mercoledì, Luglio 16, 2025

Il Regno Saudita invia 20 petroliere sulle coste USA

Ieri avevamo appena pubblicato un articolo sulla possibile escalation militare del conflitto fra i due produttori mondiali di petrolio: America e Regno Saudita, a poche ore dal crollo dei futures del petrolio trasmesso dai media in serata.

Oggi pubblichiamo questo aggiornamento sui risvolti del conflitto che i media stanno nascondendo. Ci sono infatti delle novità spiacevoli.

Nell’articolo precedente avevamo accennato al fatto che Trump, con l’aiuto di alcuni paesi europei, stava preparando un colpo di stato contro Maduro per impossessarsi delle riserve del Venezuela e far alzare cosi’ le quotazioni a un livello accettabile per la sopravvivenza dei produttori di scisto americani.

Avevamo anche detto che, nonostante i paesi europei avessero già inviato navi da guerra presso le coste venezuelane, affondando anche una nave della guardia costiera locale, l’operazione è stata bloccata dal push di alcuni generali del Pentagono, che si sono rifiutati di imbarcare gli equipaggi sulle navi con la scusa del Covid-19.

Ieri, approfittando della situazione di quasi colpo di stato creata da questi generali, con conseguente congelamento della capacità di risposta militare americana nel breve termine, l’Arabia Saudita ha inviato presso le coste USA 20 tanker con 40 milioni di barili di greggio allo scopo di inondare ulteriormente i depositi americani di materia prima (l’articolo del WSJ qui).

Le petroliere dovrebbero arrivare presso le coste del Texas e della Louisiana a maggio.

Secondo Kirk Edwards, presidente della compagnia texana Latigo Petroleum, questa iniziativa saudita è la “Pearl Harbour dei produttori americani di scisto”. E, come l’analogo episodio che costrinse gli USA a scendere in guerra durante il secondo conflitto mondiale, anche questa vicenda potrebbe spingere Trump a prendere iniziative senza precedenti, magari di tipo militare.

Come potrebbero essere attuate tali iniziative, visto l’attuale standby della marina militare e l’insubordinazione del Pentagono, è pero’ tutto da vedere.

Di certo questo doppio attacco all’America, sia interno che esterno, non promette niente di buono….

I venti di guerra sul petrolio continuano

Dagli inizi di marzo stiamo osservando gli sviluppi della clamorosa decisione dell’Arabia Saudita di tagliare il prezzo del petrolio a un livello che danneggia il maggiore esportatore al mondo: gli Stati Uniti.

Mentre nel nostro primo articolo del 3 marzo ci eravamo limitati a registrare l’avvenimento, nel nostro articolo successivo del 27 siamo stati fra i pochissimi media italiani a mettere in connessione questa crisi con una probabile decisione statunitense di risolvere la questione con le armi.

Purtroppo gli sviluppi allarmanti di questa crisi sono andati avanti e si stanno svolgendo sotto i nostri occhi nell’assordante silenzio dei media.

Dopo la vittoria della insolita coalizione tra Iran e Emirati sponsorizzata dagli USA nello Yemen, il Regno Saudita, in situazione di vulnerabilità grazie al Covid-19 che ha ridotto all’impotenza 150 membri della famiglia reale, ha dovuto proclamare una tregua dei combattimenti, ufficialmente per “motivi umanitari”.

Nello stesso tempo, Trump ha minacciato di prendere possesso dell’Aramco, l’azienda petrolifera di stato saudita e ha anche ridotto la produzione di scisto per cercare di far riprendere le quotazioni.

Arriviamo cosi’ al compromesso raggiunto il 9 aprile, nel quale, su esortazione americana, Russia e Opec hanno concordato di ridurre la produzione di 10 milioni di barili al giorno a maggio e giugno, di otto milioni al giorno nel secondo semestre 2020 e di sei milioni al giorno per i successivi 16 mesi.

Questa decisione, per quanto drastica, compensa solo per un terzo il crollo del consumo mondiale provocato dall’epidemia.

Inoltre, non è detto che tutti i produttori rispetteranno il patto. Ad esempio, il Messico è disponibile a una riduzione di soli 100 mila barili al giorno, invece dei 400 mila stabiliti; il che costringerebbe Trump a ridurre la produzione USA di ulteriori 250 mila barili a compensazione di quelli mancanti del Messico, senza peraltro raggiungere il calo totale concordato.

Ulteriori misure potrebbero portare vantaggi e svantaggi insieme.

Ad esempio, Trump potrebbe aumentare i diritti di dogana sulle importazioni di petrolio a buon mercato, in modo da salvare l’industria del petrolio di scisto, ma penalizzando i consumatori americani, mentre il Congresso potrebbe approvare una proposta di legge risalente al 2007, che condanna gli Stati membri dell’OPEC per pratiche che non rispettano la concorrenza.

Ma l’unica soluzione davvero risolutiva sarebbe – anzi è – ancora una volta quella militare.

Ecco perché il presidente Trump ha ritenuto che, per far fronte al crollo del prezzo del petrolio, non c’è altra scelta che impossessarsi con la forza delle più importanti riserve mondiali, cioè quelle del Venezuela.

Per portare avanti questo ardito programma, Gli Stati Uniti hanno convinto l’Unione Europea ad associarsi a un’operazione che prevede il sequestro del presidente Maduro e dell’uomo forte del Paese, Diosdado Cabello, mentre Regno Unito, Francia, Spagna, Portogallo e Olanda – ossia le ex potenze coloniali dell’America Latina – si sono fatte avanti come volontarie sul campo.

Dopo che il 26 marzo il Dipartimento della Giustizia USA aveva emesso un ordine di cattura nei confronti del presidente Maduro e della sua squadra, accusati di traffico di droga, agli inizi di aprile una nave-spia portoghese, RCGS Resolute, è riuscita ad affondare una nave guardacoste venezuelana, che stava fermandola per un’ispezione, fuggendo poi nel protettorato olandese di Curaçao.

Intanto Francia e Regno Unito inviavano in zona due navi da combattimento: il porta-elicotteri anfibio Dixmunde e il portacontainer RFA Argus, assieme a un cacciatorpediniere e diverse navi della marina statunitense poste sotto il comando della Drug Enforcement Agency.

Questa operazione pero’ è stata interrotta da un evento inaspettato…

Negli Stati Uniti infatti una parte degli ufficiali del Pentagono che già avevano tentato di rovesciare il presidente Trump con il Russiagate e l’Ukraintegate, hanno preso in considerazione l’ipotesi d’instaurare una legge marziale per poter “combattere l’epidemia” a livello federale e intanto si sono rifiutati d’impegnare truppe in Venezuela.

Nei media la vicenda è passata come un rifiuto, da parte di alcuni comandanti, di far imbarcare uomini in nave col pericolo di contrarre l’infezione virale, ma intanto la prova di forza tra Stati federati e Stato federale da un lato e militari dall’altro sta proseguendo. E se a un certo punto fosse davvero proclamata la legge marziale, gli ufficiali ribelli potrebbero creare un governo provvisorio di emergenza con la scusa di proteggere la salute degli Americani.

Intanto l’America non puo’ permettersi di perdere il suo fiore all’occhiello: il settore produttivo di scisto. E la discesa delle quotazioni potrebbe aggravarsi, rischiando di portare tutti i nodi al pettine in queste gravissime escalations interne e esterne agli Stati Uniti.

Certo, è del tutto inspiegabile il silenzio dei media su queste vicende, ma da parte nostra sentiamo il dovere di informare il maggior numero di persone possibile. Quindi continueremo a monitorare questa gravissima crisi, come facciamo già da inizio marzo.

Il team di Strategie Economiche

Perché il petrolio in contango è l’investimento dell’anno

Il mercato del petrolio è letteralmente inondato di greggio, e questo sta creando una situazione unica nel suo genere nel settore dello stoccaggio petrolifero:

Come si vede in figura, le scorte hanno superato i massimi del 1982 e del 2016.

Si prevede che nei prossimi 1-3 mesi gli stoccaggi terrestri, cioè serbatoi, vagoni ferroviari e le stesse pipeline saranno completamente pieni e quindi sarà il turno degli stoccaggi in mare:

Questo trend non si fermerà certo con l’accordo, piu’ di facciata che di sostanza, raggiunto da OPEC e Putin sul taglio di produzione.

I conti sono presto fatti: i tre maggiori produttori al mondo mettono sul mercato circa 35 milioni di barili al giorno. Se la domanda si è ridotta di circa 25-30 milioni di barili, vuol dire che il taglio di 10 milioni di barili al giorno concordato a inizio aprile non avrà alcuna influenza sul progressivo esaurimento degli stoccaggi.

Ma c’è un altro motivo che spinge i produttori a stoccare il petrolio.

Il prezzo del petrolio, nonostante l’accordo di facciata fra i produttori, sta scendendo rapidamente da 27 dollari circa a 18 dollari (molti pensano che potrà arrivare anche a 10 dollari). Tuttavia il prezzo dei futures petroliferi con scadenza a novembre è di 35,38 dollari.

Quando il prezzo attuale di un asset è inferiore al prezzo futuro, abbiamo il fenomeno chiamato “contango”.

Il contango permette ad alcuni investitori di acquistare petrolio oggi, immagazzinarlo, bloccare quel prezzo e venderlo a novembre con un enorme profitto.

Questo fattore ulteriore sta facendo salire alle stelle le tariffe di noleggio per le petroliere su cui è possibile stoccare queste scorte, visto il prossimo rapido esaurimento degli stoccaggi a terra.

I canoni di leasing per un vettore di greggio di grandi dimensioni (VLCC), normalmente di circa $ 40.000 al giorno, oggi hanno superato i $ 200.000.

Le tariffe spot delle navi cisterna per prodotti hanno superato i $ 60.000 al giorno, rispetto alla media di $ 19.000 al giorno.

Su una capacità di stoccaggio offshore stimata di 400 milioni (bbl), 100 milioni di bbl sono attualmente già utilizzati. Considerando che, secondo S&P Global Platts, sono disponibili 1,1 miliardi (bbl) di stoccaggio globale (a terra e a mare) e stimando un eccesso di offerta nel secondo trimestre di 18 milioni, tutto questo equivale a circa 60 giorni di capacità residua.

L’ultimo fattore che farà aumentare ulteriormente i guadagni per lo stoccaggio in mare è che, a causa dell’assoluta distruzione del mercato petrolifero negli ultimi cinque anni, c’è un deficit nel numero di navi disponibili.

Le nuove navi impiegano anni per essere costruite e la maggior parte dei costruttori in Corea del Sud e Cina sono chiusi.

A causa del debole mercato dei charter negli ultimi due anni, la maggior parte delle navi cisterna non è stata bloccata ed è pronta a offrire servizi di stoccaggio alle nuove tariffe più elevate.

Un investimento a medio termine sulle principali compagnie che gestiscono queste navi puo’ essere una buona idea.

 

La liquidità della Federal Reserve sta finalmente salvando le borse?

