martedì, Luglio 15, 2025

La Fed sta iniziando a creare voragini nelle banche straniere

Questo articolo di Zerohedge spiega con molta chiarezza gli squilibri che la politica monetaria della Federal Reserve sta creando nelle banche non americane.

Si tratta di un altro fattore distruttivo legato all’aumento incontrollato del dollaro da aggiungere agli altri di cui abbiamo parlato altrove.

In sostanza, funziona cosi’: visto che tutti gli asset da investimento sono azzerati dalla Fed, le grandi banche straniere non possono fare altro che rifugiarsi nei titoli di stato americani; gli unici che oggi garantiscono un certo rendimento.

Ma il modo di investire delle banche non è come quello dei comuni mortali.

Quando una grande banca impiega cifre considerevoli su degli asset, si preoccupa sempre di aprire posizioni a copertura dell’investimento. Sono le leggi bancarie a richiedere questa misura prudenziale.

Quindi, facendo un esempio concreto, se una grande banca investe 100 in titoli di stato denominati in dollari, deve allo stesso tempo investire 100 in futures a ribasso sul dollaro a copertura dell’investimento precedente.

Tuttavia, in un contesto in cui la Federal Reserve aumenta i tassi ogni tre mesi, portando il dollaro a livelli sempre piu’ alti, quelle posizioni futures aperte dalle banche a copertura diventano una fonte di perdite costanti.

Infatti, ogni volta che i futures vanno in scadenza, la banca deve ricomprarli. Ma se nel frattempo il dollaro è salito, le banche perdono soldi nell’operazione.

Tra parentesi, considerando poi che gli acquisti in derivati avvengono nella valuta nazionale della banca, questo porta ulteriore pressione a ribasso su tale valuta e ulteriore pressione a rialzo sul dollaro.

Ma soffermiamoci per ora su cosa accade nelle banche costrette a fare queste operazioni suicide. Non ci vuole molto a capire che prima o poi queste perdite continue possano aprire dei buchi di bilancio, almeno nella contabilità overnight delle banche.

Zerohedge ad esempio ha notato che a fine settembre, in coincidenza con le scadenze di questi futures-killer detenuti dalle banche, gli spread delle obbligazioni “investment grade” sono aumentati di quasi 20 punti base.

E’ come se il mercato obbligazionario, sempre attento a cio’ che succede davvero nell’economia al di là delle favole dei media, si sia accorto della criticità in questi derivati e inizi a scontarla sul proprio mercato.

L’altra prova che Zerohedge ci fornisce a conferma di questo meccanismo perverso è un po’ piu’ inquietante.

Il 5 ottobre la Federal Reserve ha infatti inviato 3 miliardi di dollari alla banca centrale svizzera per coprire il buco di bilancio di una grande banca del paese, presumibilmente la famosa Credit Suisse di cui tanto si parla.

L’entità di questo aiuto è pari solo a quello che la Fed invio’ alla stessa banca centrale durante la crisi del covid.

L’aiuto avviene sotto forma di “liquidity swap”, cioè la Fed compra franchi svizzeri il 5 ottobre, in cambio di dollari, dopodiché alla scadenza (il 13 ottobre) si ricompra i dollari con un interesse.

E’ il primo swap che la Fed effettua quest’anno e, secondo alcuni analisti, potrebbe essere il primo di una serie, se il corso incontrollato del dollaro farà aprire nuovi buchi di bilancio nelle banche dei paesi “alleati” degli USA.

Per inciso, è da notare che queste crisi di bilancio non affliggono le banche americane, dal momento che la Fed, prima di iniziare questa macelleria economica, si è preoccupata di assicurare ben due rendite passive ai propri istituti di credito:

– gli interessi sulle riserve che le banche per legge devono depositare presso la Fed,

– gli interessi sui depositi repo

Con l’aumentare dei tassi d’interesse USA, l’entità di queste rendite è ora ben al di sopra del 3% e assicura alle banche americane una comoda fonte di liquidità praticamente gratis.

Nel suo solito stile sensazionalistico, Zerohedge salta subito alla conclusione che questo meccanismo suicida delle coperture sui titoli di stato USA possa innescare una qualche crisi conclamata nelle banche non americane.

Io invece ritengo che la Fed sia perfettamente in grado di sostenere nel tempo questi aiuti overnight nei suoi stati “vassalli”. Anzi, se ci riflettiamo un po’, possiamo anche ipotizzare che cio’ rientri perfettamente negli interessi strategici degli USA.

Costringere i paesi “alleati” a mendicare aiuti ogni tre mesi per evitare delle crisi bancarie…c’è un modo migliore per tenere sotto controllo la “fedeltà” di questi paesi?

Finché il giocattolo non si rompe, l’America pensa di aver trovato la formula magica del dominio mondiale. Quindi i rialzi dei tassi della Fed non si fermeranno tanto presto (e, ancora una volta, è chiaro che non riguardano la lotta all’inflazione)…

Il ko di Powell alla Cina

Abbiamo sempre detto che la politica dei rialzi dei tassi della Federal Reserve ha come scusa ufficiale la “lotta all’inflazione”, ma in realtà il suo scopo è geopolitico.

Una dimostrazione pratica di questa tesi è l’effetto dei rialzi dei tassi americani sullo yuan cinese.

Considera questa sequenza:

15-16 marzo 2022: la Fed inizia ufficialmente il primo rialzo dei tassi.

26-27 luglio 2022: la Fed incrementa il rialzo a 75 punti base.

E vedi in questo grafico cosa hanno comportato questi due eventi per lo yuan:

Si tratta di un vero e proprio KO in due colpi che ha riportato lo yuan ai livelli degli anni ’90…

Con l’aiuto dei nostri precedenti articoli, cercheremo di capire meglio la partita che c’era in gioco fra le due superpotenze fin dal 2020 e il senso di questo suo esito finale causato dalla Federal Reserve.

Detto in due parole: dal 2020 al 2021 la Cina era riuscita ad apprezzare lo yuan sul dollaro. Ma nel 2022, con i rialzi dei tassi, la Fed è riuscita a vanificare questi sforzi, riportando lo yuan all’età della pietra.

Ma vediamo in dettaglio le tappe di questa sequenza di eventi…

Iniziamo dal 2020

In questo articolo di settembre 2020 spiegavamo che la Cina stava mettendo in pratica le seguenti misure:

  • investimenti in infrastrutture e aiuti di stato per la ripresa dei consumi azzerati dal covid.
  • distruzione di Hong Kong come piazza finanziaria indipendente
  • aumento delle riserve in yuan nelle banche estere
  • massiccio aumento di materie prime

Le prime due misure hanno interrotto l’emorragia di yuan fuori dal paese.

La terza ha contribuito a rafforzare gli effetti positivi sullo yuan delle prime due misure.

La quarta ha creato le premesse per una inflazione senza precedenti in occidente, che effettivamente si scatenerà a metà del 2021.

E’ da questo momento che la Cina ha ripreso il controllo dello yuan, iniziando a rafforzarlo sulle altre valute.

Passiamo al 2021

In questo articolo di febbraio 2021 spiegavamo che:

grazie alla ripresa economica post covid iniziata in anticipo rispetto all’occidente, la Cina ha incrementato le sue entrate commerciali in dollari, riempiendo di questa valuta pregiata le sue banche.

Nel frattempo, come avevamo indicato in questo articolo, la Cina ha iniziato a rimettere sul mercato le materie prime che aveva accumulato.

In questa fase infatti il problema cinese era che lo yuan rischiava di apprezzarsi troppo.

Dunque una piu’ equilibrata bilancia commerciale con l’occidente e una gestione oculata delle riserve monetarie servivano bene allo scopo.

Riassumendo quindi, nel 2021 lo yuan era talmente saldo nella sua posizione di preminenza che il governo doveva preoccuparsi di non farlo salire troppo…

La libertà di movimenti Cinese

Riflettendo su quanto detto finora, possiamo notare un fatto importante, cioè che, nei due anni considerati, la Cina ha potuto adottare tutte queste misure a proprio piacimento, grazie a una completa libertà di movimenti sulle piazze commerciali e valutarie globali.

Senza la possibilità di approvigionarsi di materie prime e beni e di rivenderle secondo le necessità, la Cina non avrebbe potuto modulare cosi’ facilmente la propria bilancia commerciale e gli scambi valutari con l’estero.

Ecco perché, a partire dal 2022, gli USA hanno deciso che l’unico modo per riprendere il controllo dell’economia post covid era ridurre questa libertà di movimenti.

Da qui l’invenzione della guerra ucraina e, con l’aumento indiscriminato del dollaro, la destabilizzazione di molti altri paesi. Due fattori che hanno iniziato a rendere molto piu’ difficile il transito di materie prime e merci a livello globale.

E arriviamo cosi’ all’epilogo del 2022…

…nel quale, con il semplicissimo stratagemma di aumentare i tassi in uno scenario di guerra, gli USA sono riusciti a innescare una vera e propria isteria di massa sotto forma di una corsa al dollaro globale, perseguita ciecamente da governi e istituzioni alla ricerca di un immaginario “porto sicuro”.

In questo scenario completamente mutato, la Cina, oltre ad avere uno yuan di nuovo a terra, si ritrova a non poter piu’ calibrare liberamente le proprie riserve di materie prime, aumentandole o riducendole per variare a piacimento l’inflazione globale e la propria bilancia commerciale.

In questo recente articolo ad esempio apprendiamo che la Cina ha dovuto interrompere il programma di vendite delle sue riserve di grano, che erano iniziate dal 2021 per proteggere i suoi produttori e modulare l’inflazione da lei stessa prodotta nel 2020.

Infatti la guerra ucraina, con la penuria di grano globale che ne deriva, renderebbe difficile per la Cina ricostituire in futuro queste riserve, una volta terminate le vendite e all’ottenimento di un prezzo nuovamente interessante di questa materia prima.

Questo è solo un esempio di come oggi la Cina non si trovi piu’ ai bei tempi del post covid, quando poteva fare il bello e cattivo tempo nell’economia mondiale.

Con uno yuan ancora una volta in caduta libera, ora la Cina è costretta a reiterare i lockdown per ridurre i consumi e la domanda, nel tentativo di “congelare” le cose, mettendo la società in una campana di vetro in attesa di tempi migliori.

Il governo vorrebbe anche intensificare la supervisione dei prezzi, rafforzando la repressione della speculazione sia nei mercati spot che dei futures. Ma, non avendo potere sulle piazze finanziarie, interamente in mano all’occidente, le sue sono armi spuntate in questo senso.

Modulare la domanda e l’offerta interne e procurarsi materie prime nelle nuove vie commerciali aperte dai paesi antagonisti dell’occidente (le abbiamo elencate qui) è quindi la via obbligata per questo paese.

Tuttavia, per quanto riguarda il problema specifico dell’aumento del dollaro, che continua a strangolare lo yuan e tutte le altre valute mondiali, non c’è una contromisura diretta che la Cina o gli altri paesi possano adottare.

Il rialzo del dollaro è un problema risolvibile solo all’interno degli USA.

Quando la corsa dei tassi e del dollaro arriverà al limite estremo di una possibile catastrofe nel mercato obbligazionario, solo allora la Federal Reserve si fermerà e lo yuan potrà di nuovo respirare…

Il dollaro contro le nazioni

Il dollaro sta diventando una vera e propria arma non convenzionale utilizzata dagli Stati Uniti per contrastare lo sviluppo delle economie non occidentali.

Negli ultimi anni, infatti, con una evidente accelerazione dal 2020 a oggi, si sta creando sotto gli occhi dell’occidente un’intera economia globale alternativa che si basa su rotte commerciali da cui l’occidente è escluso:

– La International North South Transportation Corridor è una rotta commerciale eurasiatica tra Russia, Iran e India – attraverso il Mar Caspio – più breve ed economica di quella che passa per il Canale di Suez.

– La Belt and Road Initiative, la rotta che va da Vladivostok a Bilbao ed ha decine di itinerari intermedi tra Asia Centrale e Africa.

– Le Silk Pipelines, che comprendono tutti gli oleodotti e gasdotti che non passano per l’occidente e transitano tra Asia Centrale, Turchia, Russia e Estremo Oriente.

Questi immensi corridoi commerciali sono gestiti da organismi internazionali, come l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO) e l’Unione economica eurasiatica (EAEU), che coordinano gli sforzi per creare una economia globale inclusiva e basata sullo scambio di merci, piu’ che sui debiti e sulla finanza.

Nello stesso lasso di tempo, la Federal Reserve, di concerto con il Pentagono e gli organismi americani che influenzano i conflitti armati nel mondo, hanno gettato le basi per una prolungata fase di rafforzamento del dollaro sulle altre valute mondiali.

Sia le politiche della Fed infatti che l’instabilità creata dalle nuove guerre regionali, soprattutto quella in Ukraina, hanno determinato una corsa al dollaro come valuta-rifugio; finché questo dollaro, giunto ormai ai valori piu’ alti degli ultimi 20 anni, unito a un’inflazione su scala planetaria, è arrivato a provocare la destabilizzazione di moltissimi paesi.

Non passa giorno senza che da qualche parte del mondo si scateni una qualche forma di protesta destinata a destabilizzare la società e il governo in carica del paese interessato.

Non sappiamo se la creazione di un dollaro cosi’ forte sia stata consapevole fin dall’inizio, oppure se gli USA hanno semplicemente approfittato delle circostanze per arrivarci.

Sta di fatto che attualmente il dollaro è diventata una vera e propria arma di distruzione di massa che rende quasi impossibile ai paesi non occidentali procurarsi energia, cibo e risorse senza prosciugare i propri bilanci.

L’inedita stagione di disordini planetaria che ne deriva, rende piu’ instabile la nuova economia di mercato che si sta affermando in quelle zone.

Ecco quindi che il dollaro mette i bastoni fra le ruote in tutte le iniziative dei vari BRICS, SCO e EAEU, rallentando l’affermazione di un mondo libero dalle pastoie occidentali.

Tuttavia, i costi per tenere a bada questi tentativi di smarcamento dall’occidente stanno diventando altissimi.

I paesi occidentali devono destinare sempre piu’ risorse al mantenimento di questa instabilità, riducendo all’osso le risorse per il loro benessere interno.

l’UE ad esempio, letteralmente non ha i soldi sufficienti per creare i corridoi di gas e petrolio alternativi a quelli russo-asiatici da cui ha deciso di smarcarsi.

Nel frattempo, il conflitto in Ukraina si sta dimostrato un pozzo senza fondo per l’UE, impegnata nello sforzo economico di mantenere in vita il paese e il governo sostanzialmente in bancarotta, per sostenere il conflitto armato e per tentare di rendere sostenibili nei paesi occidentali le conseguenze economiche del conflitto.

In questo momento, semplicemente l’occidente ha messo in pausa il proprio sviluppo economico, mentre tutte le risorse vengono destinate a ostacolare lo sviluppo degli altri.

Nel frattempo, le valute dei paesi coinvolti stanno subendo delle trasformazioni profonde.

Da una parte, le valute dei paesi della nuova economia di mercato extra-occidentale si agganciano sempre piu’ al valore delle materie prime e delle merci scambiate.

Dall’altra, il dollaro risponde con una temporanea messa in pausa della sua espansione monetaria, con la manipolazione a ribasso di alcune materie prime nei mercati dei derivati e con l’aggancio a bitcoin, l’unico asset disponibile in occidente che abbia caratteristiche simili a una materia prima (scarsità programmata che lo rende non inflazionabile).

La situazione non prevede sbocchi realistici, da entrambe le parti.

Contrariamente a quanto pensano i complottisti, i paesi non occidentali non hanno la forza o la lungimiranza per dare un taglio al potere occidentale dei derivati finanziari.

Una reale alternativa economica all’occidente passerebbe solo per la creazione di nuove sedi internazionali che possano stabilire i prezzi delle merci e delle commodities al di fuori della manipolazione dei derivati.

Queste nuove sedi, pian piano si stanno creando, basti pensare ai nuovi mercati dell’oro negli Emirati, in Cina e prossimamente in India. Ma nessuno di questi nuovi centri ha la forza o la volontà di affermare una price discovery diversa da quella stabilita ogni giorno da Londra.

Finché non avverrà una cosa del genere, gli sforzi dei paesi non occidentali, per quanto faraonici nelle dimensioni, resteranno alla stregua di dispetti fatti dai bambini alle spalle del maestro che scrive alla lavagna.

D’altro canto l’occidente, privo delle basi culturali, sociali, politiche e storiche che permettono l’esistenza di una civiltà, non puo’ che proseguire la sua parabola discendente stando in guerra permanente col mondo e con se stesso per ritardare il momento della cancellazione finale.

Come dicevo: non ci sono sbocchi realistici da entrambe le parti.

L’implacabile dinamica delle catene di distribuzione

In questo articolo parleremo della dinamica delle scorte di magazzino e dei blocchi delle catene di distribuzione.

Luke Templeman di Deutsche Bank ha per primo spiegato l’effetto bullwhip che si verifica quando ci sono ondeggiamenti improvvisi della domanda e delle scorte di magazzino.

La pandemia del 2020 ha innescato una delle piu’ macroscopiche fra queste oscillazioni di tipo bullwhip, che, visto l’aggiungersi di nuovi fattori destabilizzanti, come la guerra e possibili nuove pandemie, reali o indotte, continueranno ad alternarsi finché, si spera, non troveranno un equilibrio.

