la SEC apre il procedimento contro Ripple accusandola di aver immesso sul mercato un “titolo di borsa” (security), cioè il token XRP, privo della necessaria autorizzazione.

Non serve aggiungere che i token e le criptovalute oggi non sono catalogate come “titoli di borsa”. In realtà una delle discussioni fra i vari enti regolatori americani è proprio se considerare le cripto come “titoli di borsa” o come valute. Ogni ente regolatore ha un parere diverso dagli altri; percio’ si tratta di una questione assai controversa.

Inoltre nel processo è ora emerso dai documenti e le email interne della SEC, che in quel periodo i suoi funzionari non consideravano ancora XRP come un “titolo di borsa”.

Perché è cosi’ importante?

Perché la costituzione degli Stati Uniti vieta alle agenzie governative di aprire un procedimento contro una società per una certa condotta senza prima aver avvisato la società che quella condotta era, appunto, illegale.

In questo ambiente dettato da regole molto complicate, una società puo’ portare avanti una attività senza rendersi conto che possa essere vista come illegale in base a una certa angolatura normativa.

Per questa ragione la legge stessa tutela le società da questi fraintendimenti, decretando che solo nel caso che la società in questione, nonostante l’avvertimento, prosegua nella condotta illegale, allora sia possibile determinare una vera intenzione fraudolenta e quindi procedere legalmente contro di essa.

Come dicevo, le indagini mostrano che la SEC non solo non ha rispettato le procedure, mettendo sull’avviso Ripple prima di procedere contro di essa, ma in realtà nel momento in cui ha perseguito Ripple non aveva lei stessa classificato il token XRP come “titolo di borsa”.

Dal canto suo invece Ripple è stata sempre attenta nel garantire la sua conformità normativa, perché fin dall’inizio si è specializzata nel settore delle istituzioni finanziarie tradizionali, incluse diverse banche centrali.

Oggi oltre 300 istituzioni finanziarie in 40 paesi hanno adottato la tecnologia di trasferimento di denaro di Ripple.

Parliamo quindi di una società che ha fatto della legalità e della conformità alle giurisdizioni finanziarie il suo marchio di fabbrica.

La sua reputazione nel settore ha certamente rafforzato la sua decisione di prendere il toro per le corna e portare avanti il chiarimento legale fino alle sue estreme conseguenze.

Ripple e le altre società che hanno fatto fronte comune sanno bene che se la SEC prevalesse, sarebbe un precedente per decretare quasi tutti i token e le criptovalute come “titoli di borsa”.

In tal caso, qualsiasi altra società del settore potrebbe essere colpita legalmente con l’accusa di aver quotato il suo token senza il permesso della SEC.

Sarebbe l’avvio di una serie infinita di procedimenti legali che paralizzerebbero l’industria della blockchain in America e di fatto farebbero perdere agli USA il primato finora raggiunto in questa tecnologia chiave del futuro.

Ma, come il suo pendant fuorilegge di Binance, Gensler non è minimamente preoccupato delle conseguenze sistemiche ed economiche del suo gesto.

Come abbiamo già notato nella politica e in tanti altri settori, siamo ormai nell’epoca dei “bulli”, e il mondo finanziario non fa eccezione.

Sembra pero’ che nel caso di Ripple, proprio grazie alle irregolarità emerse dalle indagini sulla SEC, per una volta la giustizia potrà fare il suo corso.

La nuova economia di guerra americana

In un precedente articolo abbiamo detto che i rialzi dei tassi della Federal Reserve non hanno nulla a che vedere con la lotta all’inflazione, ma piuttosto con il tentativo di destabilizzare altri paesi con la forza di un dollaro ai massimi storici.

La Fed ha già attuato in passato delle politiche monetarie a sostegno dei piani del governo e non sulla base di obiettivi economici. Richard Nixon, Lyndon Johnson e Bill Clinton hanno tutti fatto pressioni sulla Federal Reserve a questo scopo.