Siamo in un momento cruciale sulla strada del salvataggio dei mercati da parte della Federal Reserve.
Nelle ultime 6 settimane, la Fed ha stampato una quantità di denaro equivalente al PIL del Brasile.
Nelle prossime 6 settimane, stamperà l’equivalente del PIL della Francia.
In definitiva, tutto questo sta funzionando o no?
Con  questa liquidità, la Fed sta comprando direttamente i seguenti asset:
  1. Titoli di stato USA.
  2. Obbligazioni di entità statali locali americane (“Muni bonds”).
  3. Obbligazioni di aziende private, sia “investment grade” che “high yeld”.
  4. Obbligazioni a breve termine di aziende private (“short term corporate debts”).
  5. Strumenti di borsa legati a debiti privati, come quelli delle carte di credito, delle automobili ecc.
  6. ETF che investono in tutti gli asset elencati nei punti precedenti.
Attraverso il salvataggio di tutti questi livelli del settore obbligazionario, la Fed prevede di agire indirettamente anche sul mercato azionario.
Infatti, solitamente è l’obbligazionario che trascina l’azionario, anche per il semplice fatto che il primo mercato vale 18 miliardi, mentre il secondo solo 3.
Ora, venerdi scorso per la prima volta abbiamo avuto un segnale di ripresa nel settore obbligazionario.
Infatti ci sono stati dei gap up (delle rotture verso l’alto) sia nel mercato delle obbligazioni a basso rischio (investiment grade) che in quelle ad alto rischio (high yeld).
Qui di seguito, ecco il grafico investiment grade e poi quello high yeld:
Notiamo anche che nell’investiment grade è stato praticamente colmato quasi tutto il ribasso di marzo, mentre nell’high yeld non ancora del tutto.
A quanto mi sembra di vedere, possiamo aspettarci una fase laterale in cui i due grafici andranno avanti su quei livelli senza spostamenti degni di nota.
Per capire se anche i rialzi del mercato azionario avvenuti nelle scorse settimane hanno un futuro o sono un fuoco di paglia, dobbiamo quindi monitorare la tenuta di questa eventuale fase laterale nell’obbligazionario.
L’investment grade riuscirà a consolidarsi su quel livello o a superarlo? L’high yeld riuscirà a colmare interamente le perdite di marzo? E’ quello che dovremo vedere man mano che il “PIL della Francia” verrà immesso nei mercati….
Il team di Strategie Economiche

Brutto segnale dalle banche USA: i loro bilanci saranno secretati?

Se nel bel mezzo di una crisi economica la banca centrale pubblica un appello a rendere segreti i bilanci delle banche, vuol dire che dobbiamo davvero allarmarci.

E’ proprio cio’ che sta succedendo negli USA, dove il ramo newyorkese della Federal Reserve ha pubblicato in questo articolo un’analisi storica approfondita della crisi del ’29 che mostrerebbe l’utilità di nascondere i bilanci bancari nei momenti di crisi.

Precisiamo, a scanso di equivoci, che la Fed di New York non è uno dei tanti uffici periferici della banca centrale americana. Al contrario, la Fed di New York è la filiale operativa principale della Federal Reserve, in quanto si occupa di attuare nella pratica tutte le misure decise a livello federale.

La Fed di New York, in quanto società privata le cui quote sono detenute dalle principali banche private americane, in sostanza è la centrale operativa di tutto il sistema bancario americano. 

Quindi se questa istituzione chiave del sistema finanziario USA pubblica un appello a oscurare i bilanci delle banche, possiamo scommettere che tali bilanci nei prossimi mesi saranno in grado di generare un allarme sociale, se restassero visibili per tutti.

La cosa non dovrebbe stupire, dato che le banche USA stanno per affrontare un lungo periodo in cui i mutui delle famiglie, dei grandi proprietari immobiliari e degli imprenditori non verranno pagati per molti mesi, cosi’ come gli affitti delle famiglie e dei locali commerciali, mentre il mercato dei subprime legati ai debiti delle carte di credito e delle auto continueranno la loro caduta che era già iniziata prima della crisi.

Nella visione della Fed di New York, i prevedibili effetti distruttivi di questa situazione creerebbe delle disparità tra i bilanci delle banche piu’ in difficoltà e quelle che riusciranno ancora a stare a galla, col pericolo che si crei una fuga di capitali e un travaso di questi verso le banche migliori.

E qui la preoccupazione della Fed non è rivolta ai capitali depositati dalle famiglie e dai singoli individui (che in America non costituiscono una quota rilevante degli asset bancari), ma piuttosto ai depositi delle aziende, delle multinazionali, degli hedge funds e degli enti governativi statali e locali.

Se questi depositi venissero a mancare in una singola banca, questa si avvierebbe al default dopo 24 ore…

Ma peggio ancora, questo effetto si ripercuoterebbe sui rendimenti delle obbligazioni che verrebbero vendute assieme a tutti gli altri asset detenuti da questi grandi depositi, finendo col vanificare gli sforzi monetari della banca centrale.

Insomma, se ve ne fosse ancora bisogno, questo è un altro allarmante indizio della precarietà della situazione.

Nonostante la cifra di 1300 miliardi al mese di liquidità iniettati dalla Federal Reserve sembri una quantità enorme, è evidente che non basta a riportare la situazione alla normalità, bensi’ solo a mantenere in vita un equilibrio precario che un soffio di vento puo’ sempre scompaginare…

E se questo vale per l’America, vale anche di piu’ per l’Europa…

Il team di Strategie Economiche

Il MES spiegato ai principianti

Oggi desidero segnalare un utilissimo articolo dell’Huffington Post in cui viene spiegata per la prima volta con estrema semplicità la diatriba sul MES che si è scatenata in Europa la settimana scorsa.

Il dato di partenza sono le mutate prospettive economiche italiane, che hanno fatto cambiare totalmente idea alle formazioni politiche attualmente al governo, che tradizionalmente erano sempre state a favore del MES.

Secondo le previsioni degli analisti, a causa delle misure prese a seguito dell’emergenza sanitaria il PIL italiano potrebbe subire una contrazione che va dal 2,6% all’11%. E questo nel contesto di una analoga contrazione complessiva del PIL europeo compresa tra il 2% e il 10%.

Finora eravamo abituati a discutere di differenze dello zero virgola, riguardo al PIL.

Riduzioni del PIL espresse in numeri interi, addirittura a due cifre percentuali, sono davvero terrificanti…

E di fronte a questa fosca prospettiva, la propaganda politica italiana prende la palla al balzo e invita a crogiolarsi sull’idea che ormai tutti i paesi europei sono sulla stessa barca. Di conseguenza, non dovrebbe essere un problema “salvare” l’Italia nel modo in cui i nostri politici vorrebbero.

In questo articolo spiegheremo perché questo ragionamento è illusorio e perché ci sono alcuni stati europei decisamente contrari a questa prospettiva.

L’Italia in pratica sta chiedendo all’UE di annullare le differenze tra le emissioni di debito dei vari paesi, in modo che i titoli di stato italiani siano identici a quelli tedeschi, olandesi ecc.

In sostanza è questo il motivo per cui Conte e la Merkel stanno litigando…

L’Huffington Post sostiene che questo litigio sia dovuto solo al fatto che la Germania e altri paesi non vogliono perdere il loro vantaggio competitivo con l’Italia.

Ora, non dico che cio’ non sia vero, ma se ci fermiamo solo a questo, scambiamo il dito per la luna…

La vera posta in gioco non è la semplice competizione fra stati.

La posta in gioco è il valore dell’euro rispetto al dollaro, e piu’ in generale i rapporti di forza fra le valute, che traduce i rapporti di forze tra le diverse economie del mondo.

Mi spiego meglio…

L’euro oggi è una valuta ancora in parte legata a fondamentali economici, perché il suo valore è supportato dalle sue “zone di pregio”, cioè da quelle parti ricche dell’eurozona le cui economie gli forniscono un valore reale.

La proposta italiana costringerebbe invece a determinare il valore dell’euro sulla base di un mero artificio contabile, non piu’ supportato, almeno in parte, da una economia reale.

Il ragionamento dell’Italia è che la pandemia ha comunque azzerato le differenze tra economie di pregio ed economie povere, quindi tanto vale annullare tutto e ricalcolare su nuove basi il valore della valuta europea.

Altri paesi invece considerano questo azzeramento come un effetto solo temporaneo dell’emergenza sanitaria.

Una volta cessato l’effetto negativo dell’epidemia, alcuni paesi sarebbero in grado di riprendersi e di dare nuovamente un valore fondamentale all’euro.

Quindi non ci sarebbe motivo di un reset dell’euro cosi’ drastico, che indebolirebbe la credibilità di questa valuta per sempre, solo per fare fronte a un problema temporaneo.

Bisogna ricordare che il valore di una valuta dipende dalla sua credibilità internazionale.

Non è un caso che i maggiori competitors degli USA, cioè Russia e Cina hanno sempre cercato in questi anni di ridimensionare la credibilità del dollaro.

Quindi, prima di sferrare un duro colpo alla reputazione dell’euro, mostrando al mondo che a partire da quest’anno la valuta europea diventerà una mera finzione contabile, è normale che ci si pensi due volte.

Qualunque sia la nostra opinione sulle politiche europee e su quelle italiane, sia che siamo sovranisti o globalisti, europeisti o anti-euro, se vogliamo fare delle previsioni realistiche su come si accorderanno i paesi europei rispetto al debito italiano, non possiamo ignorare questa posta in gioco che va oltre i pur probabili “egoismi” dei singoli paesi.

Puoi stare certo che, anche se i media non lo dicono, i paesi della zona euro, e ancora di piu’ la BCE, stanno valutando attentamente questa problematica.

L’assetto che verrà dato alla zona euro al termine dell’emergenza sanitaria influenzerà la forza economica europea per i decenni a venire.

Per quanto si possa avere a cuore il destino dell’Italia o di qualunque altro singolo paese, bisogna sapere che c’è anche questa posta in gioco, molto piu’ grande di noi.

Se siamo consapevoli di questa prospettiva, allora dobbiamo ammettere che, anche nello scenario migliore per l’Italia (per intenderci, se alla fine dovesse prevalere la linea di Draghi), gli altri paesi troveranno sempre il modo per differenziare i debiti pubblici dei singoli paesi.

Alla fine percio’, gli stati europei troveranno una specie di compromesso (che peserà ovviamente sulle spalle degli Italiani ignari).

Gli aiuti all’Italia verranno concessi, magari anche nella modalità desiderata dai governanti italiani, ma il governo sarà costretto a fare una ristrutturazione mascherata del proprio debito, non in modo esplicito col MES, ma in altri modi “nascosti”.

Il governo tornerà “vincitore” a Roma, vantandosi di aver vinto la sua battaglia contro il MES.

Ma poi dovrà ottemperare agli impegni che avrà assunto con gli altri paesi.

Obbedirà ai loro diktat per ristrutturare il proprio debito.

Come afferma su La Stampa Paolo Scaroni, ex presidente di Eni ed Enel e ora vice presidente di Rothschild Group, i provvedimenti economici per ristrutturare il debito italiano sono inevitabili nei prossimi anni.

Ci saranno forse una riforma del catasto (con immediata distruzione delle proprietà immobiliari private), aumenti dell’IVA, eliminazione di esenzioni fiscali, fino ad arrivare alle misure “greche”, che pero’ a mio avviso spunteranno in una seconda fase.

Queste misure saranno pubblicizzate dal governo come modi per “impedire” la ristrutturazione del nostro debito.

In altre parole, pur essendo queste misure proprio dei modi per ristrutturare il debito, potremo assistere a campagne mediatiche in cui si dirà: “per evitare la ristrutturazione del debito, vi chiediamo di fare questi sacrifici“.

In questo modo, tutti i cittadini saranno convinti di “salvare la patria” facendo “un dispetto all’UE” mentre invece non faranno che ottemperare ai diktat che gli altri paesi avranno imposto all’Italia per “evitare il MES”.

E il governo italiano avrà finalmente trovato la quadratura del cerchio: inchinarsi alla volontà degli altri paesi fingendo di fare esattamente il contrario…

Il crollo del greggio prelude a un prossimo fronte di guerra?

Diciamo la verità. La mossa di far crollare il prezzo del greggio sotto i 30 dollari a barile, dopo che Riyad aveva quotato in borsa la megacompagnia di stato Saudi Aramco e necessitava di una quotazione di almeno 70-80 dollari a barile per poter far ripartire il suo bilancio, non è mai stata completamente compresa.

La motivazione ufficiale, cioè una reazione incontrollata, da parte del Principe ereditario Bin Salman, al rifiuto della Russia di accordarsi per un taglio della produzione di 1,5 milioni di barili al giorno, è sembrata a tutti plausibile, anche perché non è la prima volta che Riyad prova a giocarsi questa carta per forzare la mano ai propri competitors.

Resta il fatto pero’ che le compagnie petrolifere russe sono perfettamente in grado di resistere a una quotazione cosi’ bassa, mentre al contrario le compagnie di scisto americane verranno ben presto decimate da questo nuovo assetto dei prezzi (come ad esempio discusso qui dalla CNBC).