Le oscillazioni “bullwhip” sono iniziate allo scoppio della pandemia covid, durante il quale le catene di approvvigionamento dall’Asia furono messe in lockdown, spingendo i rivenditori in occidente ad aumentare gli ordini per mantenere le scorte di magazzino.

Il grafico qui sotto accompagnerà il nostro discorso, indicandoci l’andamento dei blocchi delle catene di approvvigionamento, dall’inizio della pandemia a oggi.

Le prime due frecce rosse indicano un salto innaturale della curva blu (che rappresenta l’aumento o la diminuzione dei blocchi nelle catene di approvvigionamento).

2020: Prima oscillazione bullwhip: azzeramento della domanda e delle scorte

La prima salita della curva infatti era effetto dei primi lockdown in Asia, mentre la brusca discesa successiva non indica un ritorno alla normalità, ma piuttosto il fatto che i consumi, a causa degli stessi lockdown esportati in occidente, erano crollati a zero, come lo erano le richieste di nuovi ordinativi da parte di grossisti e rivenditori.

La proclamazione dei lockdown in occidente dunque ha fatto precipitare la domanda e, dopo poco tempo, anche le scorte, sia dei grossisti che dei rivenditori.

Questa è percio’ la prima delle oscillazioni di tipo bullwhip delle scorte.

2021: Seconda oscillazione bullwhip: congestione delle catene di distribuzione e aumento dei prezzi

Alla ripresa dei consumi nel 2021 molte aziende non avevano scorte sufficienti per soddisfare i clienti.

L’urgenza di ricostituire le scorte di magazzino con nuovi ordinativi, accoppiata pero’ al persistere del blocchi delle catene di approvvigionamento hanno provocato l’inizio dell’ ormai famigerato trend di aumento dei prezzi che continua tuttora.

Nel grafico, questa fase corrisponde alla salita della curva blu dal minimo “innaturale” toccato a ottobre 2020 fino ai livelli piu’ elevati, raggiunti alla fine del 2021.

2022: Terza oscillazione bullwhip: parziale riapertura delle catene di distribuzione e ripresa delle scorte, tranne per le merci provenienti dall’Asia

Il 2022 ha visto una graduale risoluzione della congestione nei porti in occidente (indicati dalle frecce e dalla scritta nel grafico). Secondo l’ultimo rapporto di JPMorgan, ad esempio, il numero di navi all’ancora e in avvicinamento a Los Angeles e Long Beach è tornando ai livelli precedenti la pandemia di covid.

Quindi, se non fosse per il persistere dei blocchi dei porti cinesi, saremmo già entrati nella fase terminale dell’ “effetto bullwhip”, dove i rapporti tra scorte e vendite si invertono e raggiungono finalmente un equilibrio.

Infatti, se la Cina aprisse davvero i suoi porti, i prezzi dei cosiddetti beni “core” crollerebbero, alcuni quasi da un giorno all’altro, mentre i prezzi non core (cibo ed energia) esploderebbero ancora più in alto.

Tutto cio’ sarebbe l’effetto di un brusco calo degli ordini dei rivenditori, i quali cercherebbero di ridurre le loro scorte esistenti anche con delle campagne di sconti che accelererebbero la caduta dei prezzi di alcuni articoli.

Ma la domanda è: siamo davvero sicuri che la curva blu sia destinata a tornare ai livelli “normali” precovid, evidenziati dalla retta verde a sinistra del grafico?

In altre parole: siamo sicuri che la Cina riprenderà a commerciare con l’occidente come se niente fosse?

La nuova normalità delle dinamiche delle scorte e della catena di distribuzione

Quella rassicurante retta verde indica un tempo vicino a noi solo cronologicamente.

Nei due anni e mezzo successivi, purtroppo, ci sono stati cosi’ tanti cambiamenti da mettere in dubbio il ritorno della globalizzazione cosi’ come eravamo abituati a pensarla.

E sta di fatto che quella retta verde potrebbe tornare a esistere solo se tornassimo ai parametri di allora, cioè se tornasse la globalizzazione “vecchio stile”…

Ora, tutti speriamo che sia cosi’, ma mi sembra che le ultime decisioni dell’Unione europea sull’embargo energetico russo vadano esattamente nella direzione contraria.

Quindi è lecito fare un’altra ipotesi, secondo la quale non torneremo piu’ a quella normalità, ma, al contrario, raggiungeremo un nuovo assetto della dinamica delle scorte e delle catene di distribuzione, con una limitazione permanente dei commerci tra oriente e occidente che farebbe restare la curva blu nei pressi della “nuova normalità” indicata nel grafico.

Dal punto di vista dei trend di borsa, dovremmo quindi tenere in conto la possibilità che a un certo punto si creino due trend di breve-medio periodo:

– un primo trend a ribasso di breve periodo, quando i mercati inizieranno a capire che la caduta verticale dei prezzi (su cui stanno scommettendo ora) non ci sarà, ma semmai avremo una discesa moderata o discontinua causata piu’ dalle capacità dei governi occidentali di “castigare” i consumi che dal ritorno della globalizzazione e del libero commercio.

-un secondo trend laterale-ribassista che potrebbe ridurre la portata dei trend a rialzo innescati dalla dinamica legata alla futura probabile recessione e alla conseguente reazione di allentamento monetario della Fed.

In ultima analisi, la dinamica delle scorte e delle catene di distribuzione (legata alla dinamica dei prezzi e all’inflazione) è un fattore in piu’ che dovremo aggiungere agli altri che abbiamo trattato nei nostri ultimi due articoli (ossia, la dinamica inflazione-disinflazione, i limiti oggettivi della manovra aggressiva della Fed e il braccio di ferro tra la Fed e le banche).

La causa segreta di questo bear market

Premessa: anche i bear market del passato hanno avuto delle cause sconosciute alle masse

La crisi del 2007-2009 viene solitamente interpretata come una crisi dei derivati innescata dal crollo del mercato immobiliare.

Tuttavia i prezzi delle abitazioni erano già scesi nel 2006 e in realtà nel 2007 stavano ricominciando a salire.

La tempistica del crollo delle borse di allora punta invece il dito su un’altra causa poco nota.

Il crollo delle borse duro’ infatti da novembre 2007 a marzo 2009, proprio in coincidenza con l’approvazione, da parte del Financial Accounting Standards Board, di una regola contabile poco conosciuta, chiamata FASB 157.

La norma costringeva le banche a sostituire il valore degli immobili a copertura dei derivati, basati su vecchi criteri, con il valore reale di mercato degli stessi immobili.

Il vecchio valore definito dalle banche attraverso una complessa alchimia sui derivati legati agli immobili era molto superiore al controvalore degli immobili reali messi sul mercato.

La nuova norma minacciava quindi di ridurre drasticamente la manipolazione a rialzo che le banche avevano fatto fino a quel momento sul prezzo degli immobili a copertura dei derivati detenuti nei loro bilanci.

Ora, attenzione alle date:

FASB 157 fu approvata nel 2006, ma la sua applicazione inizio’ a novembre 2007 (proprio allo scoppio del crollo di borsa) e venne sospesa a marzo 2009, esattamente il mese in cui i mercati ricominciarono a salire…

Questa storia poco conosciuta ci fa capire che a volte le cause piu’ profonde di un bear market o un crollo dei mercati non sono quelle pubblicate sui media.

Ho fatto questa premessa, perché anche questo bear market ha una causa profonda quasi sconosciuta ai media.

Torniamo al presente: qual è la causa profonda e poco nota del bear market attuale?

Tutti possiamo immaginare che i volumi cosi’ ingenti di vendite che hanno messo al tappeto le quotazioni di quasi tutti gli asset di borsa non sono state fatte certo dal trader del piano di sopra.

Le vendite che davvero contano, quelle in grado di influenzare tutto il mercato, derivano come sempre da banche, fondi di investimento e altre grandi realtà finanziare.

Ma, qual è il motivo concreto che ha spinto queste istituzioni a vendere tutto?

Non è stato solo il timore dell’inflazione o dei rialzi dei tassi…

Come sappiamo, la Fed, inaugurando la sua nuova politica aggressiva per ridurre l’inflazione, ha deciso non solo di alzare i tassi d’interesse, ma anche di ridurre i titoli di stato nel proprio bilancio.

Ed è proprio quest’ultimo aspetto ad aver preoccupato le banche…

Infatti, finora (dal 2008 a oggi) la Fed ha sempre acquistato regolarmente buoni del tesoro statunitensi per sostenere i mercati e l’economia, e la liquidità pagata dalla Fed per questi acquisti è andata sempre a finire nelle banche, ingrossando le loro riserve che detengono presso la stessa Fed.

Oltre a questo, la Fed finora ha pagato alle banche anche gli interessi su queste riserve in eccesso (circa 100 miliardi l’anno).

Quindi, dal 2008 a oggi, cioè da quando è stato istituito questo meccanismo per scongiurare future crisi del tipo Lehman Brothers, le banche si sono abituate a considerare le proprie riserve come una comoda rendita passiva che frutta 100 miliardi l’anno senza far nulla.

Ora pero’, nell’ambito della sua nuova politica aggressiva la Fed, tra i tanti provvedimenti tesi a ridurre l’impatto di oltre un decennio di politiche accomodanti, ha pensato anche di mettere un freno a questo esborso continuo verso le banche.

L’ipotesi era di ridurre i pagamenti degli interessi sulle riserve e di convincere le banche a reinvestire le riserve in eccesso nei pronti contro termine che circolano nel mercato repo.

A tale scopo, la Fed aveva anche pensato di abbassare i tassi repo e di coinvolgere altre entità finanziarie, in modo da aumentare la liquidità e le occasioni di investimento in questo mercato.

Il progetto pero’ ha allarmato troppo, non solo le banche, ma anche gli altri enti finanziari coinvolti nel mercato repo, i quali hanno reagito come qualsiasi investitore quando si sente alle strette, ossia cercando di ottenere piu’ liquidità vendendo un po’ di tutto…

Ecco quindi il vero punto d’innesco del potente bear market che abbiamo visto fino a oggi…

Un bear market che per ora è solo stato “messo in pausa”…

Per il momento, il braccio di ferro tra la Fed e queste grandi entità finanziarie ha avuto una battuta d’arresto, grazie al fatto che gli ultimi dati economici sembrano suggerire che l’economia stia andando nella direzione che porterebbe la Fed a rallentare prima o poi il suo programma di allentamento della liquidità (e quindi anche la riduzione dei titoli di stato nel proprio bilancio e tutta la catena di conseguenze che abbiamo descritto).

Resta il fatto che un accordo tra la Fed e il sistema finanziario americano su questa ipotesi di riforma del mercato repo e delle riserve bancarie non è stato raggiunto.

Quindi finché non vi saranno segnali chiari che la Fed invertirà la sua politica aggressiva e abbandonerà qualsiasi piano di riduzione della liquidità, la maggior parte dei protagonisti della finanza americana non rimetteranno in gioco facilmente la loro liquidità nei mercati.

Questo fatto, per cosi’ dire, farà mancare gran parte del carburante necessario per un nuovo bull market…

Ecco perché, accanto alle considerazioni che abbiamo fatto negli articoli precedenti e sul nostro canale telegram su una ripresa del bull market, é necessario tenere presente che questo importante fattore indebolirà certamente la forza dei trend a rialzo che pure si iniziano a vedere in alcuni settori.

Il criptowinter è tra noi

L’Estonia, il noto paese dove sono registrate molte attività fintech, molte delle quali operanti nel campo cripto, sta capitolando a causa dei nuovi regolamenti decisi dal governo per il rinnovo o la richiesta di nuove licenze.

Tutto sommato, il nuovo quadro legale recentemente approvato dall’Europa per i servizi legati alle cripto (da non confondere con le norme sulla privacy sui clienti di tali servizi, di cui abbiamo parlato in questi giorni) non prevedeva procedure particolarmente diverse da quelle già richieste ai servizi registrati nei paesi europei.

Avevamo percio’ ipotizzato che il rinnovo delle licenze (o la richiesta di nuove licenze) in Europa non avrebbe comportato particolari problemi, dato che si trattava di confermare quanto già ottemperato durante l’ottenimento delle licenze precedenti.

L’Estonia purtroppo, dimostra che avevamo torto…

Jerome Dickinson, consulente legale di OSOM Finance, un’azienda registrata appunto in tale paese, ha descritto in un’intervista a CoinDesk il clima di confusione e paura che regna in questi giorni tra le aziende che devono fare fronte alle nuove richieste del governo per il mantenimento delle licenze.

Dickinson parla di burocrati che ritardano volutamente i tempi di rinnovo, di denunce ingiuste e gratuite fatte ai manager o agli azionisti, di aumento delle tasse di registrazione, superiori a quelle richieste per le licenze bancarie, ma soprattutto della reintroduzione di regole che risalgono ai tempi precedenti all’epoca del boom digitale in Estonia. Regole che segnano la fine dell’innovativo assetto legale di cui l’Estonia si vantava di essere un esempio per l’intera Europa.

Come si puo’ immaginare, i dati piu’ recenti indicano che da marzo non ci sono piu’ nuove richieste di registrazione di aziende fintech in Estonia e che probabilmente il 50% delle aziende esistenti chiuderà.

L’Estonia digitale quindi sta finendo, anzi è già finita, e trascinerà con sé tutto il settore cripto europeo che era stato capace in due anni di attirare gran parte dell’industria legata al trading retail ereditata dalle popolazioni asiatiche.

La stagnazione dei servizi retail europei che avevamo iniziato a vedere dal lato degli utenti (causata cioè dal clima di paura scatenato dagli exchanges fra i loro stessi clienti), ora si estende dal lato dei servizi. Cioè ora sono gli stessi exchanges e altri servizi fintech a subire intimidazioni e minacce di chiusura da parte delle autorità regolatorie.

La rovina estone è solo la prima avvisaglia di una tendenza che si estenderà a tutti i paesi europei che avevano ospitato società legate al mercato cripto.

Ora, facciamo un po’ il punto della situazione…

Già da alcuni mesi avevamo segnalato sulla nostra pagina Telegram il progressivo congelamento del trading spot sugli exchanges evidenziato dalle metriche di Glassnode.

Fino ad ora ci eravamo allineati alle ipotesi di Glassnode, interpretando la fuga di capitali dagli exchanges come una fase ciclica del mercato (la famosa fase di accumulazione, che approfondisce il bear market e prepara i cicli rialzisti successivi).

Ora pero’ mi sembra che si stiano profilando dei veri e propri fattori macroeconomici che consolideranno il congelamento del mercato e trasformeranno questa fase ciclica in un vero e proprio criptowinter.

I fattori macroeconomici di cui parlo, li avevamo già elencati in un articolo precedente:

L’accumulazione istituzionale di cripto in America

L’uscita di scena delle popolazioni asiatiche ormai “zombizzate” e dedite al solo trading sui derivati legati alle cripto

L’appiattimento del mercato retail europeo, che dal 2020 era diventato il motore principale delle dinamiche dei prezzi spot cripto.

La débacle estone segna un peggioramento di quest’ultimo fattore, perché a mio avviso preannuncia la completa stagnazione di questo settore in Europa.

Come detto, questi sono tutti fattori macroeconomici che contano, per il mercato cripto.

E quando ci sono importanti fattori macro in standby, il risultato è solo uno: un nuovo criptowinter.

Chi ha seguito i cicli precedenti delle cripto, sa bene cos’è un criptowinter e in cosa differisce da un semplice bear market.

Il vero criptowinter è quando ti guardi intorno e sembra che non ci sia alcuna speranza di ripresa per il settore…

E non si tratta di una semplice impressione personale, ma di un sentimento che riflette una situazione reale del mercato.

Oggi siamo di nuovo a questo punto.

Ti guardi intorno e sembra non ci siano piu’ ragioni per un possibile incremento dei prezzi.

In America, le cripto stanno diventando un asset riservato alle sole istituzioni (interessate, come detto in un precedente articolo, a ridurre la volatilità e appiattire i prezzi).

L’Europa sta congelando la sua industria retail (annullando il principale fattore dinamico sui prezzi di questo ciclo).

Ogni attività spot in Asia è capitolata sotto lo scacco di regimi dispotici che fanno impallidire quelli nostrani (e quindi le popolazioni di questi luoghi osano tradare ormai coi soli derivati, senza alcuna possibilità di influire sulle basi cicliche del mercato).

Tutto questo vuol dire una sola cosa: il ciclo che abbiamo vissuto dal 2020 a oggi è finito.

Dobbiamo attendere che altri fattori si concretizzino per innescare nuove dinamiche di massa che facciano ritornare gli investitori su questo mercato.

Dobbiamo attendere un nuovo ciclo, che avrà fondamentali diversi da quelli attuali.

Cosa fare quindi in pratica?

Usando per semplicità btc come benchmark di tutto il mercato, osserviamo che proprio ieri questa valuta è già scesa a 33.000 dollari. Da li’ si dovrebbe stare in panchina a guardare fino dove arriverà la discesa.

In un criptowinter i prezzi sono lasciati a se stessi e non c’è piu’ nulla che li sostiene.

Certo, ci potrebbe essere qualche trend a rialzo di breve termine generato sul mercato dei derivati, ma il mio suggerimento è quello di cercare sempre una spiegazione razionale a tali aumenti, consultando sia i nostri aggiornamenti sulle metriche di Glassnode (li pubblichiamo ogni settimana sul canale Telegram), sia le dinamiche sul mercato obbligazionario, di cui abbiamo spiegato l’importanza cruciale su tutti gli altri settori.