E’ noto ad esempio che il presidente Johnson spinse l’allora capo della Fed, William Martin, a mantenere tassi bassi per finanziare la guerra in Vietnam.

Oggi l’attuale politica “filogovernativa” della Fed si inserisce nel quadro piu’ generale di “economia di guerra” che l’amministrazione Biden ha messo in campo.

La volontà di provocare una recessione globale, che abbiamo detto essere l’obiettivo vero dei rialzi dei tassi della Fed, è stato fin da subito un obiettivo di guerra.

Gli Stati Uniti pensavano inizialmente che l’aumento dei tassi e il dollaro forte, causando una recessione globale, avrebbero portato a un calo della domanda di petrolio.

Un calo che avrebbe indebolito l’economia russa, costringendo cosi’ l’avversario al tavolo delle trattative.

Oggi sappiamo che questo obiettivo non è stato raggiunto, perché la Russia ha aumentato le esportazioni verso altri paesi, bilanciando le mancate vendite in Europa.

Tuttavia, la guerra in Ucraina ormai è in corso e non si puo’ certo fermare cliccando sul telecomando…

Gli Stati Uniti si trovano cosi’ in ostaggio del loro “alleato”, al quale finora hanno devoluto 80 miliardi di dollari in aiuti che si assommano ad altre spese governative di cui ora parleremo…

Per farlo, dobbiamo anzitutto stabilire con precisione la vera causa della guerra in Ucraina, che è anche l’origine di questa economia di guerra pianificata dagli USA.

Le politiche green e l’Ucraina: l’inizio di tutte le sventure

Ad agosto di quest’anno, gli Stati Uniti varano l’Inflation Reduction Act, una legge che prevede un faraonico finanziamento pubblico di $ 737 miliardi al settore delle auto elettriche e delle energie rinnovabili e il cui impatto sull’inflazione, come afferma L’Università della Pennsylvania “è statisticamente indistinguibile da zero”.

In realtà, l’Inflation Reduction Act è un mini-Green New Deal che, oltre a finanziare l’industria green, stanzia anche decine di miliardi per ostacolare lo sviluppo delle pratiche di raffinazione della benzina, in modo da aumentare il prezzo del carburante alla pompa e spingere i consumatori verso l’uso dei veicoli elettrici.

E qui iniziano i problemi…

L’aumento di progetti di auto elettriche nelle case automobilistiche ha fatto aumentare vertiginosamente la domanda di litio, il componente piu’ importante delle batterie di queste auto.

E dal momento che anche la Cina ha varato un programma simile per spingere lo sviluppo di questo settore, è partita la corsa tra le due superpotenze per l’accaparramento delle miniere di questo minerale.

Ma dove si trova il litio?

Il 90% delle riserve globali si trova in Australia, Cile e soprattutto in Cina

E dal momento che le relazioni tra USA e Cina non sono certo idilliache, gli Stati Uniti si sono trovati a doversi inventare qualcosa per risolvere il problema della carenza di litio abbastanza in fretta, in modo da raggiungere gli obiettivi di produzione di veicoli elettrici previsti dall’Inflation Reduction Act entro il 2030.

Ora, l’Ucraina, con le sue circa 500.000 tonnellate di ossido di litio, è probabilmente la più grande riserva di ossido di litio non sfruttata al mondo…

Improvvisamente, la guerra per procura con la Russia ora ha più senso, cosi’ come lo hanno gli $ 80 miliardi inviati finora dagli Stati Uniti in aiuto all’Ucraina…

Non dico che il litio è l’unico motivo per cui l’Occidente sta dissanguando le sue risorse in Ucraina, ma è sicuramente uno dei maggiori incentivi…

L’esplosione del debito pubblico USA

Riassumendo quindi, se sommiamo i 737 miliardi di dollari di spesa dall’Inflation Reduction Act e gli 80 miliardi di dollari in aiuti esteri all’Ucraina, abbiamo oltre 800 miliardi di dollari in nuove spese governative autorizzate nel 2022.