In base a questa semplice considerazione, si poteva anche pensare a un gioco delle parti russo-saudita per mettere in difficoltà quella che è ormai una delle prime industrie al mondo, cioè il settore petrolifero USA.

Ma anche questa ipotesi semplifica troppo e non tiene conto delle complesse reti diplomatiche che connettono i tre paesi inclusi in questo ragionamento.

Le cose invece appaiono piu’ chiare se si tiene conto di alcune notizie trapelate a fatica su un tentativo di colpo di stato avvenuto all’inizio di questo mese proprio contro il Principe.

Non a caso, il Principe bin Salman ha accusato i presunti organizzatori di questo colpo di stato di essere “collusi con potenze straniere, fra cui l’America”.

In una sola settimana infatti sono stati tirati missili contro il palazzo reale di Riyad, il Principe Mohamed bin Salman ha fatto arrestare lo zio, principe Ahmed, e il suo concorrente ed ex principe ereditario, Mohamed bin Nayef, così come molti altri principi e generali, mentre la provincia sciita di Qatif, dove già diverse città sono state rase al suolo, è stata isolata.

Allo stesso tempo, nell’eterna guerra in Yemen, gli huti del nord, sostenuti dall’Iran, hanno attaccato ad Aden le tribù appoggiate dall’Arabia Saudita, facendo perdere il controllo  del governo di Abd Rabbo Mansour Hadi, in esilio a Riyad, su questa importante città.

Contemporaneamente, il Pentagono ha inviato una nave da guerra al largo di Aden e ha installato truppe britanniche sull’isola di Socotra per farne, congiuntamente agli Emirati Arabi Uniti, una base militare permanente, armata di missili Patriot.

In pratica, gli Stati Uniti stanno cambiando le carte in tavola in Medio Oriente, passando lo scettro di “guardiano della regione” dall’Arabia Saudita agli Emirati.

Bisogna poi ricordare che una crisi delle quotazioni del greggio era già fra le contromisure previste dal consigliere di bin Salman, Turki Al-Dakhil nel corso della crisi diplomatica con gli USA avvenuta dopo l’omicidio di Jamal Khashoggi.

Facciamo un riepilogo di cosa successe in quei giorni.

Jamal Khashoggi, coinvolto nel colpo di stato che il vecchio principe al-Waleed stava preparando contro bin Salman, fu ucciso in Turchia in un’operazione accuratamente registrata dai servizi segreti turchi e statunitensi.

A Washington stampa e parlamentari chiesero al presidente Trump di adottare sanzioni contro Riad. E fu proprio allora che Turki Al-Dakhil annuncio’ che, qualora gli Stati Uniti avessero preso delle contomisure contro il Regno, l’Arabia Saudita sarebbe stata pronta a sconquassare l’ordine mondiale mediante una trentina di provvedimenti, fra cui:

–  Riduzione della produzione di petrolio a 7,5 milioni di barili al giorno, con conseguente rialzo dei prezzi a circa 200 dollari il barile. Il Regno esigerà inoltre di esser pagato in valuta diversa dal dollaro, causando così la fine dell’egemonia della moneta statunitense.

–  Allontanamento da Washington e avvicinamento a Teheran.

–  Acquisto di armi da Russia e Cina. Il Regno offrirà una base militare alla Russia a Tabuk, nella parte nord-occidentale del Paese, ossia in prossimità di Siria, Israele, Libano e Iraq.

–  Sostegno dall’oggi al domani ad Hamas e Hezbollah.

Consapevole dei disastri che un uomo feroce come bin Salman può provocare, la Casa Bianca chiamo’ l’occidente alla riscossa. I leader economici di tutti i Paesi si conformarono, annullando la partecipazione al Forum di Riad, mentre il presidente Trump e il consigliere Kushner ventilarono persino una confisca dei beni di bin Salman.

L’unico capo di stato che faceva ancora da deterrente a una escalation fra Casa Bianca e Regno Saudita era Netanyahu, con cui bin Salman aveva creato la coalizione per prendere possesso dello Yemen. Ma ora in Israele c’è un nuovo Capo di Stato…e guarda caso le cose stanno cambiando proprio in Yemen e nel Regno Saudita.

Insomma, una resa dei conti fra bin Salman e la Casa Bianca è un’ipotesi realistica che spiega perfettamente il livello di disperazione con cui Riyad ha reagito al tentativo di colpo di stato, annunciando questo taglio delle quotazioni senza precedenti, che porta danni in primo luogo alla stessa Arabia Saudita.

Sembra che Riyad abbia dovuto scegliere fra due mali: accettare il proprio smembramento senza reagire, oppure riprendere il programma di Turki Al-Dakhil sconquassando l’ordine mondiale.

Bisogna dire che per ora Riyad è riuscita a sconquassare tutto, ma di certo la contromossa della Casa Bianca non si farà attendere – e se non fosse per il coronavirus, forse ci sarebbe già stata.

Dal punto di vista delle previsioni sui prezzi del petrolio, uno scenario di quasi guerra tra Riyad e Casa Bianca rende plausibili le ipotesi piu’ estreme; compreso un improvviso aumento dei prezzi a seguito di un colpo di mano militare…

Di conseguenze, gli investitori amanti del rischio – quelli proprio col pelo sullo stomaco e in grado di attraversare le tempeste peggiori – potrebbero aprire posizioni long sul petrolio….

Il team di Strategie Economiche

 

L’oro e l’argento fisico sono ormai quasi introvabili. Ecco tutte le cifre

Il recente ribasso nei metalli preziosi ha suscitato un rinnovato interesse negli investitori di oro e argento fisico, provocando un’improvvisa scarsità di scorte nei rivenditori.

Una settimana fa, persino la zecca di stato americana aveva annunciato che la famosa moneta d’argento “American Silver Eagle” non era disponibile. Ecco la nota inviata ai rivenditori:

“Il tasso di acquisti nella prima metà di marzo è aumentato del 300% rispetto al mese precedente. West Point sta cercando di produrre scorte aggiuntive di “American Eagle”. Quando le scorte saranno pronte, riprenderemo a fornire i rivenditori.”

La zecca di stato ha anche registrato che le vendite di questa moneta nel solo mese di marzo hanno raggiunto i 3,8 milioni di dollari, rispetto agli 850.000 dollari registrati nell’intero anno precedente. 

Nel frattempo, anche le vendite dell’ “American Eagle” d’oro nel solo mese di marzo sono aumentate di 5 volte rispetto alle vendite dell’intero anno precedente.

In contemporanea con l’aumento vertiginoso della domanda, l’epidemia virale ha provocato la temporanea chiusura di alcuni importanti produttori, come la Royal Canadian Mint (che produce la famosa serie “Gold and Silver Maple Leaf”) e la Australia’s Perth Mint.

Dana Samuelson, Presidente della American Gold Exchange, ha dichiarato a MarketWatch che:

“Con l’impossibilità delle zecche americane e canadesi di soddisfare gli ordini di acquisto in America, i rivenditori si stanno accaparrando tutto cio’ che è rimasto sul mercato, trascinando in alto i prezzi di acquisto di tutto l’oro fisico rimasto”

Il risultato è che un ritardo da tre a quindici giorni nella spedizione degli ordini di oro fisico è diventato ormai la norma nel settore, mentre alcuni rivenditori eseguono al momento solo ordini superiori ai 300 dollari.

Avvisi di questo genere puoi trovarli anche sui siti di Provident Metals, JM Bullion, SD Bullion, Silver.com e Kitco.

JM Bullion ha recentemente pubblicato sul proprio sito questo avviso:

“Gli ordini hanno raggiunto ieri il piu’ alto volume di vendite di tutti i tempi e stiamo per battere nuovamente il record oggi. In queste settimane, con un aumento di ordini da 3 a 7 volte rispetto ai volumi normali, siamo impossibilitati a eseguire vendite e spedizioni telefoniche nei tempi usuali.”

In questi stessi grandi rivenditori, il cosiddetto “argento a buon mercato”, cioè i lingotti datati che hanno un prezzo spot piu’ basso di quello ufficiale e alcune emissioni di Silver Eagles e Maple Leaves sono ormai semplicemente introvabili, come lo sono molti lingotti da 1, 10, 100 e 1000 once.

L’unico modo per aggiudicarsi questi pezzi è andare su rivenditori non specializzati, presenti su Ebay o Amazon e comprarli a un prezzo ovviamente molto poco competitivo.

Provident Metals ha scritto sul suo sito:

“Quasi tutte le size di lingotti di qualsiasi metallo non sono al momento disponibili. Nelle prossime settimane abbiamo fatto in modo di farci pervenire diversi milioni di once di argento e circa diecimila once d’oro, che probabilmente soddisferanno solo in parte le richieste già prevenute al nostro sito. Man mano che i prodotti saranno nuovamente disponibili verranno nuovamente messi in lista sul sito.”

Gli unici pezzi che ho trovato disponibili in rete sono alcune emissioni di monete vendute dai siti di numismatica, che pero’ eccedono di gran lunga il prezzo ufficiale e non hanno buone probabilità di essere rivendute.

Altre monete con purezza inferiore al 90% sono ugualmente disponibili, ma anche queste sono difficilmente rivendibili, almeno a un prezzo che sia superiore a quello di acquisto.

Anche l’oro fisico è quasi tutto “sold out”, specialmente i pezzi frazionali di Gold Eagles, Gold Maple Leaf e altri coni di dimensioni inferiori. Tuttavia al momento è l’argento fisico a subire la maggiore riduzione nelle scorte.

Il team di Strategie Economiche

 

Inizia il secondo tempo della crisi: inflazione

Nello spazio di tre settimane, la Federal Reserve ha attuato le seguenti misure:

  1. Taglio dei tassi d’interesse dal 1.25% allo 0.15%.
  2. Immissione di liquidità giornaliera per le banche pari a un totale di $1.5 trilioni.
  3. Lancio del programma di acquisto di obbligazioni di stato (Quantitative Easing) per un valore massimo di $700 miliardi.
  4. Acquisto di contratti di debito.
  5. Sconti nei prestiti alle banche sistemiche.
  6. Espansione del punto 2 fino a $1 trilioni al giorno.
  7. Apertura di contratti di pronti contro termine in cambi di valuta con le altre banche centrali (un modo per permettere alle banche straniere di rifornirsi di dollari).
  8. Apertura di linee di credito ai fondi monetari.
  9. Acquisto di obbligazioni emesse dai governi locali (muni bonds).

In pratica, si tratta dello stesso repertorio che la Fed aveva dispiegato dopo la crisi del 2008. Solo che allora le misure furono attuate nel corso di un anno. Questa volta invece sono bastate tre settimane.

Ieri poi, di fronte all’inutilità di tutte le misure già prese, la Fed ha passato il Rubicone, andando oltre i suoi compiti costituzionali e annunciando, non solo l’espansione illimitata negli acquisti dei titoli di stato (il punto 3 dell’elenco), ma anche l’acquisto illimitato di obbligazioni di società private (corporate).

Le operazioni della Fed verranno condotte attraverso intermediari, chiamati SPV (Special Purpose Vehicle), che forniranno prestiti con scadenza quadriennale alle società “investment grade”. E questo dovrebbe, nelle intenzioni della Fed, clamierare la discesa dei prezzi, sia delle obbligazioni che delle azioni di dette società.

Oltre a concedere prestiti alle società, la Fed, sempre attraverso gli intermediari SPV, comprerà le obbligazioni di queste società e persino gli ETF che investono in tali obbligazioni.

Infine, per proteggere le altre linee di credito, come i debiti studenteschi, quelli delle carte di credito e delle automobili, la Fed userà uno strumento già usato nel 2010. In pratica, concederà prestiti ai grandi operatori del mercato (proprietari di multinazionali o di grandi fondi), che potranno avere questa liquidità dando come collaterale delle “securities” che hanno come sottostante appunto le emissioni di debiti per studenti, carte di credito e auto.

Tutte queste nuove misure, essendo molto piu’ pervasive delle precedenti, potrebbero innescare una seconda fase della crisi.