Solo quando le metriche di Glassnode e tutti gli altri fattori economici (obbligazioni in primis) che stiamo seguendo indicheranno una inversione di tendenza. Solo allora potremo interpretare i rialzi di breve termine come preludio di un nuovo ciclo rialzista stabile.

Fino a quel momento, suggerirei di iniziare ad accumulare i coin principali ogni volta che assisteremo a qualche discesa vertiginosa e “terrificante” nelle fasce di prezzo di btc inferiori ai 30.000 dollari.

Infatti, se siamo davvero al criptowinter, allora il punto di minimo del ciclo potrà finalmente essere raggiunto.

Per mesi abbiamo cercato invano di capire se il punto al quale eravamo poteva considerarsi un vero punto di minimo storico.

Ebbene, solo oggi, dopo mesi di attesa, inizia a farsi strada la prima, autentica speranza che il punto di minimo verrà raggiunto presto e quindi prima o poi un nuovo ciclo ci sarà; anche se al momento ci sembra del tutto impossibile…(anzi, proprio per questo)…

Finalmente sui bond il mercato ci sta dando ragione…

Ovviamente, dopo tutto quello che abbiamo scritto nei nostri articoli sul mercato dei bond (e soprattutto, dopo l’avviso che giorni fa avevamo inviato agli iscritti della nostra newsletter), il mercato sta facendo esattamente quello che avevamo previsto.

Ma andiamo con ordine…

L’attuale impennata spontanea del rendimento dei titoli di stato USA a 2 anni (cerchio rosso a destra sulla curva blu) sta già anticipando di molto il rialzo dello stesso tasso previsto dalla Fed (la curva nera sotto quella blu):

In altre parole, mentre la Fed annuncia a tamburo battente un giorno si e l’altro pure di voler fare una serie di aumenti dei tassi a breve termine, il mercato obbligazionario questi aumenti li ha già fatti…

Questo fatto dovrebbe ricordarci qualcosa…

Torniamo indietro a due anni fa, quando cioè la Federal Reserve adottava la politica opposta, quella cioè di un enorme allentamento monetario per contrastare gli effetti economici dei lockdown.

In questo articolo del lontano giugno 2020 descrivemmo in dettaglio il modo in cui la Fed riusci’ a portare a termine la fase finale di questo programma, utilizzando il solo potere degli annunci mediatici, senza in realtà fare qualcosa di concreto.

In particolare, all’epoca la Fed annuncio’ ai quattro venti che avrebbe iniziato a comprare senza limiti le obbligazioni delle aziende quotate in borsa, per sostenerne i prezzi sui mercati.

Tuttavia, come si legge nell’articolo, alla Fed basto’ annunciare questo programma di acquisti per ottenere l’effetto desiderato, ossia un aumento dei prezzi delle società quotate.

L’acquisto reale delle obbligazioni da parte della Fed fu infatti trascurabile. Al contrario, il solo annuncio clamoroso di voler fare tali acquisti incoraggio’ tutti i fondi di investimento a fare quello che la Fed fece solo in minima parte.

Fu quindi il mercato a fare spontaneamente tali acquisti, non la Fed…

E oggi, il copione si ripete…

Non è dunque la prima volta che la Fed utilizza sapientemente il potere dei media per influenzare i mercati.

Ricordiamo infatti che finora la Fed ha alzato solo dello 0,25% il tasso a breve termine. Un aumento praticamente irrisorio.

Eppure, come abbiamo visto, anche questa volta, sotto la spinta delle continue dichiarazioni mediatiche di vari rappresentanti della Fed, è il mercato a completare spontaneamente il “lavoro” che la Fed dice di voler fare, portando già ora i tassi a breve proprio al livello al quale tutti si aspettano che arrivino.

E in modo altrettanto spontaneo, il mercato (non la Fed) ha già spinto questo aumento dei tassi al suo limite estremo, come mostra questo grafico:

I cerchi rossi evidenziano qui che, storicamente, i rendimenti come sono ora, ossia a 4 deviazioni standard sopra la loro media moblie a 52 settimane, hanno sempre segnato il picco del trend (da cui inizierà l’inevitabile discesa).

Quest’altro grafico mostra poi che, sempre per effetto spontaneo del mercato, anche i tassi a lungo termine (in particolare, quello a 10 anni) sono arrivati al loro limite superiore (nel nostro caso, a 4 deviazioni standard sopra la loro media moblie a 52 settimane, proprio come i tassi a 2 anni):

Ora, bisogna capire che il mercato obbligazionario non è qualcosa di imprevedibile e lunatico come altri mercati, ma è un meccanismo perfetto da cui dipendono gli equilibri valutari ed economici globali. Quindi funziona come un orologio.

La morale della favola è che, anche se sono ancora possibili episodici e temporanei aumenti ulteriori di questi tassi, siamo arrivati al punto che questo meccanismo perfetto riporterà indietro le lancette dell’orologio, riconducendo i tassi verso il basso e favorendo il ritorno della deflazione e l’uscita di scena dell’inflazione.

Prima ancora che la Fed abbia fatto davvero qualcosa (e forse senza che la banca centrale farà mai qualcosa), l’aumento spontaneo dei tassi creato dal mercato, arrivato già al suo estremo, dovrebbe quindi produrre gli effetti recessivi che ci si aspettava DOPO l’eventuale intervento della Fed, percio’: rallentamento dei consumi, aumenti degli oneri per le aziende che vogliono indebitarsi, ecc.

In altre parole, come abbiamo detto: deflazione, non inflazione…

E anche, ovviamente, risalita dei prezzi delle obbligazioni, che si muovono inversamente ai loro tassi…

Questo dunque ci porta a ribadire la stessa esortazione già fatta nei giorni scorsi: comprate i bond!

Lo so, il bear market obbligazionario oggi sembra inarrestabile. Ed è interessante notare che, proprio come accadrebbe in un mercato ribassista azionario, quando i prezzi degli asset sono a terra nessuno li vuole. Tuttavia è proprio in quel momento che la storia statistica ci suggerisce di acquistarli.

Questa tabella di Bloomberg ci mostra che l’attuale mercato ribassista obbligazionario è uno dei piu’ lunghi e profondi dagli anni ’70 a oggi:

Quest’altro grafico, che abbiamo mostrato altre volte, ci dice che è proprio quando la Fed inizia un “tapering” che i tassi iniziano a scendere (la banda rosa indica i tapering, mentre la curva indica l’andamento dei tassi):

Quindi, non ci sono santi: la discesa dei tassi e la risalita dei prezzi delle obbligazioni sono inevitabili dopo il tapering, ma soprattutto dopo questo tapering, che si svolge nelle condizioni piu’ estreme di mercato mai registrate.

Oggi, come abbiamo visto, i tassi sono già arrivati al punto di svolta nel quale l’orologio impeccabile li riporterà in basso. Non si tratta quindi di prevedere la discesa dei tassi, in quanto il punto di svolta è già qui, sotto gli occhi di tutti.

Che sia il momento di comprare, non di vendere, è scritto nei grafici, non è piu’ solo un’ipotesi. E questo non solo nel mercato obbligazionario, ma anche in quello azionario, che come sempre seguirà con alcuni mesi di ritardo la risalita dei prezzi nell’obbligazionario.

Perché il mercato obbligazionario è il piu’ interessante oggi

Oggi tutte le agenzie di analisi dei mercati cantano in coro la stessa canzone che noi per primi avevamo cantato il 10 gennaio in un articolo alla nostra newsletter. Tuttavia ancora pochi investitori si sono resi conto del valore di questa “canzone”. Quindi vale la pena ricordarla, aggiungendo qualche informazione in piu’ che possa far capire meglio di cosa stiamo parlando.

La “canzone” che molti, da JP Morgan a Goldman Sachs, hanno appena iniziato a cantare ha un semplice ritornello: investite nell’obbligazionario.

Noi già lo avevamo detto il 10 gennaio, spiegandone il motivo:

In pratica, quando la Federal Reserve inizia ad alzare i tassi d’interesse, anche di poco, si produce un rallentamento dell’economia e dei mercati.

Questo rallentamento, dopo un certo tempo, inizia a provocare un abbassamento dei tassi, quindi qualcosa che va al contrario rispetto all’azione della Fed.

A quel punto quindi il prezzo delle obbligazioni, che è inverso ai loro tassi d’interesse, inizia a risalire, facendo ottenere dei guadagni a chi vi aveva investito per tempo.

Questo movimento verso l’alto dei prezzi delle obbligazioni avviene perché il rallentamento economico e la discesa dei mercati provocato dalla Fed costringe gli investitori a rientrare nell’obbligazionario dopo aver abbandonato in massa questo mercato.

E’ sorprendente vedere come anche oggi, a distanza di decenni, gli investitori si comportino esattamente in questo modo, cioè vendendo le obbligazioni nel momento sbagliato, ossia prima del rialzo dei tassi da parte della Fed e ricomprandole poi quando i tassi iniziano a scendere di nuovo.

Eppure, anche senza leggere il nostro articolo un po’ troppo anticipato del 10 gennaio, oggi basta seguire J.P. Morgan, Goldman Sachs o Bloomberg per capire che bisognerebbe fare esattamente il contrario.

Questo grafico di Zerohedge ad esempio riassume le previsioni fatte appunto da J.P. Morgan e Goldman Sachs, secondo cui un abbassamento dei tassi (e quindi un aumento dei prezzi delle obbligazioni) potrebbe avvenire già a fine 2022 (freccia rossa in basso):

Chiunque, vedendo questa previsione, si affretterebbe a comprare già adesso obbligazioni, in modo da posizionarsi nel modo migliore quando i loro prezzi saliranno.

E se proprio si volesse avere delle rassicurazioni in piu’, ci sono ormai tante analisi storiche disponibili che mostrano l’eccezionale prevedibilità di questo movimento inverso dei tassi rispetto ai rialzi della Fed.

Ad esempio, questo grafico della RIA ti mette persino delle aree cerchiate in tutti i punti in cui la Fed ha alzato i tassi, dimostrando che, dagli anni ’90 in poi, tutti questi cerchi rosa si sono rivelati immancabilmente degli ottimi punti d’ingresso (Buy Bonds) per investire nelle obbligazioni:

Niente da fare: a dispetto di tutte le analisi e dissertazioni storiche oggi disponibili molto piu’ che in passato, la massa degli investitori continua a comportarsi come 20 anni fa, come mostrano i grafici che seguono:

Qui sopra vediamo in rosso i capitali in uscita da LQD, il principale Etf che investe nelle obbligazioni corporate “investment grade”, cioè a basso rischio.

Da notare come oggi le barre rosse in basso non siano ancora compensate da barre verdi in alto.

Ci sono solo barre rosse in sequenza, a dimostrazione che nessuno finora si arrischia a comprare a ribasso le quote scaricate da questi investitori che hanno perso la testa in preda al panico.

E’ una sconcertante situazione che interessa tutti i mercati obbligazionari, non solo quelli a basso rischio, come testimonia il grafico sotto:

Qui vediamo i flussi di capital in uscita dalle obbligazioni IG (Investment Grade, che già abbiamo citato sopra), HY (High Yield, cioè quelle ad alto rischio) e EM (dei mercati emergenti).

Come si vede, è tutto il mercato dei bond a essere interessato da una forsennata vendita di quote, nonostante, lo ripeto ancora, i dati storici dimostrino che non c’è alcun motivo per effettuare queste vendite.

Ma poco importa. Alla fine questo comportamento irrazionale non fa che rendere piu’ vantaggioso l’ingresso dei pochi investitori che sanno di avere una buona opportunità per investire e per proteggere il capitale.

Come avevamo detto il 10 gennaio, in Italia e Europa, dove le piattaforme rendono disponibili gli Etf solo per i clienti piu’ ricchi o per i professionisti, acquistare quote di TLT (per investire nelle obbligazioni di stato USA a 20 anni), di LQD (per investire nelle corporate a basso rischio) o di HYG (per investire nelle corporate ad alto rischio) puo’ essere complicato, quindi è utile rivolgersi a dei consulenti o gestori di capitali per trovare i fondi di investimento migliori che possano sostituirsi a questi Etf.

L’unico suggerimento che mi sento di dare è quello di tenere presente che investire in bond è diverso dall’investire nell’azionario.

I bond andrebbero usati piu’ che altro per proteggere un capitale consistente mediante una moderata rivalutazione.

Al contrario, consiglio di usare le azioni per esporre capitali meno consistenti nella prospettiva di avere una rivalutazione maggiore con capitale di rischio minore.

Se si hanno le disponibilità per investire sia in bond che nell’azionario, si potrebbe ad esempio investire il 10%-30% nell’azionario, esponendo invece il restante 70%-90% nei bond, magari diversificando fra bond governativi USA e corporate a basso rischio, dove metteremo una quota di capitale maggiore, e corporate ad alto rischio, dove investiremo di meno.

Un buon consulente sarà in grado di trovare l’alchimia migliore in base al nostro capitale disponibile, al nostro profilo di rischio e alla qualità dei fondi di investimento disponibili per ciascun settore dell’obbligazionario.

Nella versione semplificata (e forse meno rischiosa) di questa strategia, riservata ai pochi eletti che l’Europa ha decretato degni di accedere all’Etf TLT citato in precedenza, basta investire la parte piu’ consistente del nostro capitale in questo strumento, tenendo presente la previsione fatta da RSI in base ai dati storici, indicata nel grafico sotto:

Come si vede, l’analisi prevede che l’Etf, al termine del processo di rivalutazione dei prezzi dei bond governativi innescato dalla Federal Reserve, dovrebbe rivalutarsi dell’11%-12%.

Si tratta di un rendimento adatto a proteggere un capitale consistente, perché ha un profilo di rischio molto basso e allo stesso tempo è in grado di dare, al netto del cambio euro-dollaro e delle spese, una rivalutazione pari o superiore al tasso di inflazione, che nell’area euro dovrebbe stabilizzarsi attorno al 3% in media.

I tre possibili esiti della guerra (per il mercato energetico)

Le guerre sono eventi su cui è impossibile fare previsioni, a meno di non avere la sfera di cristallo.

Tuttavia, dal punto di vista del mercato energetico, si puo’ almeno contare sul fatto che abbiamo non piu’ di tre scenari possibili davanti a noi.

Anche se non sappiamo quale di questi tre scenari si realizzerà, il fatto che ve ne siano solo tre restringe di molto l’imprevedibilità del futuro che ci aspetta, almeno sul piano energetico.

Per ragionare su questi scenari, la premessa da fare è che già molto prima del conflitto Russia/Ucraina, il mercato petrolifero aveva creato le condizioni per un forte squilibrio tra domanda e offerta.

E la sola causa di cio’ è dovuta ai tanti, troppi anni di disinvestimenti in nuovi progetti petroliferi.

Dal momento che quasi tutte le compagnie petrolifere hanno tagliato gli investimenti, sia nell’esplorazione che nella produzione, le forniture di greggio non potranno aumentare, a prescindere da quanto in alto salirà il prezzo del petrolio.

Questo impressionante grafico di Rystad Energy, un’agenzia che monitora il mercato energetico globale, mostra in modo drammatico che gli investimenti globali nell’esplorazione e nella produzione di petrolio e gas hanno raggiunto il picco otto anni fa e da allora sono crollati di circa il 65%:

 

Anche se Rystad prevede che gli investimenti dell’industria petrolifera aumenteranno leggermente quest’ anno, tali sforzi saranno troppo tardivi per avere un impatto sulle forniture a breve termine. Con ogni probabilità, il quadro dell’offerta migliorerà solo dopo molti anni di investimenti crescenti.

Ma il mondo occidentale è pronto a invertire la rotta e abbandonare la narrativa pro-green destinando fondi alla tanto odiata energia fossile?

Potrebbe forse farlo in un’ottica emergenziale, finché ci sarà una guerra a giustificarlo. Ma è probabile che in tempo di pace le pretese dell’industria green inizieranno a pesare di nuovo sul piano politico.

Pertanto, visto che l’offerta di greggio è fuori gioco, l’unico fattore che potrebbe fermare la salita dei prezzi del greggio sarebbe un forte calo della domanda.

Se ad esempio l’aggressione della Russia si espandesse in termini geografici o temporali, causerebbe certamente un freno alle attività economiche e alla possibilità di spostamento di merci e persone nell’area europea, con effetti paragonabili a quelli provocati nel 2020 dai famosi “lockdown”.

E questo sarebbe il modo migliore di “adeguare” la domanda alla scarsità dell’offerta (cioè, in parole povere, di distruggere di nuovo i consumi europei).

Un altro aspetto da considerare per definire i nostri scenari è che i governi occidentali stanno conducendo una guerra economica contro la Russia, senza ancora prendere di mira i suoi asset maggiori, ossia il petrolio e il gas.

Nel 2021, la Russia era il secondo produttore di petrolio al mondo, con i combustibili fossili che costituivano circa il 60% delle sue esportazioni.

Chiaramente, se la devastazione economica russa fosse l’obiettivo dell’Occidente, avrebbe senso colpire petrolio e gas.

Ma farlo sarebbe come versare benzina sul fuoco di un’inflazione che sta già bruciando negli Stati Uniti e, in misura minore, in Europa.