Grazie a questi stanziamenti, il debito del governo federale degli Stati Uniti ha cosi’ superato i 31 trilioni di dollari, cioè quasi il 135% del prodotto interno lordo annuo degli Stati Uniti.

E tutto questo accade mentre i paesi stranieri stanno scaricando i titoli del Tesoro degli Stati Uniti al tasso più veloce degli ultimi decenni.

Perché i paesi fanno questo?

Non certo per far crollare il dollaro, come dicono i complottisti.

In realtà lo fanno per procurarsi i dollari necessari a comprare alimenti e petrolio, due beni che, grazie alla salita del dollaro, sono diventati costosissimi.

Quindi, in sostanza, l’economia di guerra USA è un cane che si morde la coda:

Il circolo vizioso in cui è caduta l’America

Il rialzo dei tassi e il rafforzamento oltre misura del dollaro sono per gli USA un’arma non convenzionale contro la Russia e la Cina. Arma che pero’ si ritorce contro il bilancio americano, dato che produce l’effetto collaterale di costringere i paesi a ridurre le riserve di debito di stato USA, col rischio di amplificare la riduzione dei prezzi di questi titoli provocata dai rialzi dei tassi della Fed.

Inoltre, l’aumento vertiginoso della spesa pubblica e quindi dei titoli di debito emessi per finanziarla, comportano un aumento ulteriore della spesa pubblica per pagare gli interessi di questo debito.

Tutto questo può continuare forse ancora per diversi mesi. Ma non può andare avanti per sempre. La combinazione di rendimenti in aumento ed esplosione della spesa pubblica finirà per mettere a rischio il mercato delle obbligazioni di stato americane.

Come uscirne?

Bisogna capire che, per uscire da una situazione cosi’ ingarbugliata, gli USA non possono certo agire sui fattori piu’ difficili da controllare.

Non possono ad esempio fermare la guerra in Ucraina con un click del mouse.

Non possono distruggere con una guerra atomica la Russia o la Cina.

Non possono costringere la Cina a far ripartire le esportazioni di litio o di altri materiali.

Non possono creare in pochi mesi nuove produzioni di semiconduttori sul loro territorio.

Non possono tornare indietro sugli stanziamenti già effettuati, né annullare il Green Deal che era alla base della campagna elettorale democratica.

In realtà, l’unica misura capace di risolvere in poche settimane questo casino è un nuovo QE, cioè un ritorno all’acquisto di titoli di stato e un abbassamento dei tassi d’interesse da parte della Fed.

Data la gravità della situazione nel mercato delle obbligazioni di stato USA, la questione non è “se”, ma “quando” la Fed riprenderà ad abbassare i tassi.

Ci sono due possibilità:

  • la Fed puo’ farlo in anticipo, prima che scoppi una crisi obbligazionaria (quindi potrebbe farlo già nel meeting di stasera),
  • oppure aspetterà che la crisi abbia luogo, in tal caso l’intervento della banca centrale avverrebbe nella prima metà dell’anno prossimo.

Considerando l’elevato tasso di confusione e irresponsabilità che sempre viene raggiunto in situazioni di guerra, la seconda ipotesi è forse quella piu’ probabile.

In tal caso, la Fed potrebbe aspettare che il core PPI (l’inflazione sui prezzi al consumo meno alimenti ed energia) scenderà fino a raggiungere il tasso dei fondi federali, ossia nell’intervallo del 5-6%.

Quando il core PPI raggiungerà questo risultato, vedremo un forte rally di mercato di breve termine. Ma perché questo rally diventi un trend di lungo periodo, dovremo attendere che la Fed annunci il nuovo QE.

Perché tutto cio’ dovrebbe accadere entro sei mesi?

Perché gli Stati Uniti saranno l’ultimo paese a sperimentare stress sui mercati del debito sovrano.
Quando vedremo le aste del Tesoro degli Stati Uniti andare in tilt come già accaduto in Giappone o in UK, allora la Fed dovrà intervenire e fornire liquidità.