In che modo? Facciamo un riepilogo per capirlo…

Prima fase deflazionistica della crisi

Possiamo dire col senno di poi che la prima fase della crisi è iniziata con l’immissione di liquidità giornaliera alle banche da parte della Federal Reserve, partita a settembre 2019, interrotta tra dicembre e gennaio, ripresa a fine febbraio e infine proseguita a tempo indeterminato.

All’inizio di questo programma, si pensava che la carenza di liquidità giornaliera nelle grandi banche sistemiche fosse dovuta alla congestione delle scadenze di fine anno. Quindi la Fed aveva iniziato l’attuazione di queste misure pensando che fossero temporanee.

Col passar del tempo invece, la Fed ha capito di non poter piu’ interrompere l’immissione di questa liquidità, rassegnandosi a sostituirsi alle grandi banche sistemiche, che normalmente distribuivano la liquidità giornaliera all’intero sistema bancario e che ormai non riuscivano (e non riescono) piu’ a farlo.

Questo fatto ci fa pensare che fin dall’inizio di questo programma di immissione di liquidità ci fosse (e c’è ancora) una o piu’ banche sistemiche sull’orlo della bancarotta.

Ora, dobbiamo pensare che la liquidità bancaria è come una rete o un ingranaggio. Se uno o piu’ parti dell’ingranaggio cadono, l’intera rete salta.

Per tale ragione, anche le altre banche, magari non sull’orlo della bancarotta, ma ormai pur sempre dotate di mezzi limitati, hanno mangiato la foglia e stanno abbandonando la nave che affonda.
Persa ogni velleità di poter riprendere le loro normali funzioni di emittenti di credito e di regolatori della liquidità, queste banche si occupano ormai solo di salvare se stesse.

Come? Usando proprio la montagna di liquidità giornaliera che la Fed continua a immettere sul mercato (1 trilione al giorno, non è mica poco…).

E cosa ci fanno con questi soldi?

  1. vendono tutti gli asset del loro balance sheet (obbligazioni, azioni e ogni altro ben di Dio), incamerando cash, e
  2. aprono posizioni short nel mercato dei futures per fare guadagni veloci e crescenti

Il punto 2 ha gli effetti piu’ pesanti per l’economia globale.

Infatti, piu’ la Fed immette liquidità, piu’ le banche hanno carburante per shortare ogni tipo di future, con qualunque sottostante, in un ciclo che si autoalimenta.

Questi futures hanno, come abbiamo detto, diversi sottostanti, dagli indici azionari alle azioni stesse, alle commodities ai metalli preziosi.

Da decenni ormai i prezzi di tutti questi beni non sono piu’ determinati dalla domanda e dall’offerta nell’economia reale, bensi’ dal prezzo dei futures che li rappresentano.

Ecco perché queste continue posizioni short create dalle banche stanno facendo crollare i prezzi di ogni cosa.

In definitiva, per riassumere possiamo dire che la prima fase della crisi non è che una gigantesca deflazione di ogni asset esistente, creata dalle enormi posizioni short create dalle banche, a loro volta alimentate dall’enorme liquidità immessa dalla Fed.

Seconda fase inflazionistica della crisi

Mentre gli effetti deflazionistici della prima fase sono ancora in campo, la decisione di oggi della Federal Reserve ha innescato i primi, timidi segnali della tendenza opposta, cioè di una inflazione.

Sembra infatti che il mercato obbligazionario e quello delle materie prime abbiano già iniziato a “prezzare” una possibile inflazione:

ll rapporto tra prezzi delle materie prime e prezzi delle azioni, rappresentato dal grafico qui sopra, mostra la rottura del canale discendente pluriennale. Per la prima volta, le materie prime iniziano a sovraperformare le azioni. E questo è indice di inflazione.

I prezzi delle obbligazioni high yeld invece precipitano, con conseguente aumento vertiginoso dei rendimenti. Anche questo un indice di possibile inflazione imminente.

Ma qual è il meccanismo che attiverebbe l’inflazione?

Probabilmente, ci sono tre fattori in gioco.

Il primo è che le misure senza precedenti della Fed somigliano a quelle che già da alcuni anni hanno già adottato le banche centrali dell’area euro e yen.

In questo modo, la Fed sta portando l’area dollaro allo stesso livello dell’area yen ed euro, con conseguente possibile riduzione del valore del dollaro e quindi aumento dei prezzi di tutti i beni che sono prezzati in questa valuta.

Il secondo fattore potrebbe dipendere invece dal fatto che gli investitori, nonostante l’entità delle ultime misure decise dalla Fed, prevedono un peggioramento delle condizioni delle società che emettono le obbligazioni.

E questo porterebbe a un aumento dei rendimenti di tali obbligazioni.

Il terzo fattore dipende dalla banale dinamica della domanda e dell’offerta: se infatti la Fed resta l’unico compratore di queste obbligazioni, in pratica la domanda di questi titoli si riduce quasi a zero, con conseguente crollo dei prezzi e quindi aumento dei rendimenti.

Nelle prossime settimane, bisognerà monitorare con attenzione l’evolversi del mercato obbligazionario e delle commodities, per vedere se i primi indizi di una inflazione si confermeranno.

Si tratta di un trend che potrebbe cambiare lo scenario visto finora, influenzando i mercati in modo del tutto diverso.

Resta in contatto con noi per essere sempre aggiornato sulla situazione, sia nel nostro canale telegram che nella nostra newsletter gratuita.

Il team di Segnali di Borsa.

 

Facciamo il punto sull’industria del greggio USA

Venderdi i future sul greggio sono saliti di quasi il 25% nella speranza che l’amministrazione Trump contribuirà a stabilizzare i prezzi convincendo sauditi e russi a tagliare la produzione.

Negli ultimi cinque anni le compagnie statunitensi di scisto hanno ridotto progressivamente i loro costi di perforazione, ma nonostante questi sforzi, una quotazione a $ 24,17 al barile non è abbastanza alta per mantenere remunerative le attività di molti produttori.

La maggior parte dei centinaia di produttori di scisto ha un business sostenibile con una quotazione compresa tra $ 55 e $ 65 al barile, mentre solo 16 compagnie operano in aree dove il costo medio di produzione è inferiore a $ 35 al barile (Exxon ad esempio è in grado di essere redditizio anche a $ 26,90 nelle sue aree di sfruttamento del New Mexico).

Occidental è un altro produttore che riesce ad essere remunerativo intorno ai $ 30, ma è stato penalizzato in borsa, perché una quotazione del greggio troppo bassa lascerebbe alla compagnia pochissimo cash residuo per il pagamento dei debiti.

E questo è infatti l’altro grande tema: il fracking è un’attività a così alta intensità di capitale che deve essere finanziata con un alto indebitamento.

L’elevato indebitamento non è necessariamente un problema per tutte le compagnie. È la scadenza dei loro debiti ad essere il vero discrimine tra le compagnie a rischio e quelle messe meglio.

All’inizio di questa settimana la CNBC ha riferito che degli $ 86 miliardi di debito che le società di esplorazione e produzione devono rifinanziare o rimborsare entro il 2024, saranno dovuti quest’anno solo $ 5,3 miliardi. La maggior parte di questi debiti infatti, circa $ 25,7 miliardi, va in scadenza nel 2022. E questo dà alle compagnie di produzione un po’ di respiro.

Inoltre, quasi la metà di questi $ 86 miliardi di debito è concentrato solo in 10 società (tra cui la solita Occidental), mentre altre compagnie sono oberate da un carico molto minore.

Di conseguenza, il default a tappeto delle compagnie petrolifere che alcuni paventano non è un rischio immediato, almeno per i prossimi due anni.

La preoccupazione piu’ immediata per le società produttive e estrattive è aumentare il cash, spesso riducendo i dividendi delle loro azioni. Ad esempio, Occidental ha già dichiarato di voler tagliare il proprio dividendo dell’86% per ottenere piu’ liquidità.

In conclusione, chi volesse selezionare le compagnie petrolifere in base alla loro rischiosità dovrebbe anzitutto sapere se i costi di produzione sono sostenibili a basse quotazioni. Poi dovrebbe informarsi sulle misure adottate per affrontare la crisi (la società sta chiudendo le piattaforme? Sta rinviando l’esplorazione di nuovi giacimenti? Sta tagliando il dividendo? E’ in grado di proteggersi dalla riduzione del prezzo del petrolio? Per quanto tempo?).

Oltre a ciò, si dovrebbe analizzare i bilanci delle aziende e scoprire le scadenze del loro debito e se hanno un flusso di cassa capace di reggere le perdite.

A parte pero’ i fattori economici fondamentali, il settore petrolifero è molto influenzato dai fattori politici.

Un accordo sui livelli di produzione promosso dagli USA cambierebbe di molto le prospettive, sia nel breve che nel medio termine.

E’ per questa imprevedibilità dovuta alla continua ingerenza della geopolitica che generalmente preferiamo non investire in questo settore.

Una grande banca europea è sul punto di fallire?

I titoli bancari europei hanno raggiunto nuovi minimi storici dagli ultimi 50 anni, nonostante l’annuncio improvvisato di ieri da parte di un funzionario della BCE, che ha pronunciato le famose parole di Draghi “whatever it takes” come una formula scaramantica.

Il portavoce ha detto che la banca centrale si impegnerà a fare qualsiasi cosa per mantenere intatto il sistema bancario, che continuerà a “monitorare attentamente i mercati” e che è “pronta ad adeguare tutte le sue misure del caso, qualora ciò fosse necessario per salvaguardare le condizioni di liquidità nel sistema bancario”.

Stavolta pero’ la formula magica di Draghi non ha calmato i nervosismi del mercato e la svendita di obbligazioni sovrane e azioni bancarie, ma semmai ha avuto l’effetto opposto.

L’indice Stoxx 600 Banks, che copre le principali banche europee, è sceso del 3,7% chiudendo a 83, quindi al di sotto del minimo pluriennale di 87 del marzo 2009 (raggiunto nel corso della prima crisi finanziaria di questo secolo). La chiusura di oggi dell’indice è stata anche la più bassa dal febbraio 1988, cioè dal sell-off che seguì il Black Monday dell’ottobre 1987:

Il motivo dell’inefficacia dell’annuncio della BCE è che gli investitori sanno che la banca centrale in questione non puo’ fare granché di fronte alle crisi bancarie.

La BCE si preoccupa in primo luogo di tenere unita l’Eurozona. A differenza della Federal Reserve, le cui 12 filiali regionali sono di proprietà delle banche private, e per le quali i titoli bancari sono quindi estremamente importanti, alla BCE non potrebbe interessare di meno dei titoli bancari, almeno finché non raggiungano l’ultima fase del collasso.

Le misure adottate da dieci anni a questa parte dalla BCE, tra cui l’immissione di un totale di 4,7 trilioni di euro di denaro fresco nel sistema e la politica dei tassi negativi, sono servite a garantire liquidità per i governi dei paesi membri UE, non a stabilizzare le banche. Ed infatti sono state estremamente dannose per il sistema bancario.

Ma anche se la BCE volesse varare una misura apposita proprio per le banche, avrebbe davvero la forza per farlo?

Pochi sanno che il sistema bancario europeo, con i suoi 48 trilioni di capitalizzazione, supera di tre volte quello americano. Per giunta questi 48 trilioni sono investiti a leva con un margine del 26 a 1 (per capirci, la Lehman prima di collassare aveva investito il suo capitale con una leva di 30 a 1). E da alcuni mesi l’entità di questa leva non viene piu’ resa pubblica dalla BCE, come se ci fosse qualcosa di terrificante da nascondere…

I calcoli sono presto fatti: questo ammontare sterminato di capitali pronti a collassare dovrebbe essere sostenuto da una BCE che in dieci anni ha immesso la stessa quantità di liquidità (i 4,7 trilioni di euro citati prima) che la Federal Reserve ha stanziato in una sola settimana per sostenere le sue banche.

In poche parole, un sistema tre volte superiore a quello americano (moltiplicato per 26 da investimenti in derivati a leva) dovrebbe essere salvato da una banca centrale che ha 50 volte meno la forza finanziaria di quella americana.