Tenendo conto percio’ di tutte queste contraddittorie informazioni che ho fornito, i tre scenari possibili in cui potremmo ritrovarci nel prossimo futuro sono i seguenti:

Primo scenario: l’Occidente non sanziona il petrolio russo. La Russia percio’ continua a utilizzare i proventi delle vendite di petrolio per finanziare la sua aggressione.

In questo caso, due esiti diversi sono possibili:

1 Il danno economico delle sanzioni attuali riuscirà a convincere Putin ad accettare un cessate il fuoco. In tal caso, i prezzi del petrolio scenderanno, mentre il mondo tirerà un sospiro di sollievo.

2 L’occidente continuerà a soffiare sul fuoco, impedendo qualsiasi risoluzione pacifica del conflitto. A quel punto, Putin, calcolando che una ritirata prima del tempo porterebbe forti danni in termini geopolitici, potrebbe rassegnarsi a sacrificare parti dell’economia russa pur di non perdere il conflitto. In tal caso, i prezzi del petrolio rimarranno ai livelli elevati di oggi.

Secondo scenario: l’occidente decide di cambiare rotta e sopportare il dolore economico di sanzionare il petrolio russo, nel tentativo di mettere completamente in ginocchio lo sforzo bellico di Putin.

Se ciò accadesse, si avrebbe un enorme aumento dell’inflazione nel petrolio e nel gas. Dopo tutto, l’Europa importa circa il 40 per cento del suo gas dalla Russia.

Negli Stati Uniti, la maggior parte delle importazioni di greggio proviene dal Canada. Tuttavia, data la natura globale del mercato petrolifero, un picco dei prezzi in Europa si sentirebbe certamente anche in questa nazione, portando a rallentarne significativamente la crescita economica.

Un rallentamento economico eccessivo potrebbe spingere gli Stati Uniti verso una recessione. A tale proposito, ricordo che la Fed di Atlanta attualmente stima che nel primo trimestre, il PIL vedrà una crescita dello 0%, in calo dallo 0,6% del 25 febbraio.

L’effetto collaterale di questo scenario sarebbe un deciso rallentamento del ritmo con cui la Fed ha deciso di aumentare i tassi, se non addirittura una possibile ripresa del programma di acquisti di titoli da parte di questa banca centrale.

Terzo scenario: inaspettatamente, Putin smette di fornire petrolio all’occidente.

Anche se questa eventualità non sembra probabile, sta di fatto che, se le sanzioni provocassero un danno irreparabile all’economia russa (cosa piuttosto difficile, per fortuna), Putin, messo con le spalle al muro, avrebbe come unica opzione quella di puntare sul tallone d’Achille dell’occidente, cioè la sua dipendenza dal petrolio e dal gas russo.

In tal caso, la recessione non sarebbe limitata all’occidente, ma al mondo intero.

Sarebbe lo scenario peggiore, pari solo a quello di una guerra mondiale.

Ora, ripeto: non sappiamo quali di questi scenari si realizzerà. Tuttavia uno schema del genere ci permette di seguire con maggiore cognizione di causa gli eventi. Nel senso che non appena uno dei tre scenari diventerà realtà, saremo subito in grado di capire gli esiti successivi e potremo agire di conseguenza, nei limiti del possibile.

Volendo tirare le somme: tra le poche cose certe che possiamo dire finora vi sono senz’altro le seguenti:

1 i prezzi del greggio e del gas resteranno alti per alcuni anni (a causa della scarsità di offerta di cui abbiamo parlato all’inizio. Ricorda il terribile grafico piu’ sopra…).

2 L’incertezza su quali dei tre scenari penderà il corso degli eventi comporterà forti attacchi di volatilità, con sensibili discese temporanee del prezzo dei combustibili.

3 Negli esiti recessivi peggiori che abbiamo ipotizzato, l’esigenza di contenere i consumi delle persone (quindi di influire sui prezzi petroliferi dal lato della domanda), potrebbe portare i governi ad inventarsi forme sempre piu’ efficienti di controllo sui propri cittadini, se non a provocare addirittura nuove guerre regionali, possibilmente vicino alle zone dove vanno limitati i consumi, cioè nell’area europea.

Guerra, inflazione e mercati: un mix esplosivo?

La guerra in Ucraina porterà un cambiamento drastico alle prospettive di inflazione.

Il modo in cui oggi pensiamo di affrontare l’inflazione con piu’ o meno drastici tagli alla liquidità operati dalle banche centrali, sta per diventare obsoleto.

Come mai?

Il fatto è che fin dagli anni ’70 il mondo finanziario ha capito che l’inflazione generata da shock energetici esterni al sistema economico è impossibile da controllare con le normali misure monetarie delle banche centrali.

Dopo lo storico embargo del petrolio che l’OPEC opero’ nel 1970, l’inflazione inizio’ a scendere sotto il 5% solo 10 anni dopo, nel 1981.

Nessuna manovra monetaria riusci’ a cambiare questa onda lunga inflattiva e non vi riuscirebbe nemmeno oggi.

Anche oggi dunque l’inflazione, passata da fenomeno residuale dovuto alla pandemia a condizione fondamentale creata da fattori non economici, inizierà ad uscire sempre piu’ fuori dalla “giurisdizione” della banca centrale americana.

Del resto, il mandato della Fed è quello di stabilizzare il dollaro, favorire la crescita economica e l’occupazione, NON di modificare i trend delle materie prime.

Questo vuol dire che, una volta che la Fed avrà ridimensionato, come promesso, la liquidità in eccesso creata durante la pandemia, NON prolungherà il “tightening” con l’idea di tentare un impossibile calmiere agli aumenti dei prezzi delle materie prime e del petrolio innescati dalla guerra.

Al contrario, questa guerra potrebbe persino rivelarsi il pretesto che la Fed cercava per operare un rialzo dei tassi molto piu’ blando del previsto.

In questo articolo avevamo spiegato come anche un lieve aumento dei tassi fosse un macigno per il budget dello stato.

Per questo abbiamo sempre ipotizzato che alla prova dei fatti la banca centrale avrebbe deluso le aspettative dei media su cinque, sei, sette …infiniti rialzi dei tassi per il 2022.

Lo scoppio di questa guerra potrebbe essere la premessia giusta per questo scenario non previsto dai media, in quanto:

  • l’inflazione diventerebbe ufficialmente un fenomeno fuori dalla portata della Fed, scaricando quest’ultima dalle sue responsabilità.
  • Una eventuale recessione provocata dalla guerra, darebbe il pretesto alla Fed per rinunciare al “tightening” o per ridurlo al minimo.
  • Ma anche una crescita economica spingerebbe la Fed a non portare il tightening” oltre i livelli di guardia per raggiungere un traguardo (l’abbattimento dell’inflazione) che la guerra ha reso impossibile.

Quale prospettive vi sarebbbero per i mercati se ci aspetta un decennio di inflazione?

Se la pademia non avesse già ridotto al minimo la capacità di reazione delle economie globali, ci saremmo dovuti aspettare una reazione positiva dovuta alla prevedibile crescita economica che sempre segue alle guerre.

In passato, l’inflazione veniva resa accettabile provocando fenomeni di ripresa economica che rendevano possibile attribuire maggior valore a degli asset rifugio.

Per dirla praticamente: negli anni ’80 c’era, è vero, quell’inflazione galoppante, ma il sistema economico poteva permettersi di attribuire tassi d’interesse enormemente alti al settore obbligazionario (i meno giovani fra i lettori ricorderanno i favolosi interessi delle obbligazioni di quel tempo).

Oggi invece, con la globalizzazione ridotta ai minimi termini e la crisi delle capacità delle banche centrali di provocare riprese economiche, per quanto solo nominali, potremmo ritrovarci in un decennio di inflazione abbinato a una scarsa capacità di creazione di valore negli asset rifugio tradizionali.

In ben due articoli alla nostra newsletter gratuita abbiamo spiegato come il mercato obbligazionario è pronto per una stagione di discesa dei tassi, non di una risalita. Quindi al massimo è possibile utilizzare questi asset per sfruttarne l’aumento di prezzo a lungo termine, non per ottenere delle “rendite” garantite come si faceva negli anni ’80.

Oggi gli investitori sono “condannati” a contare sul “rischio”, non sulla “rendita”.

Ecco quindi che le obbligazioni diventano del tutto simili alle cripto e ai titoli azionari ad alta crescita, nel senso che si investe su questi asset sperando che riescano a creare valore piu’ velocemente dell’inflazione, non perché ti diano delle “rendite garantite”…

Ma anche nel cercare valore sulla crescita di certi settori, i rischi sono tanti.

Se ad esempio la Cina volesse imitare la Russia invadendo Taiwan, raggiungerebbe il duplice scopo di porre fine a un contenzioso geopolitico secolare e distruggere per almeno una decade le capacità produttive dell’high tech dei paesi occidentali (Taiwan, come si sa, è la patria dei microchip e ci vogliono almeno dieci anni per ricostruire la produzione di questi componenti in occidente).

Le economie di oriente e occidente sono sempre meno interconnesse; e questo rende sempre meno rischioso per i paesi orientali fare mosse unilaterali che tre anni fa sarebbero state ritenute autolesioniste, ma che oggi sono solo un altro colpo a una situazione già irrimediabilmente compromessa.

Non voglio percio’ indorare la pillola: siamo a una svolta storica imprevedibile, dove tutto puo’ succedere.

Ci vorrà tempo per iniziare a individuare dei trend ben definiti su cui investire.

E se l’aumento dei tassi USA fosse solo una favola?

Per comprendere la portata di un eventuale aumento, anche minimo, dei tassi d’interesse in America e per capire quanto questa possibilità sia abbastanza assurda nelle condizioni attuali del budget federale, basta fare dei semplici calcoli.

Attualmente il governo federale, per ripagare gli interessi sui titoli di stato emessi, spende una cifra pari a 345 miliardi, che rappresenta il 5,3% della spesa pubblica totale.

Puo’ sembrare una parte insignificante del budget nazionale, ma in realtà essa è più di quattro volte quello che il governo spende per l’edilizia pubblica e per l’istruzione primaria e secondaria e otto volte quello che spende per la ricerca, lo spazio e la tecnologia.

In tale scenario, cosa succederebbe se vi fosse un aumento di appena l’1% dei tassi d’interesse, ossia l’incremento che, secondo il FOMC, dovrebbe effettivamente avere luogo l’anno prossimo?

In quel caso, la spesa per gli interessi sul debito del governo federale salirebbe da 345 a 530 miliardi, arrivando cosi’ a una cifra che, tanto per fare un esempio, è superiore ai costi del ben noto programma di sanità pubblica Medicaid.

E un aumento di due punti percentuali, che secondo alcuni avrebbe luogo entro il 2023, che effetto avrebbe?

La spesa per interessi arriverebbe a 750 miliardi di dollari, ossia quasi tutto cio’ che il governo spende per la difesa…

Le previsioni del FOMC sull’aumento dei tassi non si spingono mai oltre questa soglia del 2%. Ti sei mai chiesto perché?

Il motivo è che un aumento del 3%, quindi di appena un punto percentuale oltre questo livello di guardia, sarebbe sufficiente a spingere la gestione del budget federale nel baratro.

In tal caso infatti il governo arriverebbe a spendere solo per gli interessi quasi 1 trilione di dollari, cioè circa il 20% del totale delle entrate fiscali federali, pari al budget speso ogni anno per le pensioni e la sanità.

A questo punto, potresti dire: che cosa importano questi paragoni con la spesa pubblica, visto che nel sistema finanziario moderno i governi possono stampare tutti i soldi che vogliono?

Certo, la Federal Reserve potrebbe, in teoria, stampare tanti dollari quanti ne ha bisogno il governo per pagare gli interessi. Ma in tal caso non farebbe che peggiorare l’inflazione, ossia proprio il fattore che la sta costringendo ad aumentare i tassi…

In sostanza, l’aumento dei tassi incrementerebbe la spesa pubblica, costringendo il governo a emettere piu’ debito, il quale a sua volta costringerebbe ad ulteriori aumenti dei tassi, in un circolo vizioso senza fine…

In tal caso, diresti tu, visto che non si puo’ aumentare la spesa pubblica, perché non si attua una politica di riduzione di questa spesa, in modo da avere piu’ spazio per ulteriori aumenti dei tassi?

Da questo punto di vista, pero’, non c’è molto margine di manovra, anzitutto perché gli USA hanno un governo democratico, basato cioè proprio sui principi di aumento della spesa pubblica; in secondo luogo, perché l’80% delle voci di spesa del bilancio federale ricade nella categoria delle “spese obbligatorie” (difesa, spesa sociale e tantissime altre.), mentre solo il 20% rappresenta le attività che possono essere ridotte senza mettere in pericolo la stabilità e la sicurezza nazionale.

Anche se per assurdo si potesse eliminare totalmente questo 20% di spesa, cio’ non basterebbe ad ammortizzare l’aumento della spesa per interessi derivante da un aumento dei tassi che raggiungesse la soglia pericolosa del 3%.

Restando sul versante della spesa pubblica poi, bisogna anche notare che già ora il governo non ce la fa a sostenere tutti i suoi obblighi con il budget attuale. Tant’è che all’inizio di questa settimana il Congresso ha dovuto innalzare a 2,5 trilioni il limite del debito complessivo emesso dal governo federale.

Ciò vuol dire che già ora il governo, per poter pagare la previdenza sociale e tutti gli altri obblighi… compreso gli interessi sul debito, ha dovuto aumentare l’emissione di tale debito…

A quanto si dovrebbe portare il limite di emissioni del debito, se si attuasse davvero il programma di aumento dei tassi proposto due giorni fa dalla Fed?

In sostanza, il circolo vizioso a cui accennavo prima (l’aumento dei tassi, che porta all’incremento della spesa per interessi, che porta all’aumento dell’emissione del debito, che porta all’inflazione, che porta all’aumento dei tassi) è già qui tra noi…

Una serie di incrementi degli attuali tassi d’interesse non farebbe che rendere ancora piu’ difficili gli sforzi del Congresso (e la litigiosità dei suoi due schieramenti sul tetto del debito) per rinegoziare ogni volta nuove soglie di debito sempre piu’ onerose.

Tutto questo dunque ci porta alla inevitabile domanda…ma i tassi di interesse aumenteranno davvero?

Il FOMC dice di volerlo… e i mercati, a quanto pare, lo considerano un passo inevitabile. Ma se il bilancio federale fatica già ora a gestire i tassi di interesse attuali…di cosa stiamo parlando?

Le distorsioni dei media sulla crisi dei microchips e i blocchi dei porti

Sappiamo che in questo periodo serpeggia un po’ in tutti gli ambiti la tendenza a guardare le cose in modo negativo.

In questo articolo vorrei percio’ contribuire ad alleggerire il carico di negatività che siamo costretti a sopportare ogni giorno, dando un esempio di come il mondo in realtà sia sempre una combinazione di fattori positi e negativi, nonostante i media troppo spesso ci diano una versione a una sola dimensione (negativa) delle cose.

Parliamo dunque di due situazioni tipiche di questa narrativa pessimistica dei media che operano nell’ambito di nostro interesse, cioè la finanza e gli investimenti, ossia i blocchi nei porti e la crisi dei semiconduttori (microchips).

I “colli di bottiglia” nei porti.

Per tutto il 2021, mentre i porti riprendevano gradualmente la loro attività, la carenza di manodopera nei trasporti ha causato dei colli di bottiglia epici nella catena di eventi che porta le merci dalle navi sulla terraferma e poi nei normali canali di distribuzione.

Quando questi colli di bottiglia sono apparsi nei vari paesi, ogni volta ne è stata data la colpa a fattori che in realtà non c’entravano nulla (ad esempio, per la Gran Bretagna è stata addirittura chiamata in causa la Brexit).

A voler dare credito ai media quindi, come per magia, in ogni paese, per cause del tutto diverse, avrebbe iniziato a presentarsi un problema identico; mentre la logica vorrebbe che, se il problema è identico dappertutto, forse la causa che lo fa nascere è una sola

E infatti, una sola causa c’è, ed è determinata dalle complicate procedure imposte dalle norme anti covid in tutti i porti del mondo.

A causa di questi regolamenti spesso bizzarri o irrazionali, possono volerci ore, a volte un’intera giornata, per entrare in un porto, prelevare un container e uscire dal porto.

Per capire come fa a questo punto un collo di bottiglia a trasformarsi in una crisi, bisogna ricordarsi che, un po’ in tutto il mondo, la maggioranza dei camionisti portuali lavora in proprio e quindi guadagna in proporzione a quanti containers si riescono a caricare.

Per questo motivo, molti di questi piccoli imprenditori non possono permettersi di stare seduti tutto il giorno solo per prendere un solo container a fine serata.

Il protrarsi di questa situazione ha portato alcuni conducenti di camion a decidere addirittura di pensionarsi in anticipo, mentre altri hanno preferito dedicarsi al trasporto regionale, dove è possibile utilizzare il tempo in modo piu’ efficiente.

Ma il quadro non sarebbe completo se non aggiungessimo l’altro elemento decisivo

Dall’altra parte della barricata infatti, le compagnie di navigazione e i porti, grazie a questi stessi ritardi, stanno facendo soldi a palate.

Il motivo è che, più a lungo i container vengono stoccati nei porti, più il porto può addebitare le spese di stoccaggio ai proprietari.

Quindi, al contrario di quanto avviene per i camionisti, il persistere di questa situazione è una incredibile fonte di guadagni per gli operatori portuali.