E questo potrebbe accadere già entro i prossimi sei mesi…

Sarà in quel momento che le borse festeggeranno…

L’agenda segreta delle banche centrali sull’oro

Tutti sanno che le valute fiat possono prosperare solo se viene scoraggiato l’uso di possibili asset concorrenti, come appunto è l’oro.

E difatti, nessuno puo’ negare che negli ultimi dieci anni le banche centrali abbiano attuato con successo questa riduzione dell’oro al rango di “reliquia barbarica”, almeno in occidente.

Tuttavia non si puo’ nemmeno negare che dall’inizio del dollar standard nel 1971 (quando il valore del dollaro non fu piu’ legato all’oro) le quotazioni dell’oro non sono finite in un limbo, ma al contrario hanno continuato ad avere un comportamento coerente con le alterne vicende delle valute fiat.

Se guardiamo il grafico qui sotto, vediamo come l’oro sia rimasto “a cuccia” solo nel primo periodo “felice” del dollar standard, fra gli anni ’70 e i ’90 (primo rettangolo a sinistra):

Dopodichè (secondo rettangolo), non appena le banche centrali, agli inizi del XXI secolo, hanno iniziato a manipolare in modo crescente le loro valute, l’oro ha iniziato una salita del tutto coerente con la progressiva perdita di valore delle valute stesse.

Solo fra il 2011 e il 2015 (terzo rettangolo) c’è stato un tentativo di annullare questa correlazione tra valute e oro, perchè la crisi dei debiti sovrani in alcuni paesi europei aveva fatto temere un pericolo di fuga dall’euro.

Ma dopo quella data (ultimo rettangolo) la correlazione inversa tra oro e valute fiat è ripresa (mentre le banche hanno iniziato a inserire l’oro nei propri bilanci, grazie alle nuove norme di Basilea III) confermando il ruolo centrale che il metallo giallo ha saputo mantenere a dispetto del dollar standard.

 

Perchè il dollar standard non ha ucciso l’oro? Prime ipotesi…

Ho sempre cercato di dare un senso al fatto che l’oro in realtà non sia mai rimasto escluso dalla finanza globale, come era invece previsto nei piani iniziali del dollar standard.

Bisogna risalire al clima che c’era in quegli anni.

Gli USA volevano disperatamente risolvere la crisi di credibilità del dollaro che non si era affatto risolta con la proclamazione del dollar standard.

Percio’, negli anni ’70, arrivarono a minacciare di lasciare la Germania in balia dell’URSS, se questo paese, con il suo mercato aurifero di lunga tradizione, non avesse accettato il prezzo fisso dell’oro decretato a Bretton Woods.

Ancora oggi il Tesoro USA registra le proprie riserve auree al prezzo ormai irrealistico di 42,22 dollari l’oncia, cioè il prezzo di Bretton Woods.

Al contrario le banche centrali dei paesi europei, fin dagli anni ’80, quindi molto prima della creazione dell’euro, hanno abbandonato in blocco questa follia, adottando invece il normale prezzo di mercato del metallo giallo.

A parte questi episodi, pero’, non avevo mai pensato che le banche centrali potessero avere avuto un ruolo attivo nel determinare il posto che l’oro ha continuato a mantenere nella finanza globale.

Al contrario, ho sempre creduto che la rivalutazione a lungo termine di questo asset fosse dovuto a una naturale pressione del mercato, al quale le manipolazioni a ribasso delle bullion bank possono controbattere fino a un certo punto.

Ho anche riflettuto sul fatto che, dopo Basilea III, per la prima volta le banche hanno iniziato ad avere interesse a non far crollare l’oro troppo in basso, visto che ora possono aggiungerlo per legge nei loro bilanci sempre piu’ disastrati.

Ma finora non avevo mai immaginato che tra banche e oro potesse esserci stato qualcosa di piu’ di queste relazioni intermittenti e contraddittorie.