Alla luce di queste cifre, il fatto che la BCE, nel tentativo di rassicurare gli investitori, abbia annunciato un programma di acquisto di obbligazioni da 750 miliardi di euro per tutto il 2020 appare come un bambino che spara con una pistola ad acqua.

La BCE non ha mai potuto evitare le crisi bancarie europee. Lo dimostra il fatto che ogni volta che c’è una crisi, una qualche banca europea collassa (è successo l’ultima volta nel 2008) e non c’è alcuna possibilità che la BCE possa impedirlo.

Tutti i sintomi del rischio di un collasso bancario europeo ci sono già e li abbiamo citati fin qui. Ci aggiungiamo anche il fatto che la Federal Reserve, tra le tante misure che sta attuando in questi giorni, ha anche aperto la possibilità alla banche di finanziarsi con pronti contro termine basati sul cambio euro-dollaro (una misura indiretta di sostegno proprio per le banche europee).

E infine c’è la “madre” di tutti i sintomi negativi…

Da settembre infatti la Federal Reserve sta immettendo liquidità per sostenere i deficit giornalieri delle banche (deficit che normalmente venivano compensati dalle grandi banche sistemiche americane ed europee).

Il fatto che la Fed si sia sostuita alle banche sistemiche in questa funzione cruciale per la sopravvivenza del sistema finanziario. E il fatto che, dopo una tregua a gennaio, abbia ripreso a fare questo, aumentando la “dose” in misura eccezionale (i famosi 4 triliardi a settimana di cui parlavo prima) fa pensare che già da settembre una o piu’ banche sistemiche è pronta per il collasso, e che forse si tratta di banche europee, non americane.

Possiamo solo indovinare quale sia la banca destinata a cadere questa volta…

Di seguito, in ordine decrescente, ho riportato l’elenco delle maggiori banche quotate in borsa più colpite in Europa.

La prima percentuale accanto al nome della banca rappresenta di quanto la banca è calata in borsa dal 17 febbraio, quando il Coronavirus ha iniziato a diffondersi nel nord Italia. La percentuale in parentesi è invece l’entità del ribasso calcolato dal 1 ° gennaio 2018. Lascio alla tua immaginazione di quanto sarebbe il calo percentuale se fosse calcolato dal picco di maggio 2007 precedente alla crisi del 2008 (l’ho omesso per proteggere i lettori malati di cuore):

Société Générale: -56% (-67%)
ING: -54% (-73%)
Credit Agricole: -53% (-57%)
Santander: -52% (-64%)
Barclays: -53% (59%)
BNP Paribas: -52% (-58%)
Unicredit: -51% (-57%)
Deutsche Bank: -50% (-68%)
Credit Suisse: -49% (-62%)
RBS: -39% (-54%)

Accanto a queste banche sistemiche, ci sono quelle di secondo livello, il cui collasso avrebbe ripercussioni significative a livello nazionale. Anche queste banche hanno avuto forti ribassi nelle ultime quattro settimane. Ad esempio la banca BBVA spagnola è in calo del 52% (e del 64% da gennaio 2018), la Commerzbank tedesca, in cui lo stato detiene ancora una quota importante dall’ultimo salvataggio, è in calo del 54% (-75%) e infine Intesa Sanpaolo è in calo del 44% (- 50%).

Da notare che se i ribassi di Unicredit e Deutsche Bank sembrano meno pronunciati rispetto alle altre, è perché queste due banche sono praticamente in caduta libera fin dal 2007 e non hanno mai interrotto questo trend. Per cui, tenendo conto del ribasso complessivo dal 2007 a oggi, Deutsche Bank ha perso oltre il 95% del suo valore e Unicredit oltre il 98%.

In pratica, come ha detto qualche analista ieri, le banche ormai dovrebbero essere quotate nel mercato delle “penny stocks”, non piu’ nei listini normali…

Riuscirà ancora una volta il sistema a reggere l’urto di questa crisi, che sembra riassumere tutte le altre crisi precedenti?

Stavolta non c’è solo una crisi bancaria, non c’è solo una crisi obbligazionaria, non c’è solo una crisi petrolifera, non c’è solo una crisi nell’economia reale, non c’è solo una crisi delle aziende indebitate, non c’è solo una crisi di governi al collasso…

Ci sono tutte queste crisi insieme!

La crisi deflazionaria globale è appena iniziata

Come rappresaglia al mancato accordo con la Russia per tagliare la produzione petrolifera di 1,5 milioni di barili al giorno, l’Arabia Saudita ha appena iniziato una vera e propria guerra autodistruttiva all’industria del greggio, nel tentativo di spaventare gli altri protagonisti del settore e condurli a piu’ miti consigli.

Invece di tagliare la produzione, il Regno ha deciso di inondare di greggio il mercato provocando una deflazione traumatica ai prezzi, tagliandoli di 4-6 dollari per il mercato asiatico, di 7 dollari per il mercato USA e di 8 dollari per il mercato europeo.

In questo modo, nelle intenzioni del Regno, il petrolio saudita diventerebbe estremamente concorrenziale rispetto a qualsiasi offerta di altri paesi produttori e toglierebbe a tali paesi enormi quote di mercato in tutto il mondo.

Va detto che le altre volte in cui l’Arabia Saudita ha tentato una mossa simile non ha mai ottenuto il risultato sperato, come ad esempio nel 2014-2015, quando Riyadh fu umiliata dall’entrata in gioco dello shale americano che ridimensiono’ per sempre la sua importanza nel mercato globale.

A questo punto, col greggio che ora viaggia già sui 30 dollari, fino a quanto potrebbero scendere le quotazioni?

Secondo Bloomberg, con la ridotta domanda attuale provocata dal Covid-19, la mossa saudita provocherà uno squilibrio nel mercato capace di portare il greggio a 20 dollari. Ma non è escluso che questa materia prima possa arrivare al minimo storico assoluto di 9 dollari raggiunto nel lontano dicembre 1998.

Con la contemporanea implosione dei rendimenti dei titoli di stato americani avvenuta la scorsa settimana, il crollo del greggio potrebbe causare la piu’ grande crisi deflazionaria degli ultimi anni, con una progressiva perdita di valore di tutti gli asset, oro compreso.

Il mondo si troverebbe, per la prima volta dopo un secolo, privo di punti di riferimento economici.

 

Il virus e lo strano caso del prezzo dell’oro

Ieri abbiamo condiviso sulla nostra pagina Facebook un articolo non nostro dove la caduta del prezzo dell’oro alla fine della settimana scorsa (caduta che ha stupito i fautori dell’oro come bene-rifugio) viene attribuita a vendite effettuate in Giappone per evitare la svalutazione dello yen.

Oggi invece è uscita un’altra ipotesi, pubblicata dall’ottimo sito Bullionstar, sito che noi seguiamo religiosamente quando si tratta di oro, e che riguarda i movimenti avvenuti al Comex, cioè nel mercato dei futures dell’oro.

Entrambe le ipotesi e le valutazioni sono valide, ben motivate e di estremo interesse, non solo per gli appassionati dell’oro, ma anche per chi vuole avere un quadro completo di cio’ che è accaduto davvvero la settimana scorsa nei mercati.

Soprattutto, i due scenari non si escludono a vicenda e possono essere entrambi veri.

Per chi non ha voglia di leggersi il lungo articolo di Bullionstar o ha problemi con l’inglese, faccio un riassunto qui.

  • Bullionstar anzitutto riassume i movimenti dell’oro della settimana scorsa:
    Il 24 febbraio, quando inizia il panico nei mercati azionari, l’oro in dollari raggiunge un massimo settennale, mentre la quotazione del metallo giallo nelle altre valute tocca un massimo assoluto.
    Nel pomeriggio, l’oro al Comex corregge verso il basso, restando laterale da martedi a giovedi (nonostante il mercato azionario continui a scendere). Infine, venerdi l’oro crolla del 4,6%, eseguendo il peggior ribasso intraday dal novembre 2016.

 

  • La velocità della correzione dell’oro non lascia dubbi, secondo Bullionstar: si tratta certamente di operazioni a ribasso effettuate nel mercato dei futures e che non hanno nulla a che fare col mercato dell’oro fisico.

 

  • A questo punto, possiamo integrare l’ipotesi dell’altro articolo che avevamo condiviso ieri su FB, per cui queste operazioni a ribasso sui futures abbiano avuto un’origine giapponese.
    Oppure possiamo seguire la traccia di Bullionstar, secondo cui sono state manovre delle banche centrali, che attraverso le banche commerciali effettuano illegalmente da anni un calmiere sul prezzo dell’oro (come abbiamo detto in innumerevoli articoli e come Bullionstar in altri articoli ha documentato con tanto di atti processuali del Dipartimento di Giustizia USA).

 

  • L’ultima osservazione di Bullionstar è pero’ la piu’ importante: infatti dal loro osservatorio sui mercati globali di oro fisico, si registra un aumento imponente di acquisti di lingotti e monete. Acquisti che continuano tuttora e che a lungo andare -se il prezzo dell’oro di carta (cioè dei futures) non seguirà questo aumento di domanda- potrebbero mettere in difficoltà i rivenditori di oro.
    Se infatti l’oro fisico dovesse iniziare a scarseggiare, molti rivenditori che hanno futures long al Comex potrebbero aver bisogno di “redimere” tali posizioni, cioè chiuderle richiedendo il loro valore corrispettivo in oro fisico…

 

  • E dato che, come tutti sanno, il Comex non è in grado di coprire manco l’1% di queste posizioni fasulle, potrebbe avvenire il famoso crash del Comex: un evento che tutti gli adoratori dell’oro aspettano da anni, ossia una corsa di tutti gli investitori long a redimere le loro posizioni, con conseguente scoperta che tali posizioni non sono affatto redimibili.

 

  • Va detto che questo “crash dell’oro di carta” è un evento che ha assunto ormai quasi un carattere “mitologico”. Nel senso che tante volte in passato sembrava stesse per succedere, ma poi il mercato dei futures è sempre stato in grado di evitarlo.
    Cio’ non toglie pero’ che a un certo punto il crash del Comex si possa rivelare un mito-non mito, simile al “Grande Inverno” del Trono di Spade, ossia un evento che tutti credono sia un mito, ma che alla fine accade davvero…

Per ora ci limitiamo a registrare e archiviare queste interessanti valutazioni, aspettando lo sviluppo degli eventi…

Il team di Strategie Economiche

Ma la Federal Reserve cosa aspetta a pompare i mercati?

Per piu’ di trent’anni la Fed ha tentato di farci credere di non avere niente a che fare con le borse, per poi intervenire puntualmente a ogni starnuto dello S&P500.

Il silenzio assordante della Fed in questo crollo delle borse è quindi piuttosto surreale, anche considerando il fatto che negli ultimi 14 mesi il rialzo quasi ininterrotto delle borse è tutta opera sua, sia attraverso i suoi interventi verbali che con i suoi programmi di intervento monetario.

Negli ultimi 14 mesi la Fed ha parlato di nuovi QE nucleari, di tassi d’interesse negativi e persino di acquisti diretti di titoli a compensazione di eventuali crolli di mercato.

Ebbene…oggi il mercato è crollato, ma per qualche ragione la Fed tace, lasciando evaporare sei mesi di guadagni in sei giorni.

A questo punto, è chiaro che i mercati andranno a guardare il bluff della Fed.

Ogni volta che la Fed ha finto di disinteressarsi alla cosa, i mercati l’hanno tirata dentro a forza. E’ successo nel 2010, nel 2011 e di recente nel 2018.

La ragione di cio’ è semplice: in un sistema finanziario cosi’ a leva come quello americano, anche la minima ombra di deflazione è in grado di scatenare il panico negli uffici della Fed.

E la cosa sta per ripetersi proprio ora…percio’ quelli della Fed non hanno scelta:

  • o interviengono e pompano ancora una volta i mercati
  • oppure fanno crollare tutto, risvegliando la temuta deflazione e passando alla storia come quei ragazzi che scatenarono un nuovo 2008.