Questo problema relativo alla catena di approvvigionamento portuale è nato un po’ dappertutto, come dicevo, perché i porti e i camionisti sono uguali in tutto il mondo, lavorano allo stesso modo e hanno le stesse esigenze.

Per fortuna, nella maggior parte dei paesi, i colli di bottiglia si stanno risolvendo (come abbiamo accennato qui), mentre il problema resta tuttora endemico solo negli Stati Uniti.

I consumi degli Stati Uniti tuttavia influenzano l’andamento delle borse. Per questo i colli di bottiglia resteranno ancora all’ordine del giorno nei media, almeno finché anche l’America non riuscirà a risolverli.

Nei media pero’, come dicevo, c’è questa abitudine di mettere tutto sotto una luce negativa (le cattive notizie, si sa, vendono meglio di quelle buone), per cui questa crisi della catena di approvvigionamento negli Stati Uniti viene spesso messa nello stesso calderone con l’altra crisi assurta al rango di tormentone dei media, ossia quella dovuta alle carenze di semiconduttori.

In realtà, la natura di questi due problemi è completamente opposta.

Il problema dei colli di bottiglia dei porti è un tipico prodotto della imbecillità dei governi locali di fronte al Covid, della corruzione delle autorità portuali e della incapacità di prendere in mano la situazione, mettersi davanti a un tavolo e risolverla.

È dunque un problema legato al declino di un sistema che non sa rinnovarsi e arranca di fronte alle difficoltà.

Il problema dei semiconduttori al contrario è il riflesso di una crescita imprevista che ha lasciato indietro tutto il resto. Quindi in realtà è un fenomeno positivo.

La crisi dei microchips

La forte domanda economica per l’ultima generazione di prodotti di elettronica e di veicoli elettrici ha colto di sorpresa gli imprenditori, che fanno ancora fatica a stare al passo con le richieste, ma al tempo stesso baciano la terra sotto i piedi per la felicità di avere questo “problema”…

Se avessimo un “problema” del genere anche in altri settori produttivi, il mondo sarebbe senza dubbio destinato a un futuro di progresso e benessere!

Tant’è che, anche se le difficoltà dovute a questo “shock tecnologico” persisteranno l’anno prossimo e in alcuni casi fino al 2023, gli effetti positivi di questa “crisi di crescita” già si vedono.

Negli Stati Uniti è appena partita la corsa alla creazione di nuovi impianti di produzione di semiconduttori per garantire una maggiore aderenza dell’offerta alla domanda.

Siamo all’inizio di quello che alcuni definiscono un “rinascimento manifatturiero americano”, che fa parte di una tendenza globale molto più ampia orientata al decentramento della produzione.

Quest’ultima non è che l’esatto contrario della globalizzazione, e in questa fase storica serve a rinnovare il vecchio sistema produttivo ormai insostenibile, basato sulla rigida divisione tra paesi produttori (asiatici) e paesi consumatori (occidentali).

Ecco perché è iniziata questa nuova piccola “rivoluzione industriale” a due secoli di distanza da quella che da ragazzi abbiamo appreso sui libri di storia.

Gli effetti a lungo termine di questa tendenza positiva sono ancora difficili da calcolare, anche perché gli esperti e gli analisti farebbero fatica a trovare spazio sui media per pubblicare stime del genere, contrarie all’aura di “negatività obbligatoria” del nostro tempo, quindi rinunciano in partenza.

Ma la realtà ha questo difetto di continuare a essere “reale” anche se non lo vogliamo. Quindi dobbiamo aspettarci che prima o poi l’ondata di rinnovamento in questo settore sarà talmente evidente che nessuno potrà piu’ fingere che non esiste.

Nel frattempo, facciamoci ogni tanto una passeggiata nella natura, se possibile, e cerchiamo di abituarci a guardare le cose in modo piu’ lieve…

 

L’ultimo discorso della Fed (e la reazione delle borse) spiegato in parole semplici

Mercoledì, la Fed ha annunciato ufficialmente la fine del suo programma di acquisto di asset da 120 miliardi di dollari al mese che era in vigore da giugno 2020.

Il tapering inizierà riducendo gli acquisti di soli $ 15 miliardi al mese, un’opzione meno aggressiva di quella che i trader temevano, ossia quella di $ 30 miliardi al mese.

Il motivo di questa scelta “morbida” è a mio avviso di grande buon senso. La Fed infatti ritiene che il rischio di rallentare l’economia adottando un tapering troppo rapido sia maggiore del rischio che l’inflazione continui a salire nel 2022.

Anche chi ritiene che l’inflazione non sia così transitoria (o per niente transitoria), deve ammettere che un amministratore prudente non avrebbe avuto altra scelta se non prendere la stessa decisone.

Il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, ha poi sottolineato che la fine del programma di acquisto di obbligazioni non segna l’inizio di un nuovo ciclo di rialzo dei tassi.

Il successo di questo programma dipende quindi tutto dalle probabilità che l’inflazione inizi a diminuire il prossimo anno.

Se infatti l’inflazione al contrario continuerà a salire, la Fed dovrà invertire il proprio piano e iniziare a far salire i tassi di interesse molto rapidamente per arginare una spirale inflazionistica.

Questa eventualità farebbe inevitabilmente scendere le borse, se non altro per una questione di semplice matematica.

Infatti, per supportare un determinato prezzo delle azioni in borsa, una società deve mantenere un certo livello di guadagni. E tale livello aumenta all’aumentare dei tassi di interesse.

Di conseguenza, valori di P/E (prezzo di un’azione rispetto agli utili prodotti dall’azienda) che sembrano ragionevoli in un mondo a tasso zero diventano impraticabili quando i tassi aumentano.

Ma la reazione positiva delle borse dopo la conferenza stampa rivela che questa eventualità oggi sembra piu’ remota.

Essenzialmente per due “buone notizie” ricevute dai media.

La prima buona notizia per le borse: l’allentamento dei “colli di bottiglia”

Una delle cause principali dell’inflazione “transitoria”, ossia i blocchi nell’approvvigionamento delle merci, sta mostrando segni di indebolimento.

Questa settimana, l’amministratore delegato della più grande società di logistica delle spedizioni, GXO Logistics, ha affermato che potremmo aver già raggiunto il “picco” di questo problema.

I costi di trasporto stanno diminuendo; il che indica che i “colli di bottiglia” dei porti e degli aereoporti si stanno allentando. A dimostrazione di cio’, il tasso di riferimento del WCI Composite Freight Benchmark mostra che il costo di un container da 40 piedi è sceso di circa il 9,5%, mentre il Baltic Dry Index, un punto di riferimento per il costo della spedizione di materie prime via mare, è sceso di quasi il 40% dall’inizio di ottobre.

La seconda buona notizia per le borse: le pubblicazioni degli utili

Un altro fattore che sta incoraggiando le borse è l’eccezionale performance nei bilanci dell’ultimo trimestre pubblicati dalle società quotate in borsa.

Infatti, tornando al discorso del rapporto P/E rispetto all’inflazione, nell’eventualità di una inflazione non piu’ transitoria, se il denominatore “E” (ossia, gli utili di un’azienda) riuscisse a salire piu’ in fretta dell’inflazione (o meglio, piu’ in fretta del rialzo dei tassi eventualmente adottato dalla Fed di fronte a un’inflazione non piu’ transitoria), allora il numeratore “P” (il prezzo delle azioni in borsa) non sarebbe costretto a scendere per riequilibrare il risultato finale del rapporto.

Di conseguenza, aziende con utili strepitosi non dovrebbero temere l’inflazione e il rialzo dei tassi.

Ora, sta di fatto che gli utili presentati finora dalle società quotate in borsa fanno sperare proprio in una possibilità del genere.

Lo dicono i numeri…

Per il terzo trimestre del 2021 (con il 56% delle società S&P 500 che hanno riportato risultati effettivi), l’82% delle società dello S&P 500 ha riportato una sorpresa positiva per l’EPS e il 75% delle società dello S&P 500 ha riportato una sorpresa positiva per i ricavi.

Il tasso di crescita degli utili combinati per l’S&P 500 è del 36,6%. Se questa percentuale rimarrà grosso modo invariata dopo che tutte le società avranno pubblicato i bilanci, essa segnerà il terzo più alto tasso di crescita degli utili dal 2010.

E se qualche complottista dirà che questi numeri sembrano cosi’ positivi solo perché l’anno precedente gli utili sono stati prossimi allo zero, ditegli che se confrontiamo gli utili di quest’anno con il 2019 (saltando quindi i numeri senza senso nel 2020), il tasso di crescita degli utili composto per tutte le società è ancora del 16,4% all’anno; il che è un risultato eccezionale, perché non vedevamo tassi di crescita del genere dal 2012

Riassumendo quindi, da una parte le cause dell’inflazione “temporanea” sembrano in ritirata, dall’altra, gli utili eccezionali di quest’anno sarebbero in grado di fare fronte anche a un eventuale rialzo dei tassi deciso dalla Fed a fronte di un’inflazione non piu’ temporanea.

Da qualunque parte la si guardi, dunque, la situazione per ora è molto favorevole ai mercati. Per questo le borse non faranno che salire, almeno fino alla fine dell’anno.

Naturalmente è sempre prudente avere una visione a breve-medio termine su queste questioni.

L’inflazione temporanea o la pubblicazione dei bilanci sono solo una parte dei fattori che influenzano l’economia e quindi le borse.

Godiamoci quindi gli eventuali rendimenti di fine anno e manteniamo una condotta prudente per l’anno successivo.

Il mondo della post pandemia. Parte Prima

Questo articolo è, come sempre, di natura economica. Tuttavia la complessità dell’argomento non puo’ impedirci di fare delle premesse di analisi politica, imprescindibili per capire gli sviluppi economici che vorremmo descrivere.

Il 22 settembre scorso Biden ha tenuto un summit internazionale (virtuale) contro il Covid 19 a margine della 76 esima Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Il summit doveva destinare aiuti ai paesi non occidentali che non possono affrontare la spesa di acquisto delle dosi necessarie per le loro campagne vaccinali.

Tuttavia, per la prima volta nella storia, un summit organizzato dagli USA è stato disertato dai paesi beneficiari.

A fronte di almeno un centinaio di stati che avrebbero dovuto partecipare, erano infatti presenti solo i paesi occidentali alleati degli USA e alcune organizzazioni internazionali

La sfiducia nei confronti degli USA deriva dal fatto che Washington, nel precedente programma di aiuti, non aveva mantenuto la promessa di distribuire a livello globale 160 milioni di dosi di vaccino. Non si comprende quindi come sarebbe stata mantenuta la promessa legata a questo summit, cioè di distribuire 500 milioni di dosi, ora che i prezzi dei vaccini sono anche aumentati.

L’impostazione americana della lotta al Covid 19, basata esclusivamente sui vaccini, sta perdendo vigore non solo presso i paesi non occidentali, ma anche nei salotti buoni delle élites mondiali.

L’impostazione americana ricalca quella di Bill Gates, che contrariamente a quanto si crede è un outsider rispetto alla “armoniosa” compagine delle aziende iscritte al World Economic Forum.

Sia Gates che Biden vorrebbero estendere anche ai paesi non occidentali i programmi di vendita in massa dei vaccini anti covid.

Tuttavia questo obiettivo si scontra sia con le evidenti carenze di mezzi che abbiamo citato a proposito della mancata “promessa” americana di distribuzione di vaccini ai paesi terzi, sia con l’opposizione di Cina e Russia, che considerano una ingerenza questa pretesa di “curare” in massa il mondo intero.

La Cina è un attore imprescindibile per il WEF, come dimostrano le lodi sperticate che Klaus Schwab ha dedicato a questa nazione in occasione del cinquantennale del suo ingresso nelle Nazioni Unite.

Ecco perché il Grande Reset, nella sua accezione piu’ “pura”, è definitivamente multilaterale ed equidistante nel conflitto tra USA e Cina.

Di conseguenza, come dicevamo prima, il “totalitarismo” vaccinale del duo Biden-Gates inizia a non trovare piu’ molti sostenitori a livello globale.

Tutto sembra aver avuto inizio il 15 settembre, quando il World Economic Forum (il laboratorio di progetti e idee del “Grande Reset”) pubblica un articolo dal titolo emblematico: “Quando finirà la pandemia Covid19?”.

In questo articolo per la prima volta si prospettano le linee guida per un ritorno alla normalità post pandemia.

Secondo il WEF, i vaccini, a causa delle varianti virali, non riusciranno mai a creare una “immunità di gregge”. Per tale ragione non ha senso continuare a tamburo battente sui programmi vaccinali, ma al contrario si dovrà adottare il “modello inglese”, che prevede di declassare il Covid 19 a virus endemico da trattare con le stesse strategie usate contro l’influenza (quindi abolendo le restrizioni economiche e civili e usando i vaccini con periodicità annuale-semestrale).

Leggendola fra le righe, questa soluzione in buona sostanza afferma che in occidente c’è ormai una copertura vaccinale sufficiente ad assicurare alle case farmaceutiche i profitti a lungo termine che deriveranno dal coinvolgere la parte di popolazione “favorevole” ai richiami periodici annuali.

Al contrario, prolungare le costose e politicamente impegnative campagne su vasta scala nel tentativo di vaccinare anche il resto della popolazione refrattaria, non produrrà profitti sufficienti a coprire eventuali rischi imprevedibili di natura politica o economica.

Molto istruttivo a questo punto è osservare come i paesi occidentali, gli unici al mondo ad aver adottato piani vaccinali su larga scala, stanno rispondendo a questa importante parola d’ordine.

È evidente infatti che non tutti si stanno allineando alle nuove linee guida del WEF.

A grandi linee, possiamo notare due categorie di paesi:

1. Da una parte, quelli che, come UK, Danimarca, Norvegia, Svezia, Spagna e alcuni paesi dell’est Europa non avranno problemi a seguire queste linee guida, in quanto l’abolizione delle restrizioni civili ed economiche non comporta un pericolo per la loro stabilità politica.

2. Dall’altra, quelli per cui al contrario è difficile un ritorno alla normalità secondo le linee guida del Grande Reset, per una delle seguenti ragioni, o entrambe:

  • Il ritorno alla normalità comporta un rischio di “resa dei conti” sociale, politica o giudiziaria per i governi in carica, oppure
  • Il ritorno alla normalità comporta la rescissione di alleanze politiche internazionali o contratti economici privati che avevano come clausola vincolante proprio l’adozione di campagne vaccinali su vasta scala.

Alcuni stati appartenenti a questa categoria hanno messo in standby i loro programmi di lotta al Covid, in attesa di trovare una via di uscita il piu’ possibile priva di conseguenze per la classe politica coinvolta (in Germania, ad esempio, le elezioni non potevano tenersi nel momento piu’ opportuno).

Altri invece, come Italia, Slovenia e Australia, stanno adottando la strategia opposta: irrigidire ulteriormente le restrizioni economiche e civili nella folle speranza di instaurare un regime autoritario che possa garantire alla classe politica una impunità a vita.

Quali sono le conseguenze economiche di tutto questo?

La sospensione delle campagne vaccinali su vasta scala e il ritorno alla pace civile sono le condizioni necessarie per passare ai piani successivi, post pandemici, del Grande Reset, che sono, ad esempio:

  • Digitalizzazione delle identità e delle principali funzioni sociali, incluso l’uso della moneta.
  • Abolizione del diritto al lavoro.
  • Sostituzione della figura del “consumatore” con quella del “fruitore di prodotti e servizi”
  • Sottomissione di aziende e multinazionali a obiettivi politici sovraordinati
  • Imposizione di tassazioni sovranazionali

E cosi via…

Tralasciando gli obiettivi politici di queste misure, il loro scopo economico è quello di preparare i paesi occidentali ad affrontare l’inflazione, la recessione economica e la perdita di potere d’acquisto delle valute, causate dai lockdown globali del 2020.

Quando tutti i passaggi del Grande Reset verranno completati, i paesi che piu’ velocemente vi si saranno conformati potranno continuare la loro marcia verso l’indebitamento senza subire troppo i contraccolpi di questi “effetti avversi” dei primi lockdown.

Infatti tali paesi potranno velocemente rimodulare i consumi e la capacità di produzione al variare delle condizioni economiche esterne.

Al contrario, i paesi indebitati che non avranno adottato i passaggi elencati sopra, non potranno variare velocemente i loro fondamentali economici e quindi si troveranno piu’ esposti ai venti esterni.

È ovvio quindi che in futuro le differenze di adozione dei pani del Grande Reset si tradurranno in profonde differenze economiche tra i paesi.

Particolarmente preoccupante è il destino dei paesi che avranno scelto la deriva autoritaria, che spesso non permette l’adozione di profonde modifiche socio-economiche, ma solo aggiustamenti di facciata.

Italia e Australia sono consapevoli della loro importanza per gli equilibri geopolitici. Per questo possono permettersi di aggirare le norme del Grande Reset ed eventualmente mantenere arretrate le loro economie.

Questa scelta tuttavia le spinge a stabilire alleanze sempre piu’ vincolanti con i paesi “forti”.

Inoltre le impostazioni autoritarie, una volta instaurate, obbligano necessariamente a una escalation delle restrizioni e delle imposizioni. Nessuna deriva autoritaria è mai “tornata indietro” alla tolleranza e alla democrazia, ma si è sempre conclusa per l’esaurimento dell’efficacia dei mezzi coercitivi utilizzati.

In sostanza, a un certo punto lo stato finisce per esercitare un controllo cosi’ totale da autodistruggersi.