 

…Poi, la rivelazione: dagli anni ’90 esiste un progetto segreto delle banche centrali europee

Percio’, quando mi sono imbattuto in questo articolo di The Gold Observer, mi si è aperta una prospettiva completamente diversa e ho iniziato a capire molte cose che prima non riuscivo a spiegarmi.

Secondo questo articolo, dopo la proclamazione del dollar standard, i paesi europei hanno iniziato a prendere contromisure in un modo molto piu’ sistematico e strutturato di quanto pensavo.

Non voglio qui elencare tutte le prove, indiziarie, ma schiaccianti, esposte nell’articolo. Mi limito percio’ a riassumere per sommi capi la strategia delle banche centrali europee che se ne puo’ desumere…

 

Il piano delle banche centrali: un gold standard a protezione del debito pubblico

La strategia è dotare tutte le banche centrali del mondo (comprese quelle dei paesi allora definiti “emergenti”) di una riserva aurea coerente col proprio PIL e con le riserve altrui.

Lo scopo di queste riserve auree equamente distribuite è quello di poterle usare come collaterale per l’estinzione di un eccesso di debito sovrano.

Secondo l’articolo citato, l’Europa si sta preparando a questo “reset” del debito fin dagli anni ’90, cioè dall’inizio della manipolazione delle valute fiat e la conseguente creazione di debito a tempo indeterminato.

Infatti in questo grafico possiamo vedere in modo evidente come le riserve auree dei vari paesi si siano armonizzate sempre piu’ nel tempo:

Come è avvenuta questa armonizzazione?

Negli anni ’90 le banche centrali dell’Europa occidentale che avevano riserve superiori rispetto al loro PIL hanno iniziato a vendere oro alle banche centrali che ne avevano di meno, in modo da equalizzare le proprie riserve auree tra loro e tra le grandi economie al di fuori dell’Europa.

Dal 1999 al 2008 queste transazioni sono persino state ufficializzate da un “programma concertato di vendita” incluso nel cosiddetto Central Bank Gold Agreements.

Anche il fatto che diverse banche centrali europee (Paesi Bassi, Austria, Francia, Germania, Ungheria, Polonia) abbiano rimpatriato l’oro negli ultimi anni, fa parte di questo piano decennale.

 

Il gold standard delle banche centrali (diverso dal gold standard “classico”)

Alla fine, questa redistribuzione delle riserve auree non ha fatto altro che creare un gold standard generalizzato.

Non si tratta pero’ del gold standard “classico” di cui parlano i complottisti; quello cioè nel quale l’oro è in rapporto alla base monetaria.

Il gold standard europeo mira invece a pareggiare i rapporti oro/PIL in modo che, in caso di bisogno, si possa in poco tempo arrivare a un prezzo target dell’oro condiviso da tutti.

Nel gold standard classico, è possibile cambiare banconote con oro a un prezzo fisso presso la banca centrale, perchè il valore della moneta è sostenuto dall’oro (di fatto la Russia ha da poco implementato questa soluzione, decretando un cambio fisso tra rublo e oro).

Nel gold standard europeo invece, le persone possono scambiare oro nel libero mercato a un prezzo stabilizzato dalla politica monetaria della banca centrale.

Il passaggio a questo “gold standard “europeo è stato graduale, perchè se fosse accaduto in modo brusco, avrebbe spinto il mondo in una forte deflazione.

Il risultato di questa equa distribuzione è che ora, se ci fosse necessità di un reset monetario nell’eurozona, ciascun paese sarebbe in grado di pareggiare il proprio rapporto oro/PIL con poche vendite o acquisti di oro, preparandosi cosi’ a estinguere il debito in eccesso.

Ma come potrebbe avvenire in pratica un reset monetario usando l’oro? Ad esempio in caso di un rischio di default del debito?