E se pensi che sia troppo melodrammatico, dai un’occhiata a questi grafici:

Prova N.1: Il petrolio con il suo “testa e spalle” in tutto il suo splendore:

Ripeto ancora una volta: qui o la Fed interviene oppure il petrolio va sotto i 30 dollari; che tradotto in economia reale vuol dire entrare in una spirale deflazionistica: proprio quello che la Fed sta cercando di evitare dal 2008.

Prova N.2: Freeport-McMoran, il maggiore produttore di rame negli USA, anche lui con un minaccioso testa e spalle:

Inutile dirlo: o qui la Fed fa qualcosa o le aziende del rame e delle altre materie prime perderanno tutti i profitti dal 2016 a oggi, facendo precipitare il mondo in una depressione simile a quella del 2008.

Prova N.3: Caterpillar, il maggior produttore di macchinari al mondo, sta per crollare:

Se la Fed non farà nulla, Caterpillar e le aziende-Moloch come la sua faranno un crollo senza precedenti, perdendo oltre cinque anni di incrementi e trascinandoci in un incubo di deflazione.

Considera solo questo: ogni Presidente della Fed da quando è nata questa istituzione ha sempre perso al gioco del “bluff” coi mercati.

Percio’ è davvero improbabile che la Fed lasci andare tutto in malora proprio adesso.

La Fed ha due date utili per fare qualcosa: i primi di marzo e il 29 aprile…

Ma data la gravità della situazione, potremmo già avere notizie interessanti la settimana prossima, agli inizi di marzo.

E questo, a prescindere poi da quando avverrà, ci regalerà opportunità incredibili

Il mio programma di trade con le opzioni che hanno come sottostante le aziende-Moloch di cui parlavo sopra è creato apposta per questo.

In Strategie Portfolio sto per inaugurare i primi trade fatti sulla base di un algoritmo innovativo che traccia gli interventi della Fed su questi titoli “too big to fail” e ci permette di aprire posizioni su trend di poche settimane (a volte pochi giorni) innescati dalla “mano pesante” della Fed.

Ne abbiamo parlato nel nostro canale telegram. Si tratta di trend molto diversi da quelli che seguono i traders sulla base di semplici movimenti speculativi di massa.

I trend innescati dalla Fed e dalle altre banche centrali si distinguono da quelli poco affidabili su cui puntano i traders, perché sono molto piu’ netti e precisi, non fanno inutili e pericolosi alti e bassi e percio’ si concludono con una probabilità di successo maggiore. Basta saperli riconoscere…

Mettimi alla prova su Strategie Portfolio!

Graham Summers per Strategie Economiche

PS: da un mese sono entrato in pianta stabile nello staff di Strategie Economiche, come si vede qui…e faro’ almeno un anno di operazioni col mio algoritmo, usato già da molti servizi di trading in America. Per l’Italia e l’Europa percio’ saro’ disponibile solo su Strategie Portfolio!

 

 

Perché NON è stato il virus a far crollare i mercati

Tutti i media finanziari ci dicono che la colpa del crollo delle borse è dovuta al coronavirus. Ma se guardiamo ai tempi con cui tutto cio’ è avvenuto, vediamo che qualcosa non torna…

Venerdì scorso, i funzionari sanitari hanno riferito che c’erano stati 75.456 casi di infezione confermati, che avevano causato 2.236 morti. Il lunedì successivo, i rapporti ufficiali riportavano 79.441 casi nCov-19 confermati con 2.620 morti.

Pertanto, tra venerdì e lunedì, il numero di casi confermati è aumentato del 5,3%, con un aumento del numero di decessi del 17,2%, che rappresentava la principale causa di allarme.

Ma se questi aumenti nei casi confermati e nei decessi hanno portato a un crollo di 1.000 punti nel Dow lunedì, perché lo stesso indice era invece aumentato dall’inizio dell’epidemia, quando i dati erano ben piu’ allarmanti?

Infatti, fra il primo caso confermato il 1 ° dicembre 2019 e venerdì scorso, il Dow Jones era aumentato del 27,3%.

E anche quando l’OMS, il 30 gennaio 2020, ha dichiarato che l’epidemia era un’emergenza di salute pubblica di interesse internazionale  – in quella data c’è stata anche la notizia della prima diffusione confermata di nCov-19 tra due persone negli Stati Uniti – il Dow è aumentato leggermente di 0,5 % fino a venerdì scorso.

Successivamente, finora venerdi scorso, il numero di casi confermati di nCov-19 è aumentato di oltre 10 volte con il numero di morti aumentato del 1,215,3% fino a venerdì scorso senza causare alcun crollo di borsa.

Mentre invece, ripeto, dal venerdi al lunedi un aumento del 5,3% nel numero di casi e un aumento del 17,2% nel numero di decessi ha causato un calo di 1.000 punti nel Dow…

E’ evidente che non ci siamo né coi tempi, né con la correlazione tra la gravità delle notizie e l’andamento del mercato.

Come mai?

Risposta: perché la borsa NON è crollata a causa del coronavirus.

Il fatto è che i prezzi dei futures avevano segnalato estremi statistici già martedì scorso. La settimana scorsa infatti il dollaro, l’oro, il petrolio e altre materie prime, assieme agli indici di borsa avevano raggiunto quotazioni massime con una velocità tale da provocare un backwardation nei futures di cui fanno da sottostante.

Cos’è il backwardation? E’ quando le quotazioni del sottostante (qualunque esso sia) aumenta di prezzo cosi’ velocemente che i prezzi dei futures che lo rappresentano non riescono a stare dietro e hanno quindi prezzi inferiori.

Stephen Auth, CIO di Federated Hermes, aveva osservato mercoledì su FOX News:

“Abbiamo avuto nelle borse una corsa del 17% senza mai un pullback.
Le ultime 16 volte che è successo qualcosa del genere, c’è stata una correzione del 10% … Questa correzione era quindi dovuta…ed era anche in ritardo! Il coronavirus è solo una buona scusa”.

Il Dow infatti, nella sua massima estensione, si era portato l’11% sopra la sua media mobile a 200 giorni. Quindi, ancora una volta, una correzione del mercato era inevitabile, con o senza coronavirus.

E adesso?

Bene, con un pullback del 14% sia nel Dow che nello S&P 500, e i media che sono passati alla narrativa “vendi tutto ora”, è forse un buon momento per iniziare a comprare…

Si definisce “correzione del mercato” un pullback del 10%. Tuttavia, delle 26 principali correzioni del mercato dalla seconda guerra mondiale a oggi, la correzione media è stata del 13,7%, del tutto in linea con quella attuale. Quindi penso che sia tempo di ricominciare a comprare con cautela…

Luke Burgess per Strategie Economiche

Quanto dureranno gli effetti del virus nell’economia mondiale?

Nouriel Roubini, capo della Roubini Macro Associates e professore di economia e affari internazionali alla New York University, ha parlato ieri a Bloomberg Radio, dando le sue previsioni sugli effetti economici del virus e la loro durata.

Le sue considerazioni coincidono con quelle di altri esperti e si basano sulla semplice matematica…

I primi casi di contagio sono iniziati a dicembre e non sono stati ampiamente riconosciuti fino a metà gennaio, quando sono iniziate le quarantene.

I casi segnalati e le morti hanno raggiunto il loro apice verso la metà di fine febbraio, con un tasso di mortalità a Wuhan, in Cina (ground zero per l’epidemia) calcolato tra il 2% e il 4%.

Supponendo che le tendenze attuali continuino (ma è l’ipotesi peggiore), l’impatto acuto del virus in Cina potrebbe essere di un trimestre

Ciò significa che l’economia cinese e le società con grandi commesse in Cina potrebbero riportare numeri di crescita significativamente inferiori alle aspettative quando pubblicheranno gli utili del primo trimestre 2020 all’inizio di aprile. In realtà molte di queste società hanno già avvertito gli investitori che dovranno aspettarsi risultati deludenti.

Allo stesso tempo, se estrapoliamo la stessa ipotesi di “impatto acuto di tre mesi” ai nuovi focolai nel mondo, l’impatto negativo sugli utili si estenderebbe fino alla fine di maggio.

Si tratta di calcoli approssimativi, ma in ogni caso, sia i risultati degli utili del primo che del secondo trimestre 2020 subiranno almeno qualche colpo (e considera che alcune aziende pubblicano gli utili del secondo trimestre persino a luglio).

A quel punto, saremo arrivati a metà anno, prima di poter iniziare a dire addio al nervosismo dovuto al coronavirus.

Questo per quanto riguarda l’economia reale…

Bisogna pero’ dire che l’impatto negativo delle pubblicazioni degli utili verrà contrastato dalle banche centrali con nuovi stimoli finanziari, che creeranno un contrasto continuo con le notizie negative, provocando un semestre di volatilità.

Pubblicheremo a fine settimana un articolo completo sulle borse e su come calcolare la fine di questa volatilità e la ripresa del trend a rialzo principale.

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Il team di Strategie Economiche

L’epidemia ha già un vincitore…e non si trova in Occidente

Sono passati appena due mesi da quando la nuova forma di coronavirus, nota come COVID-19, è stata scoperta per la prima volta a Wuhan; e già a gennaio, quindi fin dall’inizio di questa vicenda, diverse città della provincia di Hubei erano in stato di blocco totale, con circa 60 milioni di cittadini cinesi in quarantena.

Questa rapida risposta, molto diversa da quella che si ebbe circa dieci anni fa con la SARS, sarebbe stata quasi impossibile senza i social media.

L’app di messaggistica WeChat da sola ha un miliardo di utenti in Cina; il che significa che le notizie viaggiano velocemente ed è possibile organizzare mobilitazioni di milioni di persone in tempi sorprendentemente brevi. Ma questo non è l’unico apporto positivo dei social …

Con le misure di quarantena che mantengono le persone a casa, nell’ultimo mese la domanda di servizi online ha iniziato una forte espansione.

Meituan-Dianping, importante azienda di consegna a domicilio di generi alimentari, ha lanciato il mese scorso la “consegna senza contatto”, grazie alla quale i clienti possono chiedere al corriere di consegnare il cibo a domicilio o in un altro luogo designato tramite app. Ovviamente, con 60 milioni di persone costrette a casa, gli ordini di consegna di Meituan sono aumentati di quattro volte rispetto a un anno fa.

Anche i veicoli a guida autonoma stanno avendo un utilizzo crescente, consegnando merci in luoghi come Pechino, Shanghai e Shenzhen. E quando la scuola ha ripreso la scorsa settimana dopo la pausa del semestre, 50 milioni di bambini in Cina hanno iniziato a prendere lezioni da casa attraverso lo schermo di un computer (50 milioni: quasi l’intera popolazione dell’Inghilterra.)

Nel frattempo, il servizio di messaggistica per aziende WeChat Work ha registrato un aumento di 10 volte di nuovi account da quando la Cina è tornata dalla pausa del nuovo anno lunare il 10 febbraio (il che dimostra, fra l’altro, che, nonostante ciò che si sente sui media, le aziende in Cina non si sono fermate. E cosi’ anche le scuole).

Tutto questo grazie alla presenza di un fattore di cui poche persone al di fuori della Cina sono a conoscenza…

Solo quattro mesi fa, infatti, il Paese aveva attivato la rete wireless più grande e veloce del mondo, la famigerata 5G.

La rete è ancora in fase di test nella maggior parte delle province, ma è già disponibile in 50 città cinesi; e altre centinaia di città ne entreranno a far parte nei prossimi due anni.

La differenza tra la 5G e la tecnologia wireless convenzionale è come la notte dal giorno. È come essere abituati a guidare un carrello da golf e a un tratto trovarsi al volante di una Porsche.

Quindi, certo, l’epidemia di COVID-19 sta danneggiando l’economia convenzionale cinese. Sta interrompendo le catene di approvvigionamento del paese e il prodotto interno lordo potrebbe subire un colpo nel primo trimestre dell’anno.

Ma, grazie anche alla fortunata coincidenza di aver allestito l’infrastruttura necessaria pochi mesi prima, l’epidemia sta anche scatenando un’innovazione senza precedenti dei servizi online che altrimenti avrebbe richiesto anni per affermarsi.