Come abbiamo detto in articoli precedenti, gli architetti del Grande Reset non hanno il potere di superare i conflitti internazionali e le differenze tra un paese e l’altro. Pertanto le loro indicazioni generali saranno adottate in modo diverso nei vari stati.

All’inizio della pandemia e agli albori delle prime applicazioni pratiche dei piani del World Economic Forum avevamo ipotizzato queste inevitabili differenze tra i paesi, che ora, alla vigilia di un importante punto di svolta, cioè la cosiddetta “fine della pandemia”, inizieranno ad essere sempre piu’ vistose.

Quello che è certamente piu’ allarmante, non solo in termini economici, è che il Grande Reset è un piano in cui ogni passaggio ha effetti esponenziali sui passaggi successivi. Percio’, i paesi che “saltano” un passaggio difficilmente potranno tornare indietro e riprendere il percorso come nel gioco dell’oca.

Col tempo quindi, assisteremo a un irrigidimento delle differenze politiche, sociali ed economiche tra paesi che avranno “interpretato” in modo diverso il piano del Reset. E questo porterà all’effetto opposto rispetto agli ideali del Reset.

Andremo verso una maggiore conflittualità tra paesi, governi e istituzioni, non certo alla sperata pace universale.

Perché torniamo a correggere le nostre idee sull’inflazione

Nel lontano marzo 2020 siamo stati fra i primi a dire che nel lungo termine il covid avrebbe portato inflazione (mentre tutti si concentravano sulla deflazione in atto).

Il passato: dalla deflazione all’inflazione

Dopo aver fatto decine di articoli di aggiornamento su questo blog e sulla nostra newsletter gratuita, finalmente abbiamo iniziato a vedere i media e Wall Street che ne iniziavano a parlare, facendola pero’ ben presto diventare una vera e propria ossessione che a partire da questa primavera sta influenzando in modo irrazionale i mercati.

Nel frattempo, abbiamo iniziato a ridefinire sempre meglio l’idea di inflazione, tentando di far capire ai nostri lettori quanto sia semplicistico il modo in cui ne parlano i media.

La semplificazione piu’ pericolosa di tutte, perché parte da presupposti completamente superati, è quella che mette in relazione in modo deterministico l’inflazione (intesa come aumento dei prezzi), la ripresa economica e le decisioni della Federal Reserve su un possibile “tapering”, cioè un rallentamento o una interruzione delle misure di allentamento monetario (sospensione dei riacquisti di bond governativi e poi aumento dei tassi d’interesse).

Anche in questo caso abbiamo dovuto sgombrare il campo da molti errori (ad esempio qui, ma soprattutto qui). E lo abbiamo fatto proprio nel momento in cui i tassi d’interesse dei titoli di stato USA sembravano darci torto, iniziando un preoccupante aumento che tutti pensavano sarebbe stato il nuovo “normale” per gli anni a venire.

Il presente: un’inflazione che non tocca i tassi d’interesse e le politiche monetarie

Alla fine, pero’, la Federal Reserve ci ha gentilmente dato ragione, iniziando a riprendere il controllo dei tassi fino a farli scendere ai livelli attuali, ben sotto la soglia di guardia che tanto aveva allarmato Wall Street e i media.

Ma l’argomento “inflazione” non accenna a scomparire dai radar dei media. E ci vorrebbero decine di articoli come questo per coprire tutti gli aspetti spesso contraddittori che vengono messi ormai in quest’unico calderone.

Per fare un esempio, l’incredibile aumento dei prezzi degli immobili in America viene solitamente portato fra i casi piu’ lampanti di inflazione in corso.

Tutti dicono che è stato generato da improbabili dinamiche di domanda e offerta scatenate dal covid (la piu’ risibile di tutte è l’idea che milioni di persone abbiano improvvisamente deciso di comprarsi una casa piu’ comoda per fare lo smart working…), oltre all’aumento delle materie prime usate nell’edilizia che c’era stato molti mesi fa.

Ma la realtà è molto piu’ prosaica, e ci dice anzitutto che i prezzi di alcune di queste materie prime sono già crollati, come ad esempio il legname, molto usato negli USA:

In secondo luogo, come dimostra questo articolo, i prezzi sono in salita, perché i grandi fondi, come Blackrock e Vanguard, stanno facendo incetta di immobili, comprandoli a prezzi anche 10 volte superiori al normale (pur di convincere i proprietari a vendere).

E tra l’altro questo trend sta facendo anche aumentare i prezzi degli affitti, contrariamente a quanto aveva previsto Bloomberg, mettendo nell’angolo milioni di Americani che si vedono impossibilitati sia a comprare che ad affittare.

E’ evidente che qui non possiamo parlare di inflazione in senso classico, come una dinamica di domanda e offerta che riflette il rafforzamento di qualche settore economico, ma piuttosto di una bolla creata da Wall Street che acuirà ulteriormente la povertà e sottrarrà ancora piu’ risorse all’economia reale.

E per inciso, come abbiamo detto molte volte nella nostra newsletter, anche gli aumenti di alcune materie prime oggi sono causati dalla speculazione di Wall Street che “scommette” a rialzo sullo zucchero, il succo d’arancia e chissà cos’altro nel mercato dei futures.

Non si spiega altrimenti per quale motivo tutte queste materie prime salgano in modo cosi’ veloce, mentre gli indicatori dell’inflazione per eccellenza: l’oro e l’argento, restano al palo o vengono forzati a ribasso da un mercato dei futures un po’ troppo “selettivo” per essere il riflesso di dinamiche economiche reali…

Insomma, per farla breve, la verità è che in questo scenario post covid gli esempi di inflazione vera e propria sono pochissimi. Al contrario, vi sono molte problematiche temporanee di vario tipo che sarebbe lungo elencare, ma che generalmente sono dovute o a speculazione nei derivati o a interruzioni delle catene di distribuzione delle merci.

Il futuro: una inflazione temporanea che diventerà permanente?

Oggi pero’ sto iniziando a rivedere questa opinione. Non perché nel frattempo siano intervenuti altri fattori “non temporanei”, ma piuttosto perché sembra che alcune problematiche che rientrano nella categoria delle “interruzioni della catena di distribuzione” non possiamo piu’ considerarle temporanee

In realtà, in un mondo normale, queste problematiche sono temporanee per loro stessa natura.

Ma, come dimostra quello che accade in Cina, oggi NON siamo piu’ in un mondo normale…

Come tutti i media hanno riportato, in questi giorni la Cina ha sospeso le operazioni presso il terminal container Meishan di nuova costruzione nel porto di Ningbo-Zhoushan, il secondo porto più trafficato della Cina dopo Shanghai.

Il motivo è che un lavoratore del terminal era risultato positivo al covid…

In realtà, secondo una dichiarazione della portacontainer CMA CGM, citata da Bloomberg, non solo le operazioni di quel singolo terminal, bensi’ tutto il traffico di container nel porto di Ningbo-Zhoushan probabilmente rallenterà, dal momento che verranno accettati container solo dopo due giorni dall’orario di arrivo stimato di una nave.

Questo intoppo avviene alla vigilia della stagione di punta delle spedizioni, quando i rivenditori negli Stati Uniti e altrove iniziano a mettersi in coda per esportare in America le merci cinesi destinate alle vendite natalizie.

Inoltre, si tratta della seconda grande interruzione del genere in Cina.

Alla fine di maggio, infatti, lo Yantian International Container Terminals a Shenzhen ha smesso di accettare container a causa di un’infezione da covid tra i lavoratori portuali. Il porto ha quindi operato al 30% della capacità per circa un mese.

In quella occasione, le navi portacontainer si erano accumulate al largo di Shenzhen e Hong Kong, in attesa di raccogliere container diretti in Nord America, Europa e altre parti del mondo, causando ogni tipo di interruzione nelle fabbriche cinesi e innumerevoli mal di testa a coloro che si occupano della catena di approvvigionamento all’estero.

Anche quando il porto ha ripreso le normali operazioni, ci sono volute settimane per superare l’arretrato e i container impilati.

Questi tipi di interruzioni della catena di approvvigionamento si stanno accumulando in tutte le direzioni e sono destinati ad incrementare ulteriormente i prezzi per gli utenti finali.

Ripeto: tutto questo insieme di caos marittimo, ingorghi, congestione dei porti per container, congestione dei terminal ferroviari, carenza di container, ritardi di ogni tipo, insieme a varie carenze, tra cui la carenza di semiconduttori e l’esplosione dei costi di trasporto in tutto lo spettro economico potrebbe e dovrebbe essere temporaneo, perché ha una causa ben precisa: il covid e il modo in cui viene gestito.

Ma proprio per questa ragione, inizio a pensare che non sarà temporaneo, in quanto è sempre piu’ evidente che non c’è alcuna intenzione di rivedere le modalità con cui ogni nuovo caso di covid viene gestito.

Cosa potrà succedere se il covid non verrà gestito in modo adeguato

Il mondo delle navi e dei container è sempre stato portatore di malattie infettive, per la semplice ragione che gli equipaggi sono costretti a lunghi periodi di convivenza in ambienti chiusi, prima di poter sbarcare da qualche parte.

Non è la prima volta che in questo ambiente vi sono casi di malattie infettive. Anzi, si puo’ dire che per questo mondo sia la norma

Ora, qualsiasi opinione ci si faccia del covid, nessuno potrà affermare che si tratta di una malattia piu’ grave, né piu’ contagiosa di tutte le altre che si diffondono regolarmente fra gli equipaggi.

La malaria, la tubercolosi, la meningite…malattie piu’ mortali del covid, anche se forse meno contagiose, si sono diffuse per tutti questi anni nelle navi senza causare mai una interruzione del commercio globale.

Normalmente, se c’è qualche caso di patologia infettiva, si isola l’equipaggio e si mette in quarantena la nave, oppure si fa lo stesso col personale di terra.

Oggi invece, anche un solo caso di covid puo’ provocare il blocco di un intero porto, e quindi dell’economia globale, senza che a nessuno venga in mente che forse c’è qualcosa di abnorme nelle procedure adottate per gestire questi episodi.

Ora, non sto a speculare sul motivo di tutto questo. Qualunque sia la ragione di questa anomalia, guardando a quello che accade in Cina mi sembra evidente che sia destinata a durare.

In tutti i consessi internazionali, dal G7 al G20 per passare al World Economic Forum, non è mai prevista in agenda una discussione su come si possano modificare le linee guida sul covid in questi ambiti, adeguandole a standard scientifici accurati e realistici, condivisi da tutti e adeguati alle esigenze del commercio mondiale.

E’ come se il problema non esistesse.

Quindi, di conseguenza, assieme a questa abnorme e irrealistica gestione dei casi di covid, durerà anche l’aumento dei prezzi al consumo che negli States è già molto visibile, mentre in Europa, grazie alla recessione già in atto in quelle zone, è meno evidente.

Non chiamiamola “inflazione”, perché non ha nulla a che fare con questa parola, cosi’ come viene definita nei libri di economia. Tuttavia gli effetti sui prezzi è del tutto simile. Con la differenza che sta avvenendo in uno scenario di impoverimento della popolazione, anziché in una situazione di ripresa economica (come avverrebbe nell’inflazione classica).

Inflazione covid-dipendente ed emissione di liquidità: la ricetta per il disastro

Negli Stati Uniti poi il governo e la Fed stanno gettando sul mercato molti trilioni di dollari in tutte le direzioni.

Una parte molto piccola di questo denaro finirà per arrivare all’economia reale e alla popolazione. Ma si tratta comunque di una quantità molto superiore a qualsiasi altro tipo di aiuto mai effettuato. E sarà sufficiente per aumentare le spese dei beni di consumo che sono per lo più fabbricati all’estero, incrementando esponenzialmente gli effetti di questa perversa dinamica dei prezzi.

Ecco un altro motivo per cui l’America verrà colpita piu’ duramente dell’Europa. O meglio, è il motivo per cui in Europa questa simil-inflazione arriverà dopo (le economie sono talmente intrecciate che non sarà possibile per l’Europa sottrarsi a lungo a questo destino).

Quindi, riassumendo: i tassi resteranno bassi, La Fed non farà alcun “tapering” (o ne farà uno “dimostrativo” di minimo impatto e di breve durata). La liquidità emessa dai programmi governativi americani continuerà a inflazionare i mercati, le cripto e i derivati. Ma nel frattempo, se le misure anticovid non verranno rimodulate, l’aumento dei prezzi dilagherà e diventerà permanente, finché l’economia reale entrerà in una fase di agonia con esiti difficili da prevedere, non certo positivi…

Tutto questo lascerà certamente invariati tutti i trend che siamo abituati a seguire: i mercati azionari e le criptovalute soprattutto.

Ma alla fine rischiamo di diventare ricchi, investendo in questi trend, per ritrovarci poi in un mondo in cui i soldi non basteranno ad evitarci i pericoli (sociali, sanitari, ecc.) prodotti da un’economia globale allo sbando gestita da governi preoccupati solo delle loro alchimie monetarie.

Continueremo a tenere d’occhio questa rischiosa situazione nelle vie di commercio internazionali e speriamo in futuro di pubblicare notizie piu’ incoraggianti…

Ottobre e Novembre 2021: due date da ricordare…

Dal momento in cui, nella notte fra domenica e lunedi, è avvenuta quella strana chiusura in massa di posizioni futures sull’oro e l’argento, con un dumping di ben 3 miliardi di dollari effettuato in soli 12 minuti, mi si è accesa una lampadina che non accenna a spegnersi.

Come ho spiegato nella nostra newsletter gratuita, le dimensioni e la velocità di questi movimenti fanno pensare alla mano di una banca centrale, probabilmente la Federal Reserve, che si sta muovendo in preparazione di qualche evento di cui a nostra volta dovremmo capire la natura, in modo da prepararci anche noi, se possibile…

Se cerchiamo di leggere i dati economici con una mente sufficientemente aperta per cogliere il quadro generale, a me sembra che l’evento piu’ probabile, al momento, potrebbe essere una crisi di liquidità simile a quella avvenuta alla fine del 2019.

Tuttavia, andando ancora piu’ a fondo nell’analisi dei dati, non solo economici, ma anche politici, abbiamo individuato un secondo evento che potrebbe avvenire di seguito al primo, ossia una possibile ripresa delle guerre valutarie che spingeranno la Fed a portare nuovamente in basso il valore del dollaro.

Quindi, ricapitolando, e proponendo delle date ipotetiche:

Ottobre 2021: crisi di liquidità con aumento del dollaro e del prezzo dell’oro.

Novembre 2021: guerra valutaria e decisione della Fed di aumentare la competitività del dollaro abbassandone il valore (conseguente diminuzione dei tassi e dell’oro).

Le cause di questi due eventi sono già presenti da alcuni mesi, ma non hanno ancora raggiunto la visibilità sufficiente a scatenare i loro effetti.

Vediamo quali sono.

Ottobre 2021: Crisi di liquidità

Diversi fattori che fanno pensare a questo tipo di crisi sono già in atto da tempo. Basta solo leggerli nei dati economici:

1. La banca centrale cinese ha recentemente abbassato il requisito del coefficiente di riserva che le banche commerciali devono detenere contro i prestiti. Ciò indica debolezza economica in Cina e problemi di liquidità nelle banche.

2. Le banche centrali dei paesi emergenti stanno facendo incetta di oro. Secondo Akash Doshi di Citigroup, tali acquisti potrebbero raggiungere le 1.000 tonnellate. Una cifra che rappresenta oltre il 20%dell’oro prodotto ogni anno dalle miniere.

3. I governi stranieri stanno riducendo le loro disponibilità di titoli del Tesoro USA. I media “complottisti” credono che cio’ indichi un’avversione al dollaro. In realtà è solo l’indizio che i sistemi bancari esteri sono alla disperata ricerca di dollari e vendono titoli del Tesoro per ottenerli.

4. La curva dei futures sull’eurodollaro si è leggermente invertita, indicando una situazione chiamata backwardation (i futures a breve scadenza costano piu’ di quelli a lunga scadenza). Ciò indica che le banche e le grandi istituzioni si aspettano tassi più bassi sul dollaro a lunga scadenza (un segno di recessione) e tassi più alti nel breve termine (un segno di difficoltà finanziarie).

5. La Federal Reserve, nell’ultima riunione ha deciso di ripristinare i suoi interventi nel mercato repo (con cui elargisce liquidità giornaliera alle banche che ne hanno bisogno) rendendoli permanenti (finora erano stati occasionali, solo in caso di necessità) fissando un tasso repo allo 0,05%. Indicativo è anche il fatto che questi interventi saranno disponibili anche per le banche centrali straniere che possano avere bisogno di dollari.

Quest’ultimo elemento dovrebbe essere affiancato all’altra misura con cui abbiamo aperto l’articolo, cioè l’affossamento del prezzo dell’oro, con cui la Fed non solo previene un aumento eccessivo di questo metallo in caso di crisi conclamata, ma induce anche le banche centrali dei paesi emergenti a richiedere piu’ dollari, invece che “perdere tempo” ad accumulare oro.

Novembre 2021: Recessione

La crisi di liquidità è solo un evento collaterale che potrebbe avvenire come anticipo di un fenomeno sottostante di ben piu’ vasta portata, ossia una possibile recessione o un rallentamento dell’economia globale.

Anche di questo fenomeno esistono già abbondanti prove nei dati.