Un modo per cancellare il debito senza scatenare un’inflazione è che le banche centrali acquistino tutto il debito in eccesso (cioè i titoli di stato emessi) e poi rivalutino l’oro, portandolo a un prezzo target che permetta di controbilanciare il passivo creato dal debito incamerato in bilancio.

Ecco dunque spiegato in modo semplice il piano delle banche centrali europee di cui parlava l’articolo citato all’inizio.

 

Riflessioni finali: dobbiamo riconsiderare tutto quello che credevamo di sapere su oro e banche centrali e sulla debolezza delle valute fiat?

Molti pensieri mi si affollano nella mente dopo aver letto quell’articolo. Eccone alcuni:

  • Le vendite di oro effettuate in passato da alcune banche centrali occidentali (e che attribuivamo a imprudenza o al deliberato tentativo di raffreddare le quotazioni) vanno ripensate. Molte di esse servivano solo a fornire oro alle banche centrali che ne erano sprovviste o ne avevano poche.
  • Anche il trasferimento epocale di oro da ovest a est a cui abbiamo assistito negli ultimi dieci anni potrebbe aver avuto in parte come scopo un riequilibrio delle scorte tra Europa e paesi emergenti.
  • Finora le banche centrali occidentali e quelle orientali non hanno mai avuto le divergenze che pensavamo sull’uso dell’oro in relazione alle valute fiat.
  • La recente decisione della banca centrale russa di creare un gold standard “classico” segna la fine della collaborazione della Russia al gold standard “europeo”; quindi è un atto piu’ ostile di quanto si pensi.
  • Dopo la creazione dell’euro, il piano iniziale delle banche centrali europee di cui abbiamo parlato è stato poi portato avanti dalla BCE con un’apparente continuità di intenti. Tuttavia siamo sicuri che al momento del bisogno questa banca centrale avrà il coraggio di avviare il reset monetario previsto dal piano? Infatti:
  • Gli USA sono arrivati al capolinea del dollaro e possono continuare a mantenere il dollar standard solo con la forza. Per questo, sfruttando la crisi ucraina e la forza del dollaro, hanno di fatto “commissariato” l’Europa. Non sembra quindi possibile che in questa Europa al collasso e concentrata sulla sopravvivenza quotidiana vi sia ancora la mentalità giusta, lo spazio di manovra e la capacità tecnica di attuare un reset cosi’ ambizioso e complesso (e che farebbe uscire dai gangheri l’ex alleato, ormai padrone, americano).

D’altronde, se questo piano era stato pensato per le emergenze, cosa aspettano a realizzarlo proprio ora? Non siamo già in emergenza?

Visto che questo progetto avrebbe dovuto servire a ripianare il debito pubblico “senza generare inflazione”, perchè non attuarlo ora che l’inflazione è già alle stelle?

Evidentemente sono sopravvenuti altri fattori che gli originali ideatori di quel piano non avevano previsto (imposizione del dollaro, crisi di tutte le valute in contemporanea, crollo delle economie che dovrebbero sostenere le valute dopo il reset, difficile controllo sulle abitudini finanziarie della popolazione, e chi piu’ ne ha piu’ ne metta…).

Questo piano ambizioso concepito dai nostri predecessori sta diventando ormai sempre piu’ simile a quei bunker antiatomici costruiti dai milionari e che al momento del bisogno si rivelano inutili…

Il fatto è che nessuno, soprattutto a distanza di decenni, puo’ realmente prevedere gli eventi che si scatenano in una vera crisi…

Tuttavia, la scoperta di questo piano comune delle banche centrali sull’oro ci fornisce almeno una spiegazione razionale e plausibile al fatto che l’oro nel lungo periodo non riesca a superare una certa soglia (quella piu’ recente è intorno ai 2000 dollari) nonostante le condizioni cicliche ed economiche potrebbero far pensare diversamente.

Le banche centrali di tutto il mondo hanno un accordo preciso sul prezzo dell’oro e finora sono riuscite a mantenerlo in modo molto efficace.

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