Questa è la differenza tra un paese con un’economia ancora in espansione e i paesi occidentali destinati a un progressivo declino.

L’innovazione tecnologica, unita alla giovinezza della popolazione, in cui la maggioranza ha l’elasticità mentale e la disponibilità economica necessarie per adottare le innovazioni (in Cina, diversamente che in Occidente, le nuove generazioni hanno maggiore potere d’acquisto delle precedenti) permette al Paese di crescere in qualsiasi caso, anche nel mezzo di una crisi.

Come abbiamo ribadito in tanti altri articoli, gli “esperti” occidentali hanno un difetto di prospettiva, quando cercano di interpretare le vicende cinesi.

L’abitudine a quasi un secolo di recessione ha completamente annullato nella mente occidentale la capacità di riconoscere una economia espansiva, quando gli si presenta davanti.

E’ come se noi occidentali fossimo tornati al livello di quei selvaggi dell’America pre-colombiana, di cui si dice che, per mancanza di punti di riferimento percettivi pregressi, il loro cervello non fosse in grado di decodificare l’immagine delle caravelle di Colombo attraccate davanti alle loro spiagge. Per cui semplicemente non le “vedevano”.

Non so se questa storia è vera o è una leggenda metropolitana, ma rende bene l’idea…

Il team di Strategie Economiche

La piu’ grande bolla azionaria di tutti i tempi è appena partita

In questo articolo, non solo ti diro’ come e perché il mercato USA sta per entrare nell’ultima grande bolla della sua storia. Ti diro’ anche esattamente quali indicatori devi seguire per sapere quando entrare e soprattutto quando uscire dal mercato prima dello scoppio della bolla.

Facciamo una premessa importante.

Alcuni analisti (di solito quelli che dal 2011 prevedono lo scoppio di questa bolla senza mai “azzeccarci”) continuano a seguire indicatori sbagliati che impediscono una corretta interpetazione dei mercati.

Il livello di indebitamento dei governi, alcuni indicatori economici globali, come il “Baltic index”, il decrescente consumo di rame o di acciaio ecc., e infine le politiche monetarie delle banche centrali venivano usati in passato per predire l’andamento delle borse.

Oggi pero’ i mercati finanziari sono del tutto slegati dall’economia reale e vengono direttamente supportati dalle banche centrali con meccanismi che non si erano mai visti nella storia dell’economia.

E’ questo il motivo per cui gli analisti ancora legati agli indicatori economici classici falliscono ormai da un decennio le loro previsioni, mentre chi ha afferrato la situazione e si è attrezzato con nuovi indicatori è perfettamente in grado di leggere la realtà.

Ad esempio, ti hanno sempre detto che la “bolla” del mercato azionario USA persiste dal 2009, mentre invece la realtà è piu’ complessa:

Come si vede dal grafico del Nasdaq degli ultimi dieci anni, una prima “bolla” è iniziata dal 2012 al 2014 (1). Poi la borsa si è presa una lunga pausa dal 2015 a metà 2017 (2). Mentre la bolla attuale (3) inizia da metà 2017 a oggi, con una significativa pausa nel 2018, che coincide con l’unico periodo in cui la banca centrale USA ha interrotto le politiche di supporto ai mercati.

Nessuna di queste fasi del Nasdaq erano prevedibili con l’aiuto degli indicatori tradizionali. Percio’ mi sembra ormai che la realtà ci stia dicendo di abbandonarli.

Non fraintedermi pero’.

Non sto dicendo che gli indicatori economici tradizionali sono inutili. Sicuramente verrà il giorno in cui le politiche delle banche centrali non riusciranno piu’ a tenere separato il mondo finanziario dall’economia reale e dalla storia. E noi seguiamo attentamente questi indicatori proprio per individuare i primi segnali di questo passaggio.

Ma fino a quel giorno, abbiamo il dovere di interpretare i mercati con gli indicatori appropriati, altrimenti perdiamo del tutto il polso della situazione.

Vediamo allora anzitutto quali sono gli indicatori che ci dicono che il mercato NON è nemmeno lontanamente vicino allo scoppio di una bolla.

Perché c’è ancora tanta strada da fare, prima dello scoppio della bolla

Un trend a rialzo, per quanto lungo possa essere, puo’ finire solo quando tutti coloro che investono sono già dentro al mercato. A quel punto, non c’è piu’ spazio per ulteriori ingressi e puo’ solo avvenire una graduale o improvvisa uscita di questi investitori.

Nel nostro caso, la presenza degli investitori privati, che entrano nel mercato soprattutto attraverso fondi comuni o strumenti simili, è ai minimi storici:

Non è possibile quindi che ci sia una fuga dalle borse, visto che manca la massa critica che dovrebbe attuare tale fuga…

Diversa è la situazione, se si guarda al mercato dei futures.

Qui gli hedge fund e le banche la fanno da padrone, e sono tutte “all in” con un livello di fiducia molto elevato:

Il VIX, l’indicatore di “paura” nel mercaro dei futures è a livelli storicamente bassi. E questo alcuni lo interpretano come il segno di una morte imminente di tutti i mercati in genere.

Oggi pero’ la situazione è molto particolare e non ci consente di fare queste semplificazioni.

Come abbiamo detto in questo articolo, c’è una divergenza tra il mercato azionario e quello dei futures.

Mentre il mercato azionario è snobbato dagli investitori e viene supportato solo dalle banche centrali (in modo indiretto, ma con politiche mirate di vario tipo), il forex è affollato da investitori, cioè gli hedge fund e le banche commerciali, che investono principalmente attraverso i derivati.

Il VIX storicamente basso ci dice proprio questo, cioè che hedge fund e banche sono all in nel forex.

Il grafico precedente ci dice invece che hedge fund, banche e fondi comuni sono fuori dal mercato azionario.

Questa non è certo una situazione di bolla estrema…

Lo stadio ultimo che precede lo scoppio di una bolla prevede che entrambi i mercati siano affollati. Manca ancora quindi l’ultima tessera del domino: il mercato azionario.

Ma altri indicatori ci stanno informando che quest’ultima tessera sta finalmente per andare al suo posto e quindi non manca molto al completamento del gioco

Gli indicatori che segnalano l’ultima fase della bolla azionaria USA

Alla fine degli anni ’90, l’ultima fase della famosa bolla delle dotcom fu segnalata con estrema precisione da una divergenza molto semplice: quella fra il Nasdaq e Il Dow Jones:

Se ti stai chiedendo com’è invece la situazione oggi fra questi due indici, ebbene devo dirti che fino al 2019 erano andati perfettamente all’unisono:

Ma dall’inizio del 2020, questa armonia ha iniziato a spezzarsi:

Rispetto al 2019, il Nasdaq ha oggi raggiunto nuovi massimi storici, superando la performance del Dow.

Questo è proprio cio’ che inizio’ a succedere alla fine degli anni ’90, prima dell’ultima fase esplosiva dei mercati.

Ma esiste una analogia ancora piu’ stringente fra questo inizio 2020 e la fine degli anni ’90.

Allora infatti, l’ultimo grande rialzo delle borse fu preceduto da una fase di grande incertezza, avvenuta nel 1998 a causa del crollo di molte valute asiatiche (freccia rossa in basso):

Il pattern si è ripetuto nel 2018, quando un crollo di oltre il 10% dello S&P500 in poche settimane ha scoraggiato gli investitori a rientrare nel mercato (proprio come furono scoraggiati nel 1998):

Dopo quella fase di profondo ritracciamento del 1998, il Nasdaq guadagno’ il 200% nei 18 mesi successivi.

Oggi, la quasi certa ripresa delle politiche di supporto da parte della Federal Reserve fa prevedere una ripresa ancora maggiore per il Nasdaq e gli altri indici, che raggiungerebbero livelli che mai si sono visti nella storia, né immaginati da mente umana.

Non ci sono dubbi e non c’è bisogno di altre prove per dichiarare che siamo entrati nell’ultima fase finale della bolla azionaria americana.

Ma per approfittare di questa occasione unica nella vita di ciascuno di noi, abbiamo bisogno di un ultimo indicatore: quello che ci segnala quando uscire dal mercato prima che la bolla scoppi…

L’indicatore che ci segnalerà quando uscire dai mercati prima dello scoppio della bolla

Questo indicatore si basa su un ragionamento impeccabile, cioè sul fatto che esiste un trend a rialzo sano e uno “malato”.

Quando le borse mostrano i segni di un trend “malato”, è ora di chiudere le posizioni long.

Ma come si definiscono un trend sano e un trend malato?

Il trend sano è quello in cui il rialzo è determinato dall’apporto della maggior parte dei titoli dell’indice.

Quando un buon numero di titoli sale, trascinando a rialzo l’intero indice, allora il trend è sano.

A un certo punto pero’, puo’ accadere che il trend continui il rialzo mentre un buon numero di titoli sia in ribasso.

In questo caso, il trend viene trascinato verso l’alto da un numero ridotto di titoli a grande capitalizzazione che egemonizzano il calcolo totale dell’indice, ma non rappresentano l’intero mercato sottostante.

Da quel momento, il mercato entra in una fase in cui il trend a rialzo diventa “malato” e prossimo al collasso.

La buona notizia è che tutto questo puo’ essere monitorato facilmente da un indicatore chiamato “Advance/Decline Line” che puoi consultare liberamente su questa pagina.

Questo era l’aspetto dell’indicatore rispetto allo S&P500 alla fine degli anni ’90:

Come si vede, la linea blu dell’Advance/Decline Line aveva iniziato a divergere di molto rispetto all’andamento dell’indice di riferimento.

In modo piu’ sfumato, si ebbe una analoga divergenza prima del crollo del 2008:

In quella occasione, lo S&P500 raggiunse nuovi massimi, mentre la linea blu faceva massimi decrescenti.

E oggi, a che punto siamo con questo indicatore?

Per fortuna, come mostra il grafico sotto, non siamo neanche lontanamente vicini ai due casi precedenti: le due linee continuano a correre insieme:

Questo vuol dire che il momento di entrare nel mercato è ora.

Per ottenere i rendimenti estremi che si riescono a fare nelle ultime, straordinarie fasi di una bolla, chi non è già dentro il mercato, deve approfittare di ogni ritracciamento per acquisire titoli a un prezzo non troppo alto e crearsi un portafoglio da mantenere fino a che il nostro indicatore non ci segnali il momento di chiudere tutto.

Ed è proprio cio’ che stiamo facendo in Strategie Portfolio.

Grazie all’insperato aiuto dell’epidemia cinese, che ha prodotto un breve, ma intenso ritracciamento della borsa azionaria USA, abbiamo aggiunto 6 nuovi titoli azionari, mentre nella nostra watching list abbiamo altri 50 titoli che aspettano il momento buono per entrare in portafoglio.

Diversamente da come abbiamo fatto nel 2019, quest’anno utilizzeremo molto piu’ le azioni, che affiancheranno le nostre consuete operazioni in opzioni.

Per molti mesi, costruiremo pazientemente un portafoglio che ci accompagnerà fino alla fase estrema della bolla, che potrebbe arrivare a fine 2020 o nel 2021.

La fase finale della bolla azionaria USA è uno di quegli eventi che capitano una volta sola nella vita…

Se non vuoi perdere questa occasione, sei ancora in tempo per entrare (alcuni dei titoli inseriti sono ancora “buy” e presto ne aggiungeremo molti altri): CLICCA QUI PER UN MESE DI PROVA INTERAMENTE RIMBORSABILE IN STRATEGIE PORTFOLIO!

PS: ecco la nostra tabella interna che mostra gli attuali rendimenti dei titoli azionari inseriti durante gli ultimi ritracciamenti delle borse. Alcuni (5 su 7) sono stati inseriti da appena due-tre settimane:

Man mano che ci avviciniamo alla fase finale della bolla, ogni ritracciamento verrà seguito da rialzi sempre piu’ violenti.
Quindi se si scelgono i titoli adatti, si prendono in pieno questi rialzi veloci di solito poco frequenti nelle azioni (e considera che qui NON ci sono penny stock o titoli del mercato OTC. Sono tutti titoli del Nasdaq o del Nyse poco soggetti a volatilità irrazionale).