Infatti, mentre i media tentano da mesi di convincerci che l’economia globale è in ripresa assieme all’inflazione, i numeri ci dicono tutt’altro:

  1. Tutti i punti precedenti dall’1 al 3 che indicano mancanza di liquidità (in dollari) nei paesi non occidentali sono anche la prova indiretta che la bilancia commerciale di questi paesi si è indebolita e non è in grado di assicurare riserve in dollari. Infatti:

2. Anche gli ultimi dati americani sulle esportazioni sono deboli, un riflesso del fatto che il resto del mondo non compra i prodotti USA, perché l’economia globale è già in precarie condizioni.

3. In America, il reddito personale è sceso del 30% su base annua, mentre uno dopo l’altro i sussidi governativi per il covid si stanno esaurendo (i prestiti alle aziende a tutela del personale sono finiti. La moratoria per lo sfratto degli affitti è stata prorogata di 90 giorni, ma prima o poi verrà abolita. E molti Stati stanno già chiudendo i programmi di aiuti ancora ufficialmente in corso a livello federale).

Con i sussidi governativi in via di esaurimento, il reddito privato stagnante e le esportazioni in calo, non è chiaro cosa guiderà la crescita del PIL americano nella seconda metà del 2021.

Non per niente, i rendimenti alla scadenza dei titoli del Tesoro USA a 10 anni sono in forte calo dallo scorso marzo. Ciò è indicativo di una fuga verso questi titoli nell’aspettativa di disinflazione e crescita economica più lenta in futuro.

Conclusione: ma perché proprio novembre?

Ma perché proprio a novembre la Fed potrebbe decidere di prendere delle contromisure conto questo rallentamento economico?

Perché a novembre saranno noti i dati economici del trimestre luglio-settembre.

Infatti, facciamo due conti.

Se gli ultimi dati pubblicati, influenzati soprattutto dall’apparente ripresa economica di aprile e maggio, hanno indicato un PIL del 6,5%, comunque piu’ basso delle aspettative, allora per il trimestre successivo, quello in cui ci troviamo ora, in cui il piccolo miracolo economico delle riaperture post covid si sta già esaurendo, il PIL risulterà ben al di sotto del 6,5%.

E questo dato sconfortante verrà pubblicato appunto a novembre, assieme ad altri dati negativi sull’inflazione e sull’occupazione.

A quel punto, mancherà meno di un anno alle elezioni di medio termine del 2022. La Casa Bianca andrà nel panico e si rivolgerà al Tesoro per misure volte a indebolire il dollaro USA.

Per tale ragione ipotizzo che a novembre la Fed potrebbe essere portata a nuove misure di allentamento monetario per rendere il dollaro piu’ competitivo. Misure che faranno scendere i tassi d’interesse e incrementare le borse.

Riassumendo: due fasi opposte di uno stesso fenomeno

Quindi riassumendo: il rallentamento economico, sia in America che nel resto del mondo, potrebbe portare a episodi di crisi di liquidità all’inizio dell’autunno.

Se questi fenomeni saranno abbastanza forti da raggiungere i radar dei media, potremmo avere aumenti dei tassi e/o dell’oro.

In seguito pero’, il fenomeno principale sottostante, cioè l’indebolimento dell’economia globale e negli USA, verrà alla luce nei dati pubblicati a novembre e la Fed sarà costretta a nuove misure di allentamento monetario.

In quel caso, gli effetti saranno opposti a quelli precedenti, cioè si avrà riduzione dei tassi e del prezzo dell’oro (e aumento delle borse).

Avendo in mente questo percorso che attraversa due fasi unite fra loro, ma dagli effetti opposti, eviteremo di confondere i trend di breve-medio periodo con quelli di lungo periodo.

Se ad esempio investiremo in modo speculativo sull’oro, dovremo ricordarci che eventuali aumenti delle quotazioni saranno da considerarsi solo di breve-medio termine.

Allo stesso tempo, eventuali correzioni, anche profonde, delle borse, potranno essere sfruttate per aprire posizioni in vista di una successiva fase rialzista anche abbastanza forte, perché spinta dalla “sopresa” di una Fed in allentamento monetario dopo che i media per sei mesi ci avevano convinto che ci sarebbe stato invece un “tapering”.

La Cina “suicida” le industrie di punta e inaugura l’ennesima dittatura mondiale

Il settore tecnologico cinese era arrivato a livelli talmente superiori a quelli raggiunti in occidente da suscitare l’ammirazione e l’invidia di molti paesi.

Oggi possiamo dire che questa fase è superata e verrà sostituita da qualcosa che al momento è difficile da immaginare, ma che certamente non promette nulla di buono per l’investitore di borsa.

La fine del mese di luglio sancisce anche nei mercati questa importante svolta storica, di cui il grafico sotto fornisce una rappresentazione piu’ eloquente di mille parole:

Per tutti questi anni il Nasdaq e il KWEB (linea viola: l’Etf che traccia l’andamento dei titoli tecnologici cinesi) erano andati di pari passo, immagine e specchio della corsa verso il progresso dei due paesi piu’ avanzati al mondo: la Cina e gli Stati Uniti.

A fine luglio, per la prima volta, i due grafici si separano, mentre la linea viola sembra precipitare verso un futuro di paura e incertezza dalle conseguenze ignote.

La separazione è anche metafora della sempre piu’ lontana visione del mondo delle due potenze e della loro faticosa ri-costruzione di due mondi separati, ciascuno sotto l’influenza esclusiva di uno dei contendenti, in un’epoca in cui la tecnologia ha reso di fatto obsoleti i confini fisici tra i popoli e i paesi.

Ma cosa ha provocato questo storico disallineamento fra i due indici?

Stavolta non si tratta di uno short squeeze o di qualche altra diavoleria dei derivati. Stavolta c’entra proprio l’economia reale e non solo: diciamo pure che c’entra la Storia con la esse maiuscola…

La Cina ha infatti iniziato una lunga stagione di stretta regolatoria nei confronti delle aziende high tech. E lo sta facendo nel modo peggiore possibile, ossia non solo con la promulgazione di nuove leggi restrittive, ma anche con drammatiche iniziative attivamente dirette verso un numero crescente di aziende.

Già la “purga” su Alibaba di alcuni mesi fa era stata traumatica (ne avevamo discusso qui), ma ora le cose si stanno mettendo male per l’intero settore e, diciamo pure, per l’intera economia cinese e per l’immagine della Cina nel mondo.

Le azioni piu’ clamorose che hanno fatto precipitare la borsa sono state:

  • Le azioni punitive contro la Didi Global (una specie di Uber cinese), accusata di pratiche monopolistiche e di minacce alla cybersecurity, oltre che per la decisione di quotarsi al NYSE senza l’approvazione del governo.
  • Stessa cosa per Tencent, accusata di pratiche monopolistiche in campo musicale.
  • Un bando quasi totale dell’educazione a distanza (ricordi come se ne parlava bene all’indomani del covid?), col divieto per le società che offrono corsi online di avere profitti, di depositare capitali in banca e di quotarsi in borsa.

Le misure nei confronti di queste società non sono solo di natura pecuniaria, ma sono dirette proprio a scoraggiare l’uso dei loro servizi da parte dei cittadini.

Ad esempio, il governo cinese non si è limitato a far pagare multe salate a Didi Global, ma ne ha anche messa al bando la app (e quelle di altre 25 società collegate), impedendo di fatto l’entrata di nuovi utenti nel servizio.

Allo stesso modo, Tencent non è stata solo costretta a pagare una multa superiore a quella inflitta mesi prima ad Alibaba, ma viene ora impedita l’entrata di nuovi utenti sulla sua Wechat, l’onnipresente app su cui i Cinesi si erano abituati a fare praticamente qualsiasi cosa, molto piu’ che noi Italiani su WhatsApp.

Queste misure incidono direttamente nella vita di milioni di Cinesi, in quanto Didi viene usata da 500 milioni di persone (contro i 75 milioni di Uber in tutto il mondo) e WeChat copre ormai quasi tutta la popolazione del paese, essendo diventata una sorta di alias di ogni singolo cinese.

Dal punto di vista sociale quindi siamo di fronte a una minaccia di vasta portata verso i minimi dettagli della vita quotidiana delle persone.

Ma personalmente non è stata questa la notizia che piu’ mi ha fatto rabbrividire.

Ho iniziato a percepire qualcosa di molto piu’ sinistro nella decisione che riguarda il bando dei corsi online, il cui sviluppo era stato portato ad esempio anche da noi in occidente…

In questo caso infatti, l’aspetto inquietante non è tanto la portata o le modalità, ma proprio la motivazione del bando…

Si, perché il governo cinese si è convinto che ridurre una eccessiva offerta di aggiornamento culturale e di promozione professionale sia la ricetta giusta per invertire l’abbassamento della natalità, considerata la causa principale del rallentamento della crescita economica.

La cultura e l’aggiornamento sono quindi visti come una “distrazione” per molte persone che invece dovrebbero pensare a mettere su famiglia. Dunque è necessario limitarne l’accesso “indiscriminato” a tutta la popolazione…

Lo so che pensi che io sia impazzito e che questa sia un fake news. Ma non lo dico io, lo dice Bloomberg

Comprenderai percio’ che qui il problema non è solo il fatto che da un giorno all’altro la TAL Education Group, una delle maggiori società di corsi online, sia passata dalla quotazione di 90 dollari di febbraio ai soli 4 dollari di oggi (seguita a stretto giro da altre aziende come New Oriental e Gaotu Technology).

L’aspetto molto piu’ drammatico è che queste “motivazioni” evocano certi momenti della storia moderna che nessuno vorrebbe far tornare in auge, ma che evidentemente, quando il progresso economico e il potere che ne deriva iniziano a dare alla testa, tendono a ripresentarsi…

Senza dover per forza rievocare l’esempio storico a cui certamente stai pensando anche tu proprio adesso, basta ricordare la “campagna dei passeri” condotta da Mao negli anni ’50 del 900…

Per fronteggiare una delle peggiori carestie mai registrate in Cina, il giovane capo di stato penso’ bene di dare la colpa ai passeri che rubavano i semi di grano ai contadini. Di conseguenza indisse una campagna di sterminio di questa specie in tutto il paese…

A quel tempo pero’ la Cina non aveva raggiunto il progresso tecnologico di oggi e non aveva una popolazione che contava fra i migliori scienziati, tecnici, ed economisti del mondo.

La palese follia che sta dietro alle decisioni dell’attuale governo cinese invece contrasta fortemente con il livello culturale raggiunto dalla sua popolazione, ormai considerata fra le piu’ avanzate del pianeta.

Ma è lo stesso, sinistro contrasto che vi era nella Germania degli anni ’30, all’avanguardia economica e scientifica del mondo di allora, ma conquistata dall’insulsaggine delle leggi razziali e degli “scienziati” di quart’ordine che le propugnavano per conto del governo.

Questa inaspettata deriva della gloriosa marcia economica cinese e della tenuta del suo governo ha talmente allarmato le élites finanziarie che ieri (28 luglio) è stata tenuta una riunione di urgenza (virtuale) tra gli esponenti delle maggiori banche internazionali e quelli dell’agenzia regolatoria cinese da cui sono partite tali iniziative.

Gli argomenti discussi non sono stati resi noti, ma è da ipotizzare che perlomeno sia stata concordata una qualche forma di sostegno economico alla borsa cinese per ridurre la sua inarrestabile corsa verso l’abisso.

Non sappiamo invece se sia stato discusso l’altro abisso nel quale potrebbe precipitare il paese, una volta che la ragione avrà del tutto lasciato le menti dei suoi governanti in balia della loro inarrestabile brama di potere e di controllo.

Solo il tempo ci dirà quali saranno le conseguenze, anche sulla stabilità mondiale, di una Cina fuori controllo in un momento in cui anche gli altri governi mondiali non stanno dando prova di affidabilità e ragionevolezza (per usare degli eufemismi).

Qualche conclusione pratica possiamo pero’ già farla:

1

  • Al momento, gli USA sentono molto la “concorrenza” cinese non solo nel campo economico, ma anche in quello politico ed “etico”, se possiamo dire cosi’.
  • Non si contano le dichiariazioni di Powell e di altri esponenti economici che si dissociano dalla deriva cinese, soprattutto in merito al “dollaro digitale”, presentato come l’alternativa “buona” all’incubo distopico che potrebbe diventare lo yuan digitale.
  • Anche la condotta dei nuovi rappresentanti delle agenzie regolatorie USA, appena nominati da Biden, ostenta pacatezza e propensione all’ascolto delle esigenze tutti i settori coinvolti (un chiaro esempio è la regolazione della blockchain, che negli USA sta procedendo in modo diametralmente opposto che in Cina).
  • Speriamo dunque che questa inquietante deriva agisca da ulteriore fattore di dissuasione negli USA, scongiurando in questo paese i pericoli di analoghi eccessi di potere.

2

  • E’ vero. So bene che c’è del metodo in questa follia, come direbbe Shakespeare.
    So bene qual è la prospettiva del governo cinese: chiudere per un certo tempo questi servizi e poi riaprirli quando le società che li gestiscono saranno del tutto trasformate in zombies agli ordini del governo.
  • E’ stato cosi’ con Alibaba. Sarà lo stesso anche con le altre società…Ma questa volta il campo di azione è cosi’ vasto e le conseguenze cosi’ profonde da mettere in dubbio l’idea che alla fine tutto tornerà a scorrere come prima…
    Non è detto che sia cosi’.

3

  • In questi giorni inizieranno a vedersi nei media finanziari dei suggerimenti su eventuali titoli di borsa cinesi su cui investire approfittando del crollo dei mercati e quindi delle quotazioni convenienti.
    Ora, nessuno di noi ha la sfera di cristallo e puo’ darsi che alcune di queste indicazioni risulteranno giuste nel lungo periodo.
    Sinceramente pero’ si dovrebbe capire che la situazione non è paragonabile a quella di tante altre crisi e crolli di borsa.
  • Se la mente dei governanti cinesi ha partorito un progetto cosi’ insano nei confronti di un dato settore, cosa impedisce che in futuro nuove follie governative non possano colpire altri settori?
    E dal momento che siamo nell’irrazionalità pura, come facciamo a prevedere quale sara’ la prossima “vittima” di questo gioco al massacro?
    C’è forse un principio di fondo, un metodo di base, una strategia su cui poter contare per fare questo tipo di previsioni? Io al momento vedo solo follia pura…per cui preferisco starmene alla larga…

Marcia indietro della Cina sull’inflazione

Una buona regola dell’investitore è quella di considerare le notizie dei media mainstream, specie quelle che vengono ripetute in modo martellante, come qualcosa di già appartenente al passato.

Un buon esempio di questo è il tema dell’inflazione, diventato ormai il tormentone estivo per eccellenza.

Ebbene, la prima volta che abbiamo parlato di inflazione in questo blog è stato il 24 marzo 2020, quindi nel pieno della prima fase pandemica, quando i media mainstream erano tutti rivolti alla deflazione, piuttosto che all’inflazione.

Questa notevole discrepanza temporale fra il nostro primo articolo e il momento in cui i media mainstream, quasi dodici mesi dopo, hanno iniziato a parlare dell’argomento, conta piu’ di mille parole.

Con questo non voglio dire che siamo dei geni o degli indovini.

In realtà all’inizio dell’anno scorso già alcuni media specializzati ed esperti analisti intravedevano l’inflazione. Noi ci siamo limitati a studiare i dati reali e a consultare i luoghi giusti dove poter accedere a queste informazioni di prima mano. Tutto qui.

In quel primo articolo avevamo fatto delle ipotesi preliminari sulle possibili cause dell’inflazione. Ipotesi che poi abbiamo corretto e perfezionato strada facendo, nei nostri numerosissimi aggiornamenti, sia sul blog che sulla nostra newsletter gratuita.

Una delle cause che abbiamo aggiunto successivamente l’abbiamo trattata in questo articolo del 21 settembre 2020 (sempre molto prima dei media ufficiali), dove discutevamo del fatto che la Cina aveva accumulato ingenti riserve di materie prime allo scopo di scatenare un’inflazione sul dollaro.

Chi avesse letto l’articolo allora e avesse investito in quelle materie prime (prima fra tutte il rame), avrebbe potuto attraversare (con ottimi rendimenti) l’intero trend rialzista che effettivamente è poi avvenuto da quel momento in quel settore e che si sta esaurendo proprio in queste settimane.

Oggi molti media economici specializzati, come questo, ci avvisano che questo potente fattore che ha dominato l’economia globale fino a portarci sull’orlo dell’isteria mediatica, non è piu’ in gioco.

La Cina infatti ha deciso di non comprare piu’ materie prime sul mercato, ma di attingere alle proprie riserve create appunto un anno fa, allo scopo di ridurre la pressione inflazionistica globale.

Da questo momento in poi, la Cina ha previsto un alleggerimento di tali riserve pari a 80.000 megatonnellate (milioni di tonnellate) al mese fino alla fine del 2021.

Possiamo scommettere quindi che da questo momento il trend rialzista sulle materie prime è già qualcosa di appartenente al passato.

Già questo mese possiamo apprezzare significativi riduzioni di questo trend, ad esempio nel prezzo del rame, che era già sceso nelle settimane scorse ai minimi di due mesi fa, e nella caduta intraday di venerdi del NYSE Arca Steel Index.

Man mano che la Cina inizierà ad alleggerire anche alluminio, zinco e altri metalli vedremo analoghi inversioni di trend in questi materiali.

Cosi’ come fra qualche mese anche il trend dell’inflazione subirà un forte colpo, avendo perduto uno dei suoi principali propulsori, e inizierà a perdere velocità e intensità.

Chissà i media mainstream quando se ne accorgeranno…

Il lockdown come politica monetaria e le restrizioni del prossimo autunno

In questo articolo discutero’ della possibilità che i lockdown possano diventare uno strumento di politica monetaria per le banche centrali, soprattutto per la Federal Reserve.

Dal 2008 la Federal Reserve ha perfezionato gli strumenti che sostengono la sua “valuta fiat”, cioè un dollaro che ha per collaterale titoli di stato emessi dal governo.

Questo tipo di valuta è soggetta a una continua perdita di potere d’acquisto, che è come l’effetto indesiderato, ma necessario, per mantere costantemente bassi i tassi d’interesse dei titoli di stato posti a collaterale.

Tuttavia questa perdita di potere d’acquisto non si era mai manifestata come inflazione.

Inflazione che purtroppo ultimamente le misure di contenimento del covid, durate nel corso dell’intero 2020, hanno iniziato a manifestare.

Nei mercati e fra le élites finanziarie è in corso un acceso dibattito per capire se si tratta di un’inflazione transitoria o a lungo termine.

Anche noi nella nostra newsletter gratuita abbiamo scritto le nostre ipotesi a riguardo e continuiamo ad aggiornare i lettori sugli effetti di questa nuova situazione.

In questo articolo pero’ parleremo di una questione molto meno teorica, che sfugge ai media.

A prescindere dal fatto che ci troviamo in un’inflazione a breve o a lungo termine, sta di fatto che la Federal Reserve inizia ad avere problemi a mantenere sotto controllo gli effetti di questa inflazione sulla stabilità dei tassi d’interesse.

Questo “affanno” si vede per ora solo nel mercato repo, cioè negli scambi che quotidianamente avvengono fra le banche e la banca centrale per riequilibrare i bilanci delle banche dopo ogni giornata di transazioni.

A causa della liquidità in eccesso creata dalla stessa Fed e dal Tesoro USA per gli aiuti del covid, ultimamente il mercato repo serve perlopiu’ a riequilibrare eccessi di liquidità nelle banche.

La liquidità infatti è una passività per le banche e percio’, quando è troppa, deve essere continuamente drenata al di fuori dai loro bilanci.

Per liberare le banche da queste passività, la Fed offre loro al mercato repo un valore equivalente di titoli di stato. Le banche comprano questi titoli pagando la Fed con i loro dollari in eccesso. La Fed cosi’ si accolla questi dollari, che entrano a far parte della sua passività.

Ora, attenzione alle cifre: il 10 giugno la Fed ha dovuto vendere alle banche titoli di stato per un valore record di 535 miliardi, liberando le banche da un corrispettivo controvalore di liquidità in eccesso (se ne parla qui).

Non solo questo valore, 535 miliardi, è il piu’ alto mai calmierato nel mercato repo, ma si tratta anche di una cifra che annulla gli effetti di 4 mesi e mezzo di QE.

Questo punto è molto importante e va spiegato bene.

Facciamo una premessa.

Ufficialmente, come si sa, la Federal Reserve è impegnata in un programma di riacquisto di 120 miliardi al mese di titoli di stato (il famoso QE).

Il QE servirebbe a mantenere bassi i tassi di questi titoli, evitando che i loro prezzi scendano – i tassi, come si sa, sono inversi al prezzo -.

Con il covid lo stato americano e la banca centrale hanno emesso titoli pari a 3 trilioni di dollari, a cui si aggiungeranno altri 7 o 9 trilioni quest’anno, fra aiuti e investimenti vari.

Se si aumentassero anche di poco i tassi, si manderebbe in bancarotta lo stato federale, costringendolo a pagare cifre astronomiche di interessi.

Quindi, se il QE è sempre stato uno degli strumenti essenziali per le politiche monetarie legate alla valuta fiat, dopo il covid (e dopo l’enorme liquidità emessa e da emettere a causa della pandemia), il QE è diventato l’ultima diga di sbarramento prima del tracollo dei conti pubblici.

Ora, cerchiamo di capire quello che sta facendo la Fed con questa “diga”.

Da una parte, per mantenere bassi i tassi, la Fed compra sul mercato titoli di stato.

Dall’altra, nel mercato repo, la Fed vende titoli di stato per liberare le banche dalla liqudità in eccesso.

Ma questo circolo vizioso sta raggiungendo un livello di contraddizione significativo, in quanto, gli stessi titoli di stato che la Fed ha comprato negli ultimi 4,5 mesi sono stati rivenduti dalla stessa Fed.

In pratica, la Fed si sta avviando verso un gioco a somma zero: da una parte continuerà a comprare questi titoli, ma dall’altra sarà costretta a venderne una parte sempre piu’ vicina alla quantità totale che ha acquistato.

Spero sia tutto chiaro finora, perché adesso è il momento di tirare le somme (e di introdurre anche l’argomento lockdown, di cui non ci siamo certo dimenticati).

La Fed sta facendo il gioco delle tre carte con i titoli di stato: di giorno li compra e la notte li rivende al mercato repo.

In quale scenario avviene questo?

In uno scenario in cui la stessa Federal Reserve ufficialmente afferma che l’inflazione è sotto controllo e che non vi è alcuna necessità di mettere in campo misure diverse in campo monetario.

Quali sarebbero le misure che la Fed dovrebbe adottare in caso d’inflazione?

Storicamente, i due strumenti usati dalla Federal Reserve sono due:

  • ridurre – fino ad annullarlo – il programma di riacquisto (QE) di titoli di stato (il cosiddetto “tapering”)
  • e successivamente, se la prima misura è insufficiente: aumentare i tassi d’interesse dei titoli di stato

Nelle precedenti fasi inflazionistiche (ad esempio negli anni ’70 e nel 2011), la Fed ha sempre usato questi due strumenti nella stessa successione temporale.

Prima si fa il “tapering” e poi, se la situazione non migliora, come misura di emergenza si aumentano i tassi d’interesse.

Ma se oggi la Fed rivende sul mercato quantità crescenti di titoli di stato. Gli stessi titoli che si era impegnato ufficialmente a comprare, non sta già facendo una specie di “tapering” mascherato?

E se lo sta facendo, non vuol dire che l’inflazione, di qualsiasi tipo si tratti, sta già rendendo difficile mantenere i tassi d’interesse sotto controllo?

Ripetiamolo: gli strumenti per evitare gli effetti valutari dell’inflazione sono solo due:

  • il “tapering”
  • e l’innalzamento dei tassi d’interesse

Visto che la Fed sta già di fatto adottando un “tapering”, se questo non dovesse bastare, si dovrebbe passare alla seconda opzione, cioè all’aumento dei tassi?

Eh no. Non in questo caso…

L’aumento dei tassi d’interesse è sempre stata l’ultima chance, per il semplice fatto che costringe i governi che emettono i titoli di stato a pagare interessi molto maggiori su tali titoli.

Ma come abbiamo detto prima, abbiamo 3-9 triliardi di dollari già stampati e da stampare, che richiederanno l’emissione di un pari valore di titoli di stato.

Se il Tesoro dovesse pagare dei tassi d’interesse, anche vicini allo zero, su questa montagna di titoli, andrebbe in bancarotta.

Percio’ l’opzione di alzare i tassi per battere l’inflazione, stavolta non è piu’ l’ultima spiaggia… è semplicemente qualcosa da evitare a ogni costo…non si puo’ piu’ fare e non si farà mai. Dimetichiamoci dei tassi d’interesse. Punto.

Ma allora, cos’altro si puo’ fare?

E’ qui che arriviamo al lockdown…

Proiettiamoci in un futuro prossimo e immaginiamo che questa inflazione, anche se transitoria, dovesse persistere ancora per un semestre…

E mettiamo che la Fed continui a fare il suo “tapering” mascherato fino a che questa misura non avrà piu’ effetto.

Cos’altro credi che farà la Fed per arginare l’inflazione?

Abbiamo detto che l’aumento dei tassi non è piu’ un’opzione.

Cancelliamolo quindi dal breve elenco delle misure antiinflazione della Fed.

Deve esserci qualcos’altro da poter fare…

Si, qualcosa da fare c’è. Ed è stato già sperimentato con successo per oltre un anno. Si chiama lockdown….

L’obiettivo è di moderare i consumi per dare il tempo alle catene di produzione di distribuire i prodotti e i servizi in equilibrio con la domanda.

Ci sono tanti modi per orientare i consumatori, deviandoli dai settori ancora in squilibrio. Ma i lockdown si sono dimostrati lo strumento piu’ rapido ed efficace.

Non dev’essere per forza un lockdown totale come quello dell’anno scorso. In effetti il cosidetto “mondo dopo il lockdown” di cui tutti parlano non è altro che una ridefinizione del modo con cui potremo usufruire di beni e servizi (e anche uno sfoltimento drastico dell’offerta di tali beni e servizi).

Non avremo piu’ la libertà di comprare tutto in qualsiasi momento. Non finché c’è lo spettro dell’inflazione.

Ecco che quindi, la prevedibile recrudescenza autunnale della circolazione dei virus, potrebbe essere sfruttata per ripristinare restrizioni ai movimenti (e ai consumi) di vario tipo che abbiano come effetto quello di rallentare la pressione inflazionistica.

Già dopo l’estate del 2020 le restrizioni furono ripristinate. Accadrà lo stesso questo autunno.

Bisogna iniziare a pensare ai lockdown come a misure di politica monetaria vere e proprie. Tali misure saranno sempre piu’ necessarie man mano che le misure finanziarie tradizionali diverranno sempre piu’ inefficaci…

Ne riparleremo fra quattro mesi…

L’inflazione e le borse: una analisi completa

Scrivo questo articolo, perché la confusione regna sovrana intorno all’argomento “inflazione” e davvero si sente il bisogno di un chiarimento.

La maggior parte della confusione deriva dal fatto che i media e gli analisti confondono di continuo l’inflazione “possibile”, che potrebbe arrivare, dall’inflazione “reale” che c’è oggi.

A seguito di queste informazioni fuorvianti, i mercati stanno attuando delle strategie contraddittorie e spesso eccessive che finiranno per rovinare i bilanci di molti fondi di investimento.

Per capirci qualcosa in piu’ dobbiamo quindi iniziare a distinguere l’inflazione possibile da quella che è in atto già oggi.

Inflazione possibile

L’inflazione possibile (principalmente sul dollaro) è quella che molti economisti prevedono possa derivare dalla enorme massa di liquidità che sta per invadere l’economia americana sotto forma di programmi governativi di investimento e di spesa sociale (circa 6-7 trilioni di dollari).

La tesi degli economisti è che questa liquidità aumenterà la capacità di spesa degli Americani, specialmente se i programmi vaccinali contribuiranno ad allentare le restrizioni agli spostamenti e alla libertà di acquisto.

Ma questa crescente domanda dei consumatori, dicono questi esperti, potrebbe non essere soddisfatta da un adeguato aumento dell’offerta, almeno nel medio termine, perché le aziende già ora faticano a stare al passo e, anzi, quelle che sono colpite dalla scarsità di materiali, come i semiconduttori, stanno addirittura riducendo la produzione.

Questa inflazione, è bene sottolinearlo ancora una volta, NON si è ancora manifestata nell’economia.

Inoltre, la sua reale comparsa è condizionata da una serie di “se”.

-Se i consumatori davvero spenderanno di piu’ tutta la liquidità in arrivo (alcuni economisti sono scettici, perché è stato osservato che i 5 trilioni già stanziati l’anno scorso hanno aumentato i consumi, ma non quanto ci si aspettava. La gente ha preferito risparmiare, pagare i debiti o investire).

-Se l’offerta sarà davvero cosi’ limitata a fronte della domanda (Gli Americani consumano molto piu’ beni esteri che americani, al punto da portare, durante la pandemia, il deficit commerciale USA a un peggioramento del 52% rispetto al 2019. Sappiamo che i produttori di questi beni, soprattutto asiatici, non risentono della crisi di produzione che colpisce le aziende americane; quindi tutto il discorso sulla domanda e l’offerta deve essere rivisto).

-Se la crisi delle forniture dei materiali, tipo i semiconduttori ecc., durerà davvero oltre il prossimo semestre (alcuni economisti in effetti ipotizzano che durerà fino al 2022, ma altri dicono il contrario. Siamo nel regno delle ipotesi dunque. Tutto è possibile).

Tutti questi “se” dovranno concretizzarsi saldamente nell’economia, prima che un’inflazione da essi catalizzata inizi a manifestarsi.

L’inflazione che c’è oggi ha invece una causa diversa, anche se apparentemente correlata alla prima.

L’inflazione reale

L’inflazione reale che c’è oggi sul dollaro è legata anch’essa alla temporanea riduzione delle forniture di alcune materie prime.

Sembrerebbe quindi, come la precedente, collegata al discorso della domanda e dell’offerta.

In realtà non è cosi’, perché per il momento sembra piu’ che altro un fatto comportamentale, non strettamente economico.

Inflazioni di questo tipo sono ben presenti nella storia economica.

Una di queste ad esempio interesso’ gli aumenti dei prezzi avvenuto nei paesi europei dopo l’adozione dell’euro.

Anche li’ non si tratto’ di una questione legata alla domanda e all’offerta, ma di un abito mentale diffusosi per semplice imitazione da un settore all’altro e da un paese all’altro.

Questo articolo si focalizza sul settore edilizio per spiegare come si sta sviluppando questo tipo di inflazione in America.

L’articolo spiega che nel corso della pandemia e nei mesi successivi ci sono stati effettivamente dei blocchi nelle forniture di molte materie prime (ad esempio il legname).

Inizialmente la domanda di queste merci era ancora bassa, a causa delle restrizioni del covid, e quindi non si riflettevano sui prezzi.

Nel 2021 invece la domanda è iniziata ad aumentare quando ancora non si sapeva se tali forniture sarebbero tornate alla normalità. Percio’ c’è stato un iniziale aumento dei prezzi di queste merci.

Oggi tuttavia le forniture di molte materie prime legate all’edilizia mostrano di essersi normalizzate e quindi sarebbero in grado di soddisfare l’aumento di produzione da parte dei costruttori di case.

Tuttavia il fatto che i costruttori si siano abituati a spendere di piu’ per quei materiali, spinge i fornitori a mantenere ancora i prezzi elevati, anche senza ragione.

Aggiungiamoci poi la speculazione del mercato dei futures, che è arrivata a scommettere cifre irragionevoli sugli aumenti di queste materie prime, e abbiamo la ricetta perfetta per un’inflazione come abito mentale, piu’ che come evento fondato su cause economiche reali.

In realtà oggi le uniche merci che sono ancora introvabili sono i semiconduttori e pochi altri componenti dell’elettronica. E lo sono perché c’è una precisa intenzione da parte della Cina di impedirne l’esportazione. Il covid non c’entra nulla in questo caso.

Eppure i prezzi di tutte le altre materie prime continuano ad aumentare, anche perché, come dicevamo, c’è una speculazione sui futures che li alimenta.

In sostanza, oggi c’è un’inflazione come abito mentale che non sembra correlata a fattori economici concreti.

Certo, l’inflazione “possibile” che abbiamo discusso prima potrebbe prendere piede e sostituirsi a questa.

Ma devono prima attuarsi tutti i “se” che abbiamo già elencato.

In quel caso, pero’, ne sono certo, i mercati si risveglierebbero dai giri a vuoto di oggi e prenderebbero direzioni piu’ precise.

Quali?

La domanda è molto pertinente…

Questa fase laterale e inconcludente dei mercati è semplice da capire: se osserviamo bene, possiamo vedere che determinati trend in alcuni settori avvengono come reazione all’inflazione possibile, mentre in altri settori rispecchiano i timori sull’inflazione reale.

Ad esempio, la scelta di togliere dai portafogli le aziende che hanno un forte indebitamento o che effettuano forti programmi di riacquisto delle loro quote azionare sui mercati è legato ai timori dell’inflazione possibile.

Invece la preferenza per le aziende che forniscono materie prime o che sono impegnate nel loro trasporto e fornitura, riflettono l’inflazione reale sulle materie prime (che pero’, come abbiamo visto, non è ancora legata a cause economiche profonde).

Nel mezzo si trovano quasi tutti i settori che hanno tenuto banco l’anno scorso, come i tecnologici e le biotech, e quelli che invece potrebbero andare forte nelle riaperture, come la aziende di trasporti, i retailers e i loro fornitori, ecc.

Si tratta dei due terzi dell’intero mercato americano che oggi viene ignorato o subisce delle vendite irrazionali, solo perché, parliamoci chiaro… quale azienda oggi non ha qualche “difetto” agli occhi di chi teme l’inflazione possibile e/o quella reale?…

Come dicevo, è inutile stare a parlarne troppo: non c’è alcun disegno o strategia in tutto questo. Solo pura irrazionalità e indecisione.

Al contrario, gli effetti profondi e di medio-lungo termine che i due tipi di inflazione potrebbero innescare sui mercati se si affermassero in modo concreto e duraturo sono un’informazione molto piu’ utile da dare.

Parlarne ora appesantirebbe troppo la lettura di questo articolo già troppo denso, ma comprendiamo l’importanza di questo argomento.

Lo tratteremo percio’ nei prossimi giorni in un nuovo articolo che invieremo agli iscritti della nostra newsletter gratuita.

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