Costruisci con noi il tuo portafoglio azionario di fine-bolla, perfettamente equilibrato in termini di settori, tipologie di titoli, capitalizzazione, valore dell’equity ecc.
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PPSS: come sempre, per chi vuole anche rendimenti a medio-breve termine continueremo i nostri trade con le opzioni… con una novità: accanto ai trade che si concludono dopo alcuni mesi, inseriremo anche trade settimanali, per consentire un equilibrio maggiore tra profit e loss (chi fa trade con le opzioni, sa di cosa parlo).
In Strategie Portfolio siamo in grado di modificare metodi e tecniche di trading al variare delle condizioni di mercato.
Questa caratteristica ci permette di costruire con maggiore tranquillità il nostro portafoglio azionario di fine-bolla, avendo anche dei rendimenti a breve-medio termine che non sono possibili con le azioni, ma sono necessari per rendere sostenibile nel tempo il nostro lavoro di trader.
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La Federal Reserve interrompe la liquidità giornaliera per le banche

Normalmente alcune grandi banche gestiscono la liquidità di tutto il sistema bancario, immettendo la liquidità giornaliera che manca alle altre banche per completare le loro operazioni quotidiane e riprendendosela il giorno dopo.

Da settembre 2019 a gennaio 2020 queste banche avevano manifestato segni di sofferenza e non avevano piu’ la liquidità disponibile per svolgere questa funzione.

Per questo, la Federal Reserve si era sostituita a queste banche mettendo la propria liquidità a disposizione del sistema (oltre 400 miliardi in totale, da settembre a dicembre 2019).

Questa mossa della Fed non è un’attività di routine, ma anzi viene adottata poche volte, e sempre nel corso di grandi crisi di liquidità, come quella del 2008. Per tale ragione, vista l’eccezionalità della cosa, tramite il nostro canale Telegram abbiamo fornito una cronaca in presa diretta sull’andamento di questa operazione della Fed, fino alla sua conclusione odierna.

Ora questo ciclo di salvataggio è definitivamente terminato e la Federal Reserve sta gradualmente restituendo alle grandi banche la loro funzione di gestori della liquidità giornaliera bancaria.

Le misure della Fed per attuare questo ritiro sono:

  • Dal 17 gennaio 2020, chiusura senza rinnovo dei titoli di stato a breve termine usati in questo scambio giornaliero di liquidità e andati in scadenza.
  • Dal 30 gennaio 2020, aumento dei tassi d’interesse per la liquidità giornaliera (da 1,55% a 1,60%) e per la liquidità bisettimanale (da 1,58% a 1,61%), in modo da rendere piu’ attrattiva la liquidità della grandi banche, che offrono tassi inferiori.
  • Dal 4 febbraio, taglio da 30 miliardi a 5 miliardi della liquidità bisettimanale offerta.

Secondo la Fed, la crisi di liquidità avvenuta da settembre a gennaio era dovuta al fatto che le riserve obbligatorie (sotto forma di titoli di stato a breve termine) che le banche devono per legge detenere nella banca centrale erano troppo basse.

Visto che tali riserve dovrebbero servire proprio in questi momenti di bisogno e in tal caso si sono dimostrate insufficienti, la Fed ha deciso di aumentarle, aggiungendo al proprio bilancio titoli di stato a breve termine per un valore di 78 miliardi. In tal modo, il bilancio totale della banca centrale ha raggiunto il valore di 248 miliardi.

Quindi, attualmente la Fed considera risolta la crisi di liquidità giornaliera bancaria di fine 2019 che tanto aveva allarmato gli addetti ai lavori.

Dal punto di vista dei mercati azionari, dobbiamo pero’ mettere questa decisione della Fed in prospettiva, collegandola ad altre decisioni che sta prendendo in questi giorni e che sembrano arrivare a un punto di svolta che cambierà il trend principale della borsa USA.

Torneremo a breve con un articolo importante che esaminerà nel complesso tutti questi aspetti.

Il team di Strategie Economiche

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Analisi completa dell’oro a lungo termine

Negli ultimi otto mesi, l’oro si è incrementato di oltre $ 300 per oncia, cioè quasi del 22%, raggiungendo livelli che non vedeva da quasi sette anni.

La domanda è: possiamo aspettarci di più nel lungo periodo?

Abbiamo visto dei picchi durante il recente dramma iraniano e anche, in minima parte, all’inizio della paura del coronavirus. Certo, i titoli dei giornali determineranno sempre aumenti di breve periodo, ma sono i fondamentali a decidere la tendenza a lungo termine.

Vediamo allora alcuni indicatori di lungo termine.

Rapporto tra oro e Dow Jones

Questo indicatore mette in relazione il prezzo dell’oro con l’indice Dow Jones:

Attualmente ci vogliono circa 18 once d’oro per equiparare la quotazione del Dow. Il picco di questo rapporto oro-Dow fu raggiunto nel 1999, quando l’oro era a circa $ 290 l’oncia e il Dow era a circa 11.500 punti.

Il punto più basso invece arrivo’ al culmine del boom delle materie prime degli anni ’80, quando l’oro era quasi alla pari con il Dow dopo un lungo decennio di mercati stagnanti.

Il valore attuale di 18 indica che l’oro, rispetto alle azioni, è ancora relativamente poco costoso. E questo sarebbe confermato dalla pressione a rialzo che si è instaurata fin dall’inizio del 2019. Pressione che rende finora impossibile alle banche manipolare a ribasso le quotazioni dell’oro fissando la soglia massima degli ultimi 10 anni, cioè intorno a $1370 l’oncia.

Ora la manipolazione a ribasso riesce a malapena a mantenere il metallo giallo in un range compreso tra i $1450 e i $1600. E questa è sicuramente una pietra miliare nel lungo e faticoso percorso a rialzo di lungo termine.

Rapporto tra ETF e fondi di investimento

Un altro indicatore di lungo termine è il rapporto tra ETF legati all’oro e ETF legati al mercato azionario, considerato un indicatore del “sentiment” degli investitori.

Nel 2011, quando l’oro raggiunse il picco di circa $ 1.900 l’oncia, l’ETF SPDR Gold aveva le stesse dimensioni dell’ETF S&P 500. Ultimamente il rapporto fra i due ETF ha invece toccato il fondo nel 2018, con una dimensione relativa inferiore al 10%, che oggi è leggermente aumentata, portandosi al 14%.

Anche i fondi comuni di investimento legati ai metalli preziosi hanno avuto un decennio da dimenticare. Secondo i dati di Morningstar, in media sono diminuiti del 5% all’anno.

Questi dati dimostrano che la propensione degli investitori a comprare titoli di borsa legati all’oro non è minimamente vicina ai valori che si vedono nelle fasi di massima espansione delle quotazioni dell’oro e dei titoli ad esso legati. E questo nonostante tali quotazioni siano progrediti significativamente verso i loro massimi storici.

Questo dato ci dice ovviamente che il gap fra fondi, ETF ecc. e la quotazione dell’oro tenderà a essere riempito. Quindi la probabilità va verso un ritorno degli investitori in questo mercato, piuttosto che verso il flusso contrario.

Ma il dato contraddice anche l’ipotesi che si poteva fare sulla base del rapporto oro-Dow, cioè che le banche non riescono a calmierare le pressione a rialzo con la stessa efficienza di prima e quindi attualmente hanno fissato un limite superiore a quello degli ultimi dieci anni (1.450-1.600 l’oncia).

Se la pressione a rialzo dell’oro è creata dalle stesse banche, allora non c’è alcun “braccio di ferro” con gli investitori che giustifichi l’aumento della soglia di guardia per l’oro, ma si dovrebbe piuttosto ipotizzare che siano le banche stesse ad aver deciso questa nuova soglia, forse per dare piu’ valore agli ingenti depositi di oro che hanno accumulato nei dieci anni precedenti.

Anche qui, chiariamo una differenza tra i movimenti a lungo termine e quelli a breve.

Quando c’è una crisi o una notizia clamorosa sui giornali, il “braccio di ferro” effettivamente si instaura tra le banche e gli investitori, ma nel mercato dei futures, non nei fondi o negli ETF.

Le posizioni long che si accumulano nei futures riesce a superare le posizioni short delle banche, che perdono realmente il controllo, ma solo finché la crisi non viene superata. Dopo quel breve periodo, la situazione torna a favore delle banche (ed è cio’ che abbiamo visto nelle ultime due crisi “televisive”).

Noi invece stiamo discutendo dell’andamento a lungo termine e del perché questo si sia assestato su un nuovo livello di guarda (o, se volete, sotto una nuova “resistenza”), superiore a quello degli ultimi dieci anni…

Il rapporto oro-Dow fa pensare che vi sia una pressione maggiore verso gli acquisti di oro, grazie ai prezzi concorrenziali, rispetto a quelli azionari.

Il rapporto tra ETF e fondi auriferi e azionari invece fa pensare che questa pressione è ancora una mera possibilità (cioè gli investitori non sono ancora attirati da questi prezzi concorrenziali), mentre sono le banche stesse a far incetta di oro da talmente tanto tempo (e consideriamo che solo negli ultimi due anni le banche occidentali si sono aggiunte al party, fino a quel momento dominato dalle banche asiatiche) al punto da determinare un nuovo livello di guardia per il trend a rialzo di lungo termine.

Non è possibile confermare alcuna delle due ipotesi, percio’ le lasciamo entrambe aperte alle valutazioni dei lettori.

Infine, nessun discorso sui prezzi e sugli investimenti dell’oro dovrebbe ignorare un fattore chiave, ossia le scorte di miniere d’oro.

Le scorte delle miniere

Tutti i minatori di oro hanno un punto di pareggio in cui i loro costi di produzione corrispondono ai loro ricavi.

Se si scende troppo al di sotto di questo punto di pareggio, è semplicemente una strage…

Basta guardare indietro solo di due anni per avere molte prove di questo bagno di sangue, con decine e decine di imprese fallite o (quelle di maggiori dimensioni) costrette a ridimensionare le loro attività.

Ora invece, in corrispondenza di questa nuova “resistenza” alla quale sembra essersi stabilizzata la quotazione, stiamo entrando in una nuova fase in cui tale quotazione ridiventa un moltiplicatore di profitto per le miniere.

Nel 2019, i costi medi di gestione delle miniere sono saliti a $ 1.000 per oncia. Alle quotazioni attuali, tale costo medio permette alle miniere un guadagno di $ 273 per oncia. A $ 1.600, il guadagno salirebbe a $ 600.

Se confrontiamo questo dato con il trend delle quotazioni, possiamo vedere che:

  • Da una parte l’oro è salito di circa il 22%
  • Ma nello stesso periodo di tempo, la capacità di profitto per le miniere è salita del 120%

Bisogna considerare queste cifre nel contesto reale del mercato di oro fisico.

Le miniere o i loro intermediari raramente vendono a prezzi spot, cioè non vendono una certa quantità un certo giorno al prezzo del giorno.

Nella maggioranza dei casi, si stipulano contratti a lungo termine che vengono poi aggiornati man mano che cambiano quotazioni, costi, ecc.

Un trend a rialzo di lungo termine fa si’ che le proiezioni su cui vengono rimodulati questi contratti siano riviste stabilmente a rialzo, provocando una sorta di “leva” ai profitti delle miniere.

Quindi, riassumendo, la combinazione di prezzi dell’oro relativi ancora storicamente bassi, un basso interesse relativo degli investitori e una ventata imminente di profitti dei minatori dell’oro indicano che – almeno dal punto di vista dei fondamentali – c’è molto spazio di crescita per i prezzi dell’oro.

Tale affermazione pero’ va sempre abbinata a un attento monitoraggio di cio’ che accade dal punto di vista finanziario, cioè dei comportamenti delle banche centrali. Ma anche da questo punto di vista sembra che, per un motivo o per un altro, vi sia un allentamento progressivo del “guinzaglio” con cui le banche tengono a bada il loro avversario peggiore.

Il team di Segnali di Borsa